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Dichiarazione di voto

Il 25 aprile del 1994 pioveva a Milano. Ma piazza Duomo era piena. Il partito di Berlusconi aveva vinto le elezioni e il manifesto organizzò quella grande giornata per dire che in ogni caso non eravamo rassegnati. Non amo le folle ed è da allora -vent’anni fa- che non partecipavo a una manifestazione politica di massa.
Anche il 22 maggio del 2014 è piovuto su Milano. Ma in piazza Duomo, come allora, tante persone di tutti i generi, molte sotto i trent’anni. Signori in giacca e cravatta -me compreso-, ragazzi con le magliette del M5S, coppie di anziani, signore con i loro cani, persone avvolte nelle bandiere NoTav.
Tra i primi a intervenire Aldo Giannuli, docente di scienza politica alla Statale di Milano, anarchico. Parla del sistema politico bloccato, della corruzione, delle alchimie elettorali con le quali i partiti da decenni al potere tentano di perpetuarsi.
Arriva Beppe Grillo. Mi sembra un poco stanco. Sempre plebeo. Tra le tante altre cose, dice che il comunismo è una buona idea realizzata male. Il capitalismo, invece, è stato realizzato benissimo, poiché il capitalismo è questo. «Il capitalismo non è democratico», dice. Si scaglia contro le multinazionali, contro la televisione «che è senza memoria», «contro la schifezza di questa informazione». Ricorda che i rimborsi pubblici spettanti al M5S sono stati rifiutati e messi a disposizione delle piccole imprese. In Lombardia più di 503.000 €. Parla anche del «terrore del potere», il terrore che il potere ha nel trovarsi di fronte persone non ricattabili, non complici. La parola da lui più pronunciata e ripetuta è stata «lavoro». I nomi più fischiati sono quelli di Berlusconi e di Napolitano.
Poi interviene Dario Fo, applauditissimo. Contro le ‘larghe intese’ in Italia e in Europa, contro la menzogna, contro il loro avere «un teschio invece che una faccia», grida «giù la maschera, ipocriti!» Aggiunge, ricordando un detto ripetuto anche dal Sessantotto: «Bisogna possedere la conoscenza. Il contadino conosce trecento parole, il padrone mille. Per questo lui è il padrone». Fa una breve lezione sul ‘populismo’, sulla sua etimologia e sul suo significato: «politica al servizio del popolo», politica -ad esempio- «contro la violenza dei padroni», la violenza di Marchionne. Infine recita un testo di Angelo Beolco, detto Ruzante (1496-1542): «Giustizia buona per la gente tutta […] La collettività che si fa governo. […] Nel cervello i chiodi meravigliosi della ragione […] Quando sarò disteso, vorrei che si dicesse di me: ‘Peccato che sia morto, era così vivo da vivo’».
Alle elezioni europee stavolta voterò. E voterò per il Movimento 5 Stelle. La personalizzazione della politica è uno dei più devastanti effetti della sottocultura televisiva e berlusconiana. A me non interessano Grillo o Renzi o altri nomi ma ho seguìto con attenzione in questo anno il lavoro dei gruppi parlamentari del Movimento. E a un anno di distanza sono pienamente soddisfatto dell’azione del partito per il quale ho votato lo scorso anno. Quel poco di buono che questo Parlamento ha approvato e il molto di pessimo che ha evitato sono in grandissima parte frutto della presenza dei parlamentari 5 Stelle. Coloro che nel 2013 alle politiche votarono per il Partito Democratico sono altrettanto contenti?
Voterò per il Movimento 5 Stelle per molte ragioni, soprattutto per il programma politico che intende proporre e attuare in Europa, che è questo: abolizione del fiscal compact (vale a dire -al di là del latinorum britannico dei Don Abbondio del XXI secolo- abolizione del capestro economico messo al collo degli italiani), adozione degli eurobond, esclusione del limite del 3% annuo degli investimenti in innovazione e nuove attività produttive, alleanza tra i paesi mediterranei per i comuni interessi, finanziamenti per le attività agricole finalizzate ai consumi interni, abolizione del pareggio di bilancio (inserito in modo stolto e criminale dal PD e da Forza Italia nella Costituzione, cosa che altri Stati europei si sono guardati dal fare), referendum per la permanenza o meno nell’euro.
Ma soprattutto voterò 5 Stelle perché questo Movimento dice oggi quello che una volta diceva la sinistra, è oggi quello che una volta era la sinistra, perché è l’unica speranza istituzionale per l’Italia e per l’Europa, per le classi sfruttate, per gli imprenditori disperati, per i giovani senza futuro. Per noi.

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Altre ragioni sono efficacemente indicate da un ironico Appello agli elettori del collega e amico Prof. Elio Rindone.

Scrivo qui sotto i nomi che indicherò sulla scheda elettorale. Li ho selezionati scorrendo le biografie, le intenzioni, i video dei candidati della circoscrizione Italia Nord ovest. Si tratta di Fabrizio Bertellino (prov. di Torino), Marika Cassimatis (Genova), Marco Sayn (Val Susa).

 

Esilio

Sino a qualche decennio fa era possibile rinunciare alla cittadinanza di un Paese europeo e assumere la condizione di apolide. Nietzsche, ad esempio, non fu più tedesco e non prese la cittadinanza svizzera. Era diventato un senza patria, un apolide per l’appunto. Il processo di burocratizzazione degli Stati successivo alla Prima guerra mondiale ha reso progressivamente impraticabile tale condizione.
Fosse ancora possibile, non vorrei essere più un italiano. Non vorrei appartenere alla nazione più corrotta d’Europa, nella quale basta scavare un poco per toccare vivo il malaffare. Non soltanto nelle grandi opere / grandi appalti, come il TAV Torino-Lione o l’Expo milanese del 2015, autentici verminai gestiti dai gruppi finanziari, dalle aziende, dagli enti locali legati al Partito Democratico, a Forza Italia e ai loro satelliti. Strutture, queste ultime, che succhiano il danaro pubblico e se lo spartiscono con le mafie, privando di risorse e di ossigeno i cittadini e le imprese che non entrano nel loro giro di tangenti, di complicità, di rapina e di violenza. Non è solo questo. Basta controllare i conti di qualunque Comune e appalto, di qualunque ente pubblico, del mio stesso Ateneo sino a quando abbiamo cacciato via coloro che ne hanno devastato le risorse; basta questo per accorgersi che l’Italia è senza speranza e che soltanto una svolta totale potrebbe salvarla. Una svolta che si affranchi dalla subordinazione ai nemici dell’Europa -la finanza ultraliberista che non conosce confini- e ai loro portavoce politici -i partiti liberali, democristiani e socialisti. Una svolta che faccia tabula rasa del ceto politico italiano, assolutamente incapace e indegno.
Un modo di essere apolide, una maniera di stare in esilio, l’ho però trovata. Mi sono affrancato dalla più pervasiva forma di cittadinanza italiana, dall’identità di telespettatore. Mi accorgo infatti che ignoro i riferimenti di molte conversazioni e di numerosissimi interventi che leggo sulla Rete. Non so chi siano centinaia di soggetti che appaiono del tutto familiari a tante persone, anche assai vicine a me. Non conosco nomi, personaggi, situazioni, programmi televisivi. E quando mi accade di incrociare uno schermo acceso sulla tv italiana, sento un senso di profonda estraneità, oltre che di autentica repulsione. Proprio come se stessi osservando degli stranieri dei quali so poco o nulla. Il mio esilio consiste nel non avere un televisore e nel non guardare la televisione. Decisione che presi ormai tanti anni fa e che benedico ogni giorno. Decisione che consiglio a tutti (è più facile di quanto si immagini). Decisione che ha purificato la mia mente dalle scorie della stupidità (rimane, eventualmente, quella mia naturale), dai veleni della menzogna, dal nichilismo profondo di un non luogo nel quale ciò che si vede non esiste ma che milioni di telespettatori credono essere reale. Felice esilio.

 

Colori / Europa

Grand Budapest Hotel
di Wes Anderson
USA, 2014
Con: Ralph Fiennes (il signor Gustave), Tony Revolori (Zero), Saoirse Ronan (Agatha), Adrien Brody (Dmitri), William Dafoe (Jopling), F. Murray Abraham (il signor Moustafa), Jude Law (il giovane scrittore), Jeff Goldblum (Kovacs), Mathieu Amalric (Serge), Edward Norton (Henckels), Tilda Swinton (Madame D.), Harvey Keitel (Ludwig), Bill Murray (il signor Ivan), Léa Seydoux (Clotilde), Tom Wilkinson (L’autore).
Trailer del film

Colori intensissimi, come quelli dei dolciumi che costellano il film. Colori, abiti, mobili, ambienti densi dell’eleganza e della gentilezza proprie di altre epoche, nelle quali non si chiedeva per lo più alle persone di essere ‘solidali, disponibili, sincere’ ma semplicemente ben educate. Epoche più realistiche e meno ipocrite sui rapporti umani, meno pretenziose e moralistiche e quindi più autentiche. Colori e sguardi colmi di malinconia per l’andare del tempo che tutto sbiadisce e rende decrepito. Colori di violenza e di guerra, che si tratti della ferocia di un sicario o di quella di interi eserciti. Colori soprattutto intrisi di ironia, costituiti dal sogno virtuale che da sempre il cinema è.
Un modo di far cinema tecnicamente sontuoso e un sogno nel quale può accadere che negli anni Venti del Novecento un profugo da lontani Paesi diventi il fattorino preferito dell’elegantissimo concierge di un albergo posto nel cuore dell’Europa e in mezzo alle montagne; che questo direttore nutra una passione sincera e interessata verso attempate ma bollenti dame; che una di loro gli lasci in eredità un prezioso quadro ma i figli di lei non ne vogliano sapere e siano ben disposti a uccidere chiunque si opponga alla loro avidità; che nella vicenda vengano coinvolti battaglioni, pasticciere, monasteri e segrete società alberghiere.
E che tutto questo venga narrato a uno scrittore -decenni dopo- dal garzone diventato adulto e ricco, l’uno ospite e l’altro proprietario del vecchio splendente albergo ormai decadente. Come decadente è l’Europa rispetto alla volgarità dei nuovi padroni. Gli attuali capi di governo del nostro Continente somigliano proprio al nuovo congierge ignorante e indifferente ai destini dell’albergo Europa.

 

La dittatura liberale

Le democrazie contemporanee sono ridotte alla condizione di oligarchie finanziarie tenute in piedi dalla distribuzione di profitti a ben precise organizzazioni -tramite le strutture dell’economia legale e criminale- e da un apparato mediatico assolutamente ferreo, il quale presenta come universali, giuste e indiscutibili delle discutibilissime e strumentali espressioni ideologiche quali i diritti dell’uomo e il connesso gergo del politicamente corretto. I segnali linguistici di tale tendenza sono assai numerosi. Un esempio molto chiaro è la scomparsa della parola «sfruttati», sostituita da termini quali «esclusi, sfavoriti, ultimi» e soprattutto «discriminati». Mentre lo sfruttamento implica la critica a un ben preciso sistema produttivo e rapporto di produzione, i termini psicologistici e sociologici che lo hanno sostituito rimandano invece a una vaga e quindi innocua forma della morale (si comprende meglio, tra l’altro, quanta ragione avesse Nietzsche nel volere andare al di là del bene e del male).
La natura autoritaria del discorso politico e mediatico costruito su tali fondamenta arriva al suo vertice nella trasformazione dei sistemi elettorali da semplici metodi di amministrazione della volontà degli elettori a strutture ontologiche il cui obiettivo sarebbe una «governabilità» diventata l’altro nome -il nome soft– della dittatura. Ha ragione Marco Tarchi a iniziare una sua lucida analisi (dal significativo titolo I malpensanti) ricordando che «qualunque studente del primo o secondo anno di una Facoltà di Scienze politiche sa che le leggi elettorali sono uno strumento per eccellenza manipolativo. Servono cioè, a seconda della formula che ne è alla base, a distorcere il rapporto fra la volontà degli elettori, espressa attraverso il voto a un candidato e/o a un partito, e l’esito delle loro scelte, ovvero la presenza nelle istituzioni di eletti che corrispondano alle loro opinioni ed aspettative» («Diorama letterario», n. 318, pp. 1-3).
Chi è consapevole che i sistemi elettorali della democrazia rappresentativa costituiscono gli aritmetici e raffinati strumenti del dominio antidemocratico, ha sostanzialmente due alternative: il rifiuto del metodo elettorale (è la tesi della tradizione anarchica) o il voto dato alle formazioni che difendono esplicitamente la democrazia diretta e il controllo sugli eletti, formazioni che il mainstream mediatico liberista stigmatizza con la qualifica di «populisti». Una parola, quest’ultima, dal significato semplicemente descrittivo -analoga a termini quali «conservatori, socialisti, liberali, anarchici, comunisti»- e che invece ha assunto connotati valutativi e addirittura spregiativi. Il populismo viene definito antipolitico mentre è evidente che si tratta di una opzione politica come le altre e anzi volta a restituire significato ai diritti del demos ponendosi contro lo strapotere delle strutture amministrative e di governo, tese soltanto a blindare il potere di cerchie ristrette e tendenti all’autoperpetuazione dei privilegi acquisiti in decenni di espropriazione della democrazia dal basso.
La tendenza a criminalizzare le posizioni politiche distanti dagli assetti di governo attualmente imperanti in Europa si fa sempre più pericolosa poiché tocca il cuore stesso della libertà, che è il diritto di parola, di critica, di distanza dalle idee dominanti. Può sembrare un ossimoro e invece è la descrizione forse più adeguata degli eventi: quella in cui viviamo è e va sempre più diventando una dittatura liberale.

[Photo by Randy Colas on Unsplash]

La Grande Impostura

«Si ripete, anche nel nuovo governo, lo stesso schema che abbiamo visto da qualche tempo: il ministero dell’economia è stato assegnato a un cosiddetto tecnico. La trasformazione delle scelte di politica economica in scelte tecniche, e dunque in qualche modo inevitabili e necessarie, è uno dei più grandi inganni di questi anni che è stato effettuato con la complicità di una politica ormai esautorata di ogni reale potere d’azione e a spese di una opinione pubblica anestetizzata dai grandi media che ha perso ogni riferimento culturale oltre che politico.
Questa situazione è spiegata magistralmente da Luciano Gallino nel suo libro Il Colpo di Stato di Banche e Governi (Einaudi, 2013) […] Le fasi della la crisi economica scoppiata inizialmente come una crisi bancaria e finanziaria innescata da una crisi di debito privato dovuto a un’incontrollata creazione di “denaro dal nulla” nella forma dei titoli derivati da parte delle banche sia in Europa che in America.
Quando questo castello di carte è crollato, con dei costi enormi per milioni di persone, il governo americano ha sostenuto le banche per quasi trenta trilioni di dollari, nella forma di prestiti e garanzie, in parte rientrati e in parte no, mentre alla fine del 2010 la Commissione Europea ha autorizzato aiuti alle banche per più di 4 trilioni di dollari. Con questi interventi la crisi finanziaria, che fino all’inizio del 2010 era una crisi di banche private e non si era tramutata in una catastrofe mondiale, è stata caricata sui bilanci pubblici che così hanno salvato i bilanci privati. In quel momento le parole d’ordine, diffuse dai principali media, sono diventate però altre: eccesso di indebitamento degli stati, eccesso di spesa pubblica, pensioni insostenibili, spese per l’istruzione “che non ci possiamo più permettere”, ecc. E come conseguenza, anche per rispettare i nuovi provvedimenti, primo tra cui l’incredibile norma del pareggio di bilancio inserita in Costituzione senza una discussione pubblica da un parlamento quantomeno distratto, è stato fatto passare senza grandi difficoltà il messaggio che  lo Stato spende troppo e dunque che è necessario tagliare le spese pubbliche: asili, scuole, sanità, istruzione, ricerca, pensioni, ecc. […]
Come osservato dallo storico Massimo L. Salvadori, l’economista Vilfredo Pareto, convinto che la democrazia fosse un’illusione, scriveva “La plutocrazia moderna è maestra nell’impadronirsi dell’idea di eguaglianza come strumento per far crescere, di fatto, le disuguaglianze”. Era il 1923: oggi siamo sempre allo stesso punto».
[Fonte: La grande mistificazione della crisi finanziaria, Roars, 14.3.2014]

Condivido interamente le parole di Francesco Sylos Labini e invito a leggere la versione integrale (poco più ampia) della sua analisi. In essa si fanno evidenti i profondi intrecci tra gli stati, le banche e la comunicazione. Diventano dunque  molto chiari almeno due elementi: dove risieda il nucleo del potere contemporaneo e quali siano le vere ragioni del fallimento ormai storico e totale di ciò che si è chiamato «Sinistra». In tutte le sue forme istituzionali e parlamentari i partiti di sinistra hanno assimilato integralmente i princìpi che stanno a fondamento della Grande Impostura. Ed è per questo che non hanno senso -se non quello marxiano del mascheramento- le differenze in Europa tra Schultz e Tsipras e in Italia quelle tra Bersani, Renzi, Civati, Vendola, Fassina e altri soggetti che hanno portato a compimento la dissoluzione di qualunque analisi critica dell’economia politica, accettando totalmente una diagnosi fasulla di quanto sta accadendo. Ed è per questo che bisogna farla finita con la sinistra, è per questo che abbiamo bisogno di altre prospettive, di altre rivolte, che partano dal tessuto sociale e non dai partiti, come l’anarchismo ha sempre sostenuto.

 

Porto / Luz

Visitando la mostra Porto Poetic è sorto il desiderio di vedere questa città. Magnifica città che dalle mura/case settecentesche sulla riva del Douro sale verticalmente diventando liberty, déco, imperiale, azulejos, avenidas, parchi. Zeppa di chiese tracimanti di legno, di oro e di una sfacciata sofferenza. La passione dell’uomo crocifisso è infatti mostrata in tutte le maniere e con un realismo a volte rivoltante. Dalle steppe russe all’estremo occidente, l’Europa è la terra dei cristiani. Non c’è niente da fare. Ma questa fede così violenta ha saputo per fortuna creare anche edifici di bellezza, spazi aperti e chiusi nei quali si sono avvicendati stili, forme, architetture, suoni, immagini, guerre e feste. Nel Portogallo come altrove tutto questo è diventato città. La medioevale vicina Guimarães è infatti anch’essa colma di edifici sacri, di palazzi, di croci e monasteri. Ma anche di architetture e di giardini che assorbono la luce.
Come, tornando a Porto, la Burgo Tower di Eduardo Souto de Moura, la cui seriale semplicità si mescola e si discosta dagli analoghi edifici che la circondano; la sghemba, straordinaria e labirintica Casa da Música di Rem Koolhaas, dal cui auditorium principale si vede la città e nei cui anfratti nulla è lasciato al caso; lo splendido Museu de Arte Contemporanea di Álvaro Siza Vieira, ovunque luminoso dentro la luce del Parco nel quale è immerso. Parco che contiene anche la Villa Déco progettata da José Marques da Silva per Carlos Alberto Cabral, una delle abitazioni più belle che abbia mai visitato. E poi il fiume, l’oceano, i ponti. E la pulizia di Porto, la gentilezza e la buona educazione dei suoi abitanti, che in varie occasioni hanno salvato il visitatore da errori e distrazioni. Abitanti certo meno agiati degli italiani ma da nessuna parte ho sentito schiamazzi o voci altissime in luoghi pubblici. Ovunque invece pulizia e dignità. Ogni volta si comprende meglio quanto volgare sia diventato il nostro Paese. Ma anche questa malinconia si può stemperare nelle cantine di Vila Nova de Gaia, nel gusto del Porto, un vino luccicante e dolce come la terra che lo genera.

 

Partiti, finanza, democrazia

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«Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia, nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso. Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile» (Enrico Letta, 8 aprile 2013)
«Non sono praticabili né credibili in nessuna forma accordi di governo fra noi e la destra berlusconiana» (Pier Luigi Bersani, 6 marzo 2013)
«Il governissimo non è la risposta ai problemi» (Pier Luigi Bersani, 13 aprile 2013)
«Il governissimo predisporrebbe il calendario di giorni peggiori» (Pierluigi Bersani, 8 aprile 2013)
«Se si pensa di ovviare con maggioranze dove io dovrei stare con Berlusconi, si sbagliano. Nel caso io, e penso anche il Pd, ci riposiamo» (Pierluigi Bersani, 2 ottobre 2012)
«In Italia non è possibile che, neppure in una situazione d’emergenza, le maggiori forze politiche del centrosinistra e del centrodestra formino un governo insieme» (Massimo D’Alema, 8 marzo 2013)
«Il Pd è unito su una proposta chiara. Noi diciamo no a ipotesi di governissimi con la destra» (Anna Finocchiaro, 5 marzo 2013)
«Fare cose non comprensibili dagli elettori non sono utili né per l’Italia né per gli italiani. Non mi pare questa la strada». (Beppe Fioroni, 25 marzo 2013)
«Non si può riproporre qui una grande coalizione come in Germania. Non ci sono le condizioni per avere in uno stesso governo Bersani, Letta, Berlusconi e Alfano» (Dario Franceschini, 23 aprile 2013)
«Abbiamo sempre escluso le larghe intese e le ipotesi di governissimo» (Rosy Bindi, 21 aprile 2013)
«Serve un governo del cambiamento che possa dare risposta ai grandi problemi dell’Italia. Nessun governissimo Pd-Pdl» (Roberto Speranza, 8 aprile 2013)
«Non dobbiamo avere paura di confrontarci con gli altri, ma non significa fare un governo con ministri del Pd e del Pdl. La prospettiva non è una formula politicista come il governissimo, è quel governo di cambiamento di cui l’Italia ha bisogno» (Roberto Speranza, 7 aprile 2013)
«I nostri elettori non capirebbero un accordo con Berlusconi» (Ivan Scalfarotto, 28 febbraio 2013)
«Non c’è nessun inciucio: se questa elezione fosse il preludio per un governissimo io non ci sto e non ci starebbe neanche il Pd» (Cesare Damiano, 18 aprile 2013)
«I contrasti aspri tra le forze politiche rendono non idoneo un governissimo con forze politiche tradizionali» (Enrico Letta, 29 marzo 2013)
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Immaginiamo dunque che il Partito Democratico sia composto e diretto da persone integerrime, onestissime, competenti; che il verminaio emerso in questi mesi non esista. Sarebbe in ogni caso un Partito allo sbando, incapace di mantenere la parola data ai suoi elettori di non allearsi con una formazione politica del tutto screditata, impresentabile e legata alle mafie. Dunque un partito ingannatore e inaffidabile.
Ma immaginiamo persino che a tutto questo il Partito Democratico sia stato indotto dalle circostanze storiche -e non, poniamo, dalle volontà imperscrutabili dello stalin quirinalizio. Sarebbe in ogni caso un Partito storicamente e ideologicamente allo sbando poiché del tutto subordinato, ormai, agli interessi oligarchici, alle volontà della finanza, alla potenza delle banche, ai teorici dell’ultraliberismo, a quell’insieme di posizioni economico-politiche che emerge da questi brani della tesi -della quale sono relatore- che Oriana Sipala sta dedicando al rapporto tra intellettuali e potere:

Foreign Affairs, rivista di politica internazionale, ha criticato duramente l’Unione europea, «chiamandola reazionaria per aver dato un potere inaudito a una banca centrale che non risponde a nessuno» (Noam Chomsky, Due ore di lucidità. Conversazioni con Denis Robert e Weronika Zarachowicz, Baldini Castoldi Dalai editore, p. 107). Eppure in Europa non c’è una consapevolezza diffusa di tale centralizzazione antidemocratica. […]
Oggi i capitali, che sono estremamente mobili, possono infatti condizionare le decisioni politiche di uno stato, minacciarlo, far crollare i suoi titoli. È esattamente quello che stiamo vivendo in questo lungo periodo di crisi economica. Mario Monti prima e adesso anche Enrico Letta, nello specifico caso italiano, stanno solo obbedendo a dettami della finanza internazionale per impedire la fuga dei capitali. Su questo aspetto Elio Lannutti, presidente di Adusbef, ha di recente scritto un libro, Cleptocrazia, dove parla del sistema bancario come di “una cupola para-mafiosa alla quale sono stati conferiti poteri enormi”, un centro di potere illimitato a cui la politica dei singoli stati, soprattutto di quelli economicamente più deboli, non riesce a sottrarsi. È come vivere una sorta di minaccia, mossa da usurai legalizzati che ci stanno col fiato sul collo, ci rubano il futuro e distruggono il sistema del welfare. […]
La fortuna delle élites straricche conta più di ogni altra cosa e finisce per imprimere una direzione al mondo. Esse detengono il potere e svuotano i luoghi della democrazia, rendendoli insignificanti.

 

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