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Elezioni 2018

Studiare la storia e comprendere le dinamiche sociali significa capire che -secondo la grande lezione dello strutturalismo delle Annales – non contano i singoli ma gli insiemi, le collettività. Dunque non mi interessano i nomi dei competitori in lizza alle imminenti elezioni politiche italiane, mi interessa il significato che le formazioni sociali assumono.
I cinque anni che ci separano dalle elezioni politiche del 2013 hanno confermato la fine in Italia (e ovunque) di ciò che dal XIX secolo è stato chiamato ‘sinistra’, la sua indistinguibilità da ciò che si chiama ‘destra’ e il  convergere di entrambe nel sistema mafioso che distrugge l’economia italiana.
Le sedicenti destra e sinistra sono espressione del dominio della finanza speculativa che ha il suo baluardo nelle strutture dell’Unione Europea, la quale rappresenta il tradimento della storia e dell’idea di Europa.
Esprimerò dunque il mio sostegno al Movimento 5 Stelle non per chi lo rappresenta ma per ciò che rappresenta e in particolare:

  • Per la difesa dell’ambiente naturale e urbano rispetto alla speculazione, ai palazzinari, alle mafie dei rifiuti, alle aziende ultrainquinanti; tutti soggetti sostenuti dal Partito Democratico e da Forza Italia.
  • Per un progetto di recupero dell’occupazione sia pubblica sia nelle piccole e medie aziende, superando la schiavizzazione, il precariato, l’assenza di prospettive date dai provvedimenti del governo Renzi, per i quali basta aver lavorato come precario qualche ora al mese per essere ritenuti ‘occupati’.
  • Per attutire i condizionamenti di una informazione quasi per intero (eccezioni il manifesto e il Fatto Quotidiano, nessuna eccezione in televisione) asservita ai grandi gruppi finanziari di Mediaset, del gruppo Repubblica-Espresso e dei partiti politici finanziati da queste aziende.
  • Per una politica estera che almeno si proponga e tenti la difesa della autonomia dell’Italia dalla Germania e dagli Stati Uniti d’America. Su questo punto, tuttavia, la situazione dell’intera Europa è probabilmente senza uscita. I governi nazionali, infatti, contano poco o nulla. Le decisioni sono prese dalle strutture non democratiche -poiché da nessuno elette- dell’Unione Europea. Un solo esempio: l’embargo verso la Russia ha danneggiato e continua a danneggiare l’economia di molti Paesi europei, Italia compresa, ma è ancora in vigore perché favorisce la geostrategia e la finanza statunitensi. I vincoli di questa Europa sono delle catene recessive e antisociali alle quali gli Stati non possono sottrarsi. Temo quindi che, nonostante le tesi programmatiche, se il M5S andasse al governo poco o nulla potrebbe decidere in politica estera e sulle relazioni con l’Unione Europea, come tutti gli altri e come si è visto nel caso di Tsipras in Grecia Sono decisioni ormai sotto il controllo esclusivo di Bruxelles e di Washington, e forse un poco di Berlino. Una tragedia.
  • Per il contrasto alle mafie, alle camorre, alla ndranghete, delle quali invece Partito Democratico e Forza Italia sono al servizio; il fatto di vivere e lavorare in Sicilia rende questa dipendenza del tutto evidente.
  • Per un ridimensionamento delle spese dovute al meccanismo politico (finanziamento pubblico ai partiti, stipendi e pensioni di parlamentari e amministratori).
  • Per un contrasto effettivo alla capillare corruzione politica che distrugge la ricchezza prodotta dai cittadini, dirottandola nei conti correnti di corrotti, tangentisti e concussori. Invito, a questo proposito, ad ascoltare la relazione di Roberto Scarpinato, Procuratore generale della Repubblica di Palermo, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario il 27 gennaio 2018 (dal minuto 1.25 al minuto 1.49), venti minuti di verità sull’immensa corruzione -vera leucemia del corpo sociale italiano-, sull’ingiustizia che riduce a pura lettera i diritti costituzionali, sulla impunità dei potenti. Partito Democratico e Forza Italia esistono soprattutto e sostanzialmente allo scopo di perpetuare l’immensa corruzione finanziaria e amministrativa che pervade la vita sociale delle nostre collettività, così ben descritta da Scarpinato.
  • Per un controllo più attento delle banche, in mano alle massonerie lontane dalla res publica. Il caso di Banca Etruria e del grave coinvolgimento della ministra Boschi è una delle situazioni più emblematiche e inaccettabili fra quelle che hanno segnato la scorsa Legislatura.
  • Per uno spostamento verso la sanità, la scuola, l’università, il trasporto pubblico, degli enormi finanziamenti dati alle cosiddette Grandi Opere (TAV Torino/Lione; Autostrade inutili come la Brescia-Bergamo; il sempre presente progetto del Ponte sullo Stretto di Messina) e alla imponente e anticostituzionale spesa militare.
  • Non perché il Movimento 5 Stelle abbia la bacchetta magica o i suoi esponenti siano più ‘puri’ degli altri ma perché negli ultimi cinque anni questo Movimento ha costituito l’unica vera opposizione parlamentare allo scempio sociale e al crimine politico.

È sulla base di questa analisi e di tali auspici che non potrei votare né per Forza Italia/Lega (con la sua appendice Fratelli d’Italia) né per il Partito Democratico (con la sua appendice Liberi e Uguali). Se non ci fosse il Movimento 5 Stelle non mi recherei dunque alle urne, rimanendo fedele all’astensionismo libertario  che ho praticato per alcuni anni. È l’ultima possibilità che mi concedo ed è probabilmente l’ultima occasione per la società italiana non di diventare perfetta -cosa che mai è possibile nelle esistenze umane individuali e collettive- ma di essere almeno una società decente.

Italia

Il Bel Paese. Un progetto per 22.621 centri storici

Milano – Palazzo della Triennale
A cura di Benno Albrecht e Anna Magrin
Sino al 26 novembre 2017

L’alfabeto e le città sono probabilmente le due più importanti invenzioni umane. Lo spazio della vita comunitaria e lo strumento di scrittura perfetto e dinamico, con il quale comunicare al di là della presenza, hanno plasmato la nostra specie nei tempi storici diventando per noi natura.
L’Europa -continente assai piccolo- è il luogo delle città pensate e costruite con misura, sin dall’Atene antica e fino alla Rivoluzione Industriale. In essa l’Italia è stata l’ambiente nel quale la città ha mostrato ogni potenzialità di bellezza, di funzionalità, di adattamento armonioso all’orografia e al paesaggio.
Questa intensa e documentatissima mostra è dedicata a Leonardo Benevolo, architetto e storico dell’architettura che consacrò l’intera esistenza alla valorizzazione di tale ricchezza, alla vitalità dei centri storici, alla difesa della tradizione di armonia delle città italiane, strutture tanto complesse quanto fragili, che la «democrazia imperfetta» ha deturpato sino alla devastazione.
Benevolo scrisse infatti che «l’antico paesaggio italiano, e la cultura fondata sulla sua presenza consolatrice, appartengono al passato. Il paesaggio di oggi, fragile, precario, minacciato, ha un tono drammatico inevitabile, che la cultura, per restare all’altezza del suo compito è obbligata a riconoscere. In questo sta la sua originalità nel contesto mondiale. Il paesaggio delle città, dei paesi, delle campagne, delle coste, delle valli alpine, registra -insieme ai segni trasmessi dalla lunga storia passata- le storture di mezzo secolo di democrazia imperfetta: lo sperpero dei valori antichi, l’indugio a ideare e sperimentare i possibili adattamenti moderni, il disinteresse o l’aggressione all’ordine urbano e territoriale; questo quadro quotidiano è uno dei motivi della richiesta di cambiare le istituzioni e i comportamenti che sale dall’opinione pubblica» (L’architettura nell’Italia contemporanea, Laterza 1998, p. 222).
Nonostante tutto questo, e ciò che di peggio da allora è accaduto, un video girato negli ultimi mesi mostra la spettacolare e splendida stratificazione storica delle città italiane, tra le quali ben figurano la mia città natale e di lavoro -Catania- e quella d’elezione, Milano, nel cui centro storico continuano a vivere oggi ben 86.100 persone. Insieme ai video, le planimetrie e le mappe documentano la Forma Urbis come opera d’arte assoluta, scolpita dagli umani e dal tempo.
Alcuni versi di Byron restituiscono l’incanto che il paesaggio e le città italiane esercitano sempre su chi sappia guardare la bellezza ed esistere in essa:

The commonwealth of kings, the men of Rome!
And even since, and now, fair Italy!
Thou art the garden of the world, the home
Of all Art yields, and Nature can decree;
Even in thy desert, what is like to thee?
Thy very weeds are beautiful, thy waste
More rich than other climes’ fertility;
Thy wreck a glory, and thy ruin graced
With an immaculate charm which cannot be defaced.

L’unione dei re, gli uomini di Roma!
E da allora, e ora, fiera Italia!
Sei il giardino del mondo, la dimora
Di tutti i frutti dell’Arte, e la Natura può dire:
Anche nel tuo deserto, cosa ti somiglia?
Le tue stesse erbacce, i tuoi rifiuti sono belli
Più ricchi della fertilità di altri climi;
Il tuo relitto è una gloria, e la tua rovina lo irradia
Di un puro fascino che nulla può cancellare.

(Childe Harold’s PilgrimageThe Fourth, XXVI; traduzione mia)

Una terra fragile e indistruttibile, l’Italia. Una bellezza delicata e tenace, che non ci meritiamo. Ma ha detto bene il poeta: «Thy wreck a glory». Rispetto alla volgarità degli imperi contemporanei, persino i relitti delle nostre antiche dimore sono gloria.

Schmitt

Carl Schmitt
Terra e mare
Una riflessione sulla storia del mondo

(Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, 1942)
Traduzione di Giovanni Gurisatti
Con un saggio di Franco Volpi
Adelphi, 2002
Pagine 149

Uno dei fatti che meglio esprimono la presunzione della specie umana consiste, secondo Nietzsche, nel chiamare «la sua storia, storia del mondo» (Umano, troppo umano II, af. 12). I pochi ma potenti tratti con i quali Carl Schmitt delinea la storia dell’umanità si sottraggono, almeno in parte, a questo rimprovero. Essi, infatti, coniugano la nostra storia con i grandi elementi della terra, dell’aria, dell’acqua, del fuoco.
L’uomo è un animale terrestre che chiama Terra un pianeta composto per tre quarti dall’elemento liquido e «la storia del mondo è una storia di conquiste di terra» (pag. 76). E tuttavia il mare ha rappresentato per numerose popolazioni ed epoche la dimensione decisiva dell’esistenza, tanto che la storia del mondo può essere definita anche come «la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime» (18). L’animale più grande -la balena- e quello più furbo –l’uomo- hanno avuto nel mare lo spazio di uno scontro millenario. Sono state le balene e i balenieri ad aprire le rotte e le vie d’acqua più sconosciute e ardite, fino a quando tra di loro il rapporto è stato paritario, fino a che non sono apparsi i «macellai di balene meccanizzati» (35).

A partire dalle civiltà del Mediterraneo orientale sino a Lepanto (1571), le battaglie navali non furono altro che scontri di fanteria trasferiti sulle tolde delle navi, ma già dalla sconfitta della Armada spagnola nella Manica (1588), con le bocche di fuoco dei cannoni e con i nuovi agili velieri inventati dagli olandesi, lo scontro di mare assunse le sue caratteristiche specifiche, che contribuirono a trasformare gli inglesi, un popolo di allevatori di pecore, nei dominatori del globo.
I pirati, i corsari, gli schiumatori del mare furono tra i protagonisti di una trasformazione radicale con la quale l’Inghilterra trasferì completamente la propria esistenza dall’elemento terrestre a quello marittimo. Un mutamento che fu contemporaneo –e strettamente intrecciato- non solo alle grandi scoperte geografiche, non soltanto alle nuove tecnologie belliche e navali, non solo allo scontro fra cattolicesimo e protestantesimo ma anche alla lotta che oppose il calvinismo “marittimo” al gesuitismo “terrestre”. Integrando e rendendo così più plausibile il quadro di Max Weber, Schmitt scrive che «se invece ci volgiamo al mare, vediamo immediatamente la coincidenza o, se così posso dire, la fratellanza che, nella storia del mondo, unisce il calvinismo politico alle nascenti energie marittime europee» (86-87).
Con la comparsa del grande Impero inglese sull’acqua, muta radicalmente il modo di combattersi degli uomini tra di loro. Nella guerra terrestre a fronteggiarsi in campo aperto sono quasi sempre soltanto le truppe, i soldati, gli armigeri. La guerra marittima, invece, tende a colpire le risorse dell’avversario, a strozzare la sua economia, a cannoneggiare le sue coste e le città, a coinvolgere l’intera popolazione diventata tutta e inevitabilmente «nemica».

È la guerra totale, inventata dalla potenza marittima e calvinista inglese. Il suo dominio durò per più di due secoli sino a quando, trasformandosi da “pesce” in “macchina”, con la Rivoluzione industriale la Gran Bretagna sembrò attingere a una potenza incontrastata che invece di fatto rappresentò l’inizio della sua crisi. Con la meccanizzazione vennero meno lo slancio iniziale e il dominio sulle tecniche della navigazione a vela; da allora un’altra e più potente “isola” calvinista si sostituì progressivamente all’antica madrepatria. Agli inizi del Novecento, l’ammiraglio americano Mahan propose infatti la riunificazione fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, allo scopo di garantire la perpetuazione del dominio anglo-americano sul mondo.
La potenza secolare dell’elemento marino –il Leviatano- ha contribuito allo sviluppo dell’aviazione e del fuoco che distrugge dall’alto. I due nuovi elementi –l’aria e il fuoco- delineano un’ulteriore trasformazione tesa alla sconfitta e al controllo dell’antico elemento terrestre. Il grande uccello mitologico, il Grifo Ziz, combatte per la sottomissione della Terra Behemoth. Nella prima metà del Novecento nacque così, attraverso scontri e distruzioni immani, un nuovo Nomos der Erde, Nomos della Terra, quello che dal 1945 al tempo presente ha controllato il pianeta, sconfiggendo l’Europa continentale, lanciando un fuoco immane e distruttore sul Giappone, imponendo all’intera umanità la globalizzazione dei suoi modelli di vita e della sua economia. Non sono pochi i segnali che indicano l’esaurirsi anche di questo Nomos, tanto che possiamo forse fare nostre le fiduciose affermazioni conclusive del libro: «Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate. Anche qui sono e qui regnano Dei / e grande è la misura» (110; i versi sono tratti da Hölderlin, Il viaggiatore, 17-18].

Al di là della geopolitica, oltre la grandiosità del quadro cosmogonico nel quale prendono luce gli avvenimenti umani, uno dei meriti di questo splendido libro consiste nel dimostrare che prima c’è lo spazio interiore, la cultura dei popoli, il potere e i suoi obiettivi, prima c’è il mondo e solo dopo gli spazi geografici: «La scoperta di nuovi continenti e la circumnavigazione della terra furono solo manifestazioni e conseguenze di metamorfosi più profonde. Soltanto per questo lo sbarco su un’isola sconosciuta poteva condurre a un’intera epoca di scoperte» (69).
La Terra, elemento spesso negletto, è stata al centro della riflessione di Heidegger, di Jünger, di Schmitt. Quest’ultimo sembra ripercorrere la gerarchia platonica della conoscenza, andando al di là delle impressioni soggettive, dei fatti immediati, della deduzione razionale e attingendo in modo intuitivo le strutture profonde del tempo e della storia. La frase chiave del libro mi sembra quella che individua nella salvezza «alla fin fine, a dispetto di qualsiasi idea razionale, il senso decisivo di ogni storia del mondo» (85).
La forza del pensiero di Schmitt è la potenza della Gnosi, quella capacità di andare oltre l’ovvio che permetteva al “giurista del Terzo Reich” di tenere alla parete il ritratto dell’ebreo Disraeli e di ammirarne con timore la dimensione iniziatica che gli fece definire il cristianesimo una forma di ebraismo per il popolo. Anche se Schmitt respingeva sdegnato questa affermazione, essa è nondimeno vera e conferma la vittoria, nonostante tutto, di Behemoth sul Leviatano, del primato del popolo del deserto sugli spazi del mondo.

La democrazia e i suoi nemici

Sia in ambito politologico sia nella quotidiana e concreta organizzazione dei governi, il tramonto di ciò che viene ancora e per inerzia chiamato democrazia è ormai evidente. Tra le tante prove e testimonianze possibili, si possono scegliere due dati elettorali, il caso catalano e la struttura dell’Unione Europea, vale a dire il vero e proprio tradimento -ogni altra parola appare eufemistica- attuato dalle sinistre europee nei confronti della loro identità storica e politica.

Il primo dato elettorale è quello che emerge dall’elezione di Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron alla presidenza della Repubblica francese. Non mi riferisco a programmi, intenzioni, azioni di governo ma al semplice dato numerico per il quale questo presidente è stato eletto al ballottaggio del 2017 da molto meno della metà dei francesi aventi diritto di voto, esattamente da 20.703.631 elettori su 47.552.183. Quasi due terzi del popolo francese non ha dunque espresso la volontà di avere questa persona come presidente. E si tratta della Francia, vale a dire di una nazione che ha sempre espresso percentuali di voto assai alte.
Il secondo dato elettorale concerne quanto sta avvenendo in Italia, dove una variegata coalizione formata da Partito Democratico, Forza Italia, seguaci di Angelino Alfano e Lega Nord, con l’attiva complicità del governo Gentiloni e della presidente della Camera Boldrini, impone una legge elettorale che ha l’esplicito e antidemocratico obiettivo di neutralizzare la forza del Movimento 5 Stelle e di eliminare ciò che resta della sinistra. Una legge elettorale imposta con il voto di fiducia da e a un Parlamento eletto con una legge dichiarata dalla Consulta incostituzionale è il fascismo del XXI secolo.

Struttura e funzionamento dell’Unione Europea sono affidate a un’oligarchia di funzionari, tecnocrati e banchieri che nessuno ha mai eletto ma che impongono la loro ideologia ultraliberista e le loro decisioni tecnico-amministrative a tutti i governi dell’Unione. Il processo di integrazione europea mostra in tal modo la propria natura antidemocratica e antieuropea, tanto che Pierre Dardot e Christian Laval in Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi, Roma 2016) affermano con chiarezza che è necessario dissolvere la cornice dell’Unione europea per salvare l’Europa politica. Un caso emblematico è quanto sta accadendo nella Spagna/Catalogna, dove l’insofferenza verso i poteri che rispondono soltanto al centralismo finanziario mostra allo stesso tempo le difficoltà di una cornice obsoleta quale è ormai lo Stato-nazione e la determinazione di quest’ultimo a sopravvivere a qualunque costo. Per quanto diversi siano nel tempo, nello spazio e nelle fondamenta, sembra che il crollo dell’Impero Austro-Ungarico e quello dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche abbiano insegnato poco ai decisori politici. In ogni caso, il libro di Dardot e Laval enuncia tesi fondamentali sul tradimento della democrazia operato da governi che non rispondono più ai popoli ma alle aristocrazie tecnocratiche.
Riassumendo e commentando le loro tesi, Massimo Virgilio (Diorama letterario, n. 338) scrive parole chiare e del tutto condivisibili: «A sostenere gli enormi costi della crisi, in particolare quelli relativi al salvataggio del sistema bancario, sono stati chiamati esclusivamente i lavoratori dipendenti e i pensionati. In questo modo il sistema capitalistico ha fatto della crisi un vero e proprio modo di governo, che sfrutta ‘le armi disciplinari dei mercati finanziari’ per punire severamente chiunque respinga il programma neoliberista di riduzione dei salari, liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazione delle imprese pubbliche e tagli al welfare. […] L’obiettivo di questo potere è uno, l’accumulazione illimitata della ricchezza» (pp. 36-37).

Tra i non molti intellettuali di sinistra capaci di formulare analisi realistiche e non edulcorate sul sistema economico vigente, Dardot e Laval sostengono che «se il capitale e il blocco oligarchico neoliberale che lo rappresenta hanno potuto affermare la loro volontà con tanta facilità, la responsabilità è per intero della sinistra di governo. Quest’ultima da diversi anni ha fatto sua la teoria di una fine della storia che si risolve in un capitalismo senza fine, senza regole e senza confini. Ha accettato l’idea che in un mondo dalle risorse limitate e in via di esaurimento, la crescita illimitata della produzione di beni e servizi sia indispensabile ad assicurare benessere e felicità all’umanità. […] Evidentemente, sovvertire il sistema capitalistico non è più l’obiettivo di una sinistra che ormai si limita solo a proporre un capitalismo dal volto umano che nella realtà non esiste né potrà mai esistere. Come può avere un volto umano un sistema che consente a soli 62 individui in tutto il pianeta di possedere la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, ossia la metà più povera della popolazione mondiale?» (pp. 37-38).
Democrazia non vuol dire soltanto andare a votare ogni 4-5 anni per delegare qualcuno che amministri la cosa pubblica. Democrazia significa effettiva divisione dei poteri, che oggi sono invece subordinati a quello finanziario; significa la libertà di scrivere e manifestare il proprio pensiero, sempre più limitata da censure ideologico-governative e dal flagello del politicamente corretto che sottomette al diritto penale persino le opinioni storiche e filosofiche; significa libertà dal bisogno economico e non soltanto la libertà di dei diritti civili.
È dunque evidente come il neoliberismo sia «ormai così compenetrato nello Stato che chiunque abbia davvero a cuore la sovranità del popolo non può fare altro che agire contro lo Stato esistente, contro tutto ciò che nello Stato sorregge la dimensione oligarchica» (p. 38).

Islam

Traduco quasi integralmente l’intelligente analisi critica che il filosofo marxista Denis Collin ha dedicato alle relazioni tra l’islam e la cultura libertaria del razionalismo europeo. È stata pubblicata ieri su La Social e la condivido per intero. Un filosofo è anche, come afferma Orwell, qualcuno che dice alle persone quello che altri tacciono o nascondono.
Questo il link al testo originale: Appeler les choses par leur nom

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Chiamare le cose con il loro nome

In tutta una una parte dei media, dei partiti politici e degli opinionisti di varie tendenze, ci si sforza di non chiamare le cose con il loro nome. A ogni nuovo attentato compiuto da uno o più militanti armati della causa islamista, si evita accuratamente di pronunciare la parola «islamista» poiché si teme l’equazione «islamismo=islam», paura che sembra ancor più forte del timore di attentati! Piuttosto che nominare [désigner] la causa che questi militanti islamisti intendono promuovere, si parla di «criminali», di «vigliacchi», qualifiche morali alle quali si fanno seguire caratterizzazioni psichiatriche (folli, psicopatici…). Si tenta di farci credere che non ci sia alcuna relazione tra questi folli che guidano auto impazzite e la causa politico-teologica che sostengono. «Nessuna equazione» e «tutto questo non ha niente a vedere con l’islam», ecco quanto bisogna dire all’esplodere di una bomba, all’apparire di coltelli, di fronte a camion che si schiantano su una folla. Tutt’al più si arriva a condannare questo «terrorismo vile».

La prima cosa da fare è dunque chiarire l’utilizzo delle parole. Anzitutto, le condanne morali sono perfettamente inutili e quasi un poco grottesche quando provengono da responsabili politici. Non c’è alcun dubbio che nessun esponente politico approvi l’utilizzo di kalashnikov in un teatro e che si tratti di una cosa orribile, ingiustificabile, ripugnante, ecc. Ma poi? Non sono stati dei pazzi isolati, degli psicopatici fuggiti da un manicomio ad aver massacrato centinaia di persone negli ultimi due anni. Sono soggetti che stanno conducendo una guerra, e che fanno quindi politica -dato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Bisogna dunque rimanere sobri sull’utilizzo di un lessico morale e cogliere l’essenziale dimensione politica di ciò che accade [en venir à l’essentiel qui est la politique].
Il termine «terrorista» è molto vago. Se si cerca una definizione del terrorismo, se ne troveranno miriadi. In generale, ci si può accordare sull’idea che il terrorismo consista nell’uso della violenza contro le popolazioni civili per scopi politici e militari. Esiste dunque un terrorismo di Stato (i nazionalsocialisti e gli stalinisti hanno governato tramite il terrore), degli atti di terrorismo compiuti durante una guerra, atti che a volte finiscono per essere condannati come crimini di guerra. Alcuni episodi della Seconda guerra mondiale come i bombardamenti di Dresda e di Amburgo o le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki hanno una chiara dimensione terroristica: non si trattava di raggiungere degli obiettivi militari ma di diffondere il terrore nella popolazione allo scopo di dissuaderla dal continuare a sostenere i governi in carica.
[…]
In breve, gli attentati jihadisti sono incontestabilmente terroristici. Ma bisogna evitare di confonderli, ad esempio, con il terrorismo dell’ETA o dell’IRA o di annacquare [dissoudre] questi atti nel vocabolario confuso e generale della «radicalizzazione». Limitarsi dunque a «terrorista» significa ancora una volta evitare il problema. Si parla di jihadisti, ma bisogna porre maggiore attenzione al significato delle parole poiché la jihad è la «guerra santa».
Bisogna dunque parlare della causa politica sostenuta dagli assassini di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Nizza o di Barcellona (senza dimenticare Londra, Berlino ecc.). Ciò che vogliono queste persone, che siano affiliate o no al Daesh/Isis, è far trionfare l’islam e imporre a tutte le società i principi dell’islam. I loro metodi sono evidentemente abietti ma è il progetto in se stesso, indipendentemente dai metodi che usa, a dover essere risolutamente combattuto, poiché si tratta di un progetto totalitario, fondato sul completo dominio dei corpi e delle menti e sulla reclusione delle donne.
Ma è qui che le cose si complicano. Il progetto dei jihadisti del Daesh e dei gruppi loro vicini non si distingue infatti che per sottigliezze retoriche dal Wahhabismo che governa i Paesi del Golfo o dai discorsi dei Fratelli Musulmani, esperti della dissimulazione che mostrano il loro vero aspetto oggi in Turchia. I quali d’alta parte differiscono assai poco da ciò che sostengono i «moderati» ufficiali in Francia o altrove. Costoro sono tutti favorevoli al velo delle donne, anche di cinque o sei anni. Essi sostengono la Shariʿah, la quale stabilisce che in materia di eredità una donna vale la metà di un uomo. Costoro ritengono ogni neonato un musulmano se il padre è musulmano, che l’apostasia costituisca un crimine (teoricamente punibile con la morte) e che una ragazza musulmana non possa sposarsi con un «kufr» cristiano o ateo, se non disonorando la sua famiglia.

Certo questi bravi moderati detestano i jihadisti che, con le loro azioni omicide, possono suscitare nella popolazione sentimenti di ostilità verso l’islam. […] Vi è inoltre un problema di fondo. In una prospettiva teologica, l’islam non aggiunge nulla all’ebraismo o al cristianesimo (dal punto di vista dei dibattiti cristologici dei primi secoli sarebbe una specie di cristianesimo ariano). Ciò che fa la specificità dell’islam è proprio la sua strategia di conquista e il suo progetto politico. Un islam riformato dovrebbe diventare «tollerante» e sarebbe assai simile al protestantesimo liberale.
Dietro i jihadisti ci sono dunque tutta la strategia teologico-politica caratteristica dell’islam e le forze del capitalismo islamico. Questa è la realtà che bisogna guardare in faccia e che, sfortunatamente, la maggior parte dei nostri politici non vuole vedere. È noto che gli USA hanno sostenuto il progetto strategico dell’islam conquistatore. Lo hanno sostenuto contro il «comunismo», contro tutti i movimenti di liberazione nazionale, vagamente laici e vagamente socialisteggianti. I capitalisti pensano che il santo Mercato e il santo Corano siano una sola e identica divinità. E certi imprenditori non sono insensibili allo spirito di sottomissione che l’islam potrebbe diffondere nelle aziende.
[…]
A tutte queste anime belle della sinistra, intenerite [attendries] dal primo imam che incontrano nel quale vedono un rappresentante degli oppressi, poniamo alcune domande. Immaginiamo che un partito francese affermi che i Neri valgono la metà di un Bianco e che essi debbano andare in giro coperti e ben incappucciati in modo che il colore della loro pelle non offenda il senso del pudore. Immaginiamo che un partito nazionale francese si opponga ai matrimoni misti per non permettere di diluire la purezza della razza francese. Immaginiamo che lo stesso partito esiga che gli insegnamenti dell’orribile Darwin siano abbandonati e che la scienza sia interamente contenuta, diciamo, nei vangeli. Un tale partito, più o meno, esiste in Francia, tra gli indentitari e gli integralisti cattolici della peggiore specie. Ma qui non c’è alcun problema, la vigilanza antifascista entra in azione! Se però si sostituisce Nero con donna, cristiano con musulmano e vangelo con Corano, si ottiene semplicemente la vasta galassia delle associazioni islamiche, e qui i nostri solerti antifascisti trovano mille e una virtù! Quanti disegnano dei baffi hitleriani sui manifesti di Marine Le Pen (cosa che non ha veramente alcun senso) sono pronti a fare delle pubbliche riunioni in compagnia di M. Ramadan il quale solleva la questione della necessità di una moratoria sulla lapidazione delle donne «adultere». Le assurde femministe che tentano di imporre l’orrore della cosiddetta scrittura «inclusiva» allo scopo di ottenere l’assoluta parità grammaticale del femminile e del maschile, si trovano a difendere il velo, il matrimonio forzato e la circoncisione femminile (excision) come onorevoli modalità di resistenza culturale dei  «racisés» contro il razzismo «post-coloniale»!
Bisogna dire con chiarezza che la strategia teologico-politica dell’islam è il terreno fertile del jihadismo e che essa rappresenta un grande pericolo per quanti credono ancora al valore delle idee di libertà, d’eguaglianza e di fratellanza. E se l’islam vuole trovare un posto nelle società liberali e pluraliste come le nostre, non potrà farlo se non attraverso una profonda riforma che gli faccia riconoscere il valore della libertà degli individui, il primato delle leggi repubblicane e il potere della ragione.

Denis Collin – 21 agosto 2017

Università

Lo scorso anno ho scritto a proposito di una catastrofe didattica. Per fortuna l’Università non è soltanto esami ma è Communitas, è relazione tra persone, è crescere insieme nella conoscenza, nel disincanto e nella tenacia. Nata in Europa nel XII secolo, l’Università rappresenta uno dei più forti elementi di identità del nostro Continente. Luogo di conflitti e di scoperte, sede di trame a volte miserabili ma anche di fondamentali apprendimenti, spazio di scienza e di invenzione, l’Università è il respiro stesso di un sapere non impressionistico, non dogmatico, non utilitaristico. Proprio perché è anche questo, nel XXI secolo si sta operando a fondo -da parte dei decisori politici e dei loro complici- per ridimensionarne la funzione, la struttura, i contenuti. E tuttavia, pur con i tanti limiti che l’Università subisce e che ineriscono alle vicende umane, la fine dell’Università costituirebbe un gesto di autentica barbarie, di impoverimento collettivo, di prevalenza del fanatismo, della superficialità, dello spettacolo che emargina e rimuove il pensiero.
Il principio che mi guida nell’insegnamento è: «Per la scienza, per gli studenti». Proprio perché ha questi scopi, il mio è il mestiere più bello, più coinvolgente, più vivo. Ne ho avuto conferma in questo anno accademico, nel quale i gruppi-classe delle tre discipline sono stati partecipi, attenti, rispettosi e vivaci. La foto che vedete qui sopra è stata scattata lo scorso 1 giugno, a conclusione delle lezioni di Sociologia della cultura. Essa ritrae soltanto alcuni degli studenti che hanno frequentato il corso ma vorrei ringraziarli, insieme a tutti i loro colleghi, per avermi permesso di affrontare tematiche complesse e testi difficili in modo tanto serio quanto piacevole. Spero che gli studenti abbiano imparato qualcosa da me, io sicuramente ho appreso molto dallo scambio rigoroso e quotidiano con loro.
Chi fosse interessato, può anche ascoltare (e scaricare da Dropbox) la registrazione audio degli ultimi 30 minuti della lezione del 1 giugno, dedicati alla lettura e analisi di un saggio sulla società videocratica e ai saluti finali.

Il Sacro

La poesia di Hölderlin
di Martin Heidegger
(Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung)
A cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Edizione italiana a cura di Leonardo Amoroso
Adelphi, 1988
Pagine XV-250

Né storiografia, né critica letteraria, né estetica. La modalità con la quale Heidegger legge la poesia è teoretica in un senso peculiare. Questo senso è il linguaggio. Che non è uno strumento, per quanto raffinato e fondante, ma è «quell’evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilità dell’essere-uomo» (p. 46). L’umano è infatti un dispositivo semantico che produce significati come le stelle generano luce. Non si tratta di un bisogno ma di una struttura. La poesia esprime senso perché è ciò che Paul Valery definisce con esattezza come l’«indugiare tenuto fra suono e senso» (citato da Heidegger a p. 184).
In questo indugiare Friedrich Hölderlin ha abitato. Ha vissuto nel silenzio degli dèi e nella loro fuga, come anche nel loro rimanere tra Erde e Licht, tra Terra e Luce, e nel loro tornare in quanto Ewige Götter, eterni. In questo gioco ontologico e temporale essi sono gioia, luce e gnosi.
Una gioia così immensa che persino nel lutto il dio, «il gioioso, ridà gioia, sebbene ‘con lenta mano’. Egli non porta via il lutto, ma lo trasforma facendo presentire a coloro che sono in lutto che il lutto stesso non scaturisce se non da ‘antiche gioie’. Egli, il gioioso, è il ‘padre’ di tutto ciò che dà gioia. […] Egli, l’alto, è detto ‘l’etere’, αἰθήρ. L’ ‘aria’ che dà aria e la ‘luce’ che dà luce e la ‘terra’ che sboccia con quelle sono le ‘tre in uno’ (einige drei) in cui la dimensione serena si rasserena e fa sorgere il gioioso e nel gioioso saluta gli uomini (23).
Una luce così fonda da costituire l’essere stesso dal quale ogni divenire scaturisce e nel quale lo spaziotempo si sostanzia e si conclude. La parola greca che dice tutto questo è φύσις, quella tedesca è Lichtung, l’intricato Lucus della lingua latina, il bosco del limite e quindi della tenebra, che però nel proprio stesso limitare è confine della luce, è luce, è radura.
Gnosi perché questa tenebra è sempre intrisa di aperto e il suo destino ultimo è risplendere. È rilucere intanto nel linguaggio. Intanto tra il tempo della calma assoluta del prima della nascita e la calma inquieta del dopo la morte. Quello che resta in questo intervallo, sì, «Was bleibet aber, stiften die Dichter» (Andenken, qui p. 41), lo istituiscono i poeti.
Tutto questo è bellezza, perché «la bellezza è la presenza dell’Essere. L’Essere è il vero dell’ente» (161). L’Europa -seguendo un’altra suggestione di Valery- è la terra dove tanta bellezza tramonta e sorge di continuo, senza posa, senza certezze, senza dubbi. «L’Europa, questo promontorio e cervello, deve ancora diventare la terra di un Occaso (Land eines Abends) da cui un nuovo mattino (Morgen) del destino del mondo prepari il suo sorgere? La domanda suona pretenziosa e arbitraria. Ma ha il suo sostegno: da un lato in un fatto essenziale, dall’altro in una congettura essenziale. Il fatto è questo: la situazione presente planetario-interstellare del mondo è nel suo inizio essenziale -un inizio che non può andare perduto- da cima a fondo europeo-occidentale-greca. La congettura, d’altro lato, pensa in questa direzione: ciò che muta può farlo solo a partire dalla grandezza in serbo del suo inizio» (211).
In questo dire di Heidegger traluce la stessa inquietudine di Hölderlin, la stessa sua follia. La follia dell’antico dio sempre giovane, Dioniso: «Und wozu Dichter in dürftiger Zeit? Aber sie sind, sagst du, wie des Weingotts heilige Priester, / Welche von Lande zu Land zogen in heiliger Nacht» [Brod und Wein; e perché i poeti in tempo di privazione? / Ma essi sono, tu dici, come i sacerdoti del dio del vino / che andavano di terra in terra  nella notte sacra; p. 58].
Dioniso è fremito, metamorfosi, sorriso spietato del tempo, è divenire. Dioniso è l’ordine invisibile enunciato da uno dei filosofi più ebbri, Eraclito. Il cui frammento 54 -ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείσσων- viene così tradotto da Heidegger «Fuge, die ihr Erscheinen versagt, ist höheren Waltens als eine die zum Vorschein kommt [L’ordine che si ricusa all’apparire è più vigente di uno che giunge nell’apparenza]» (213).
Successivamente Heidegger così commentò questo frammento, aprendo in tal modo il pensare a una metafisica che non è l’oblio della differenza ontologica ma è la rigorosa indagine sull’invisibile che fonda il visibile: «Questo detto del pensatore preplatonico Eraclito contiene il cenno decisivo su come noi dobbiamo esperire ogni essenza greca, la natura, l’uomo, l’opera umana e la divinità: ogni visibile a partire dall’invisibile, ogni dicibile a partire dall’indicibile, ogni apparire a partire dal nascondersi. Ciò che si nasconde è più vicino all’essenza greca dello svelato: questo vive di quello» (213-214).
Né storiografia, né critica letteraria, né estetica. La modalità con la quale Heidegger legge la poesia di Hölderlin è teoretica poiché «la poesia di Hölderlin è per noi un destino. Esso attende che i mortali gli corrispondano. Che cosa dice la poesia di Hölderlin? La sua parola è: il sacro» (237). Jetzt, l’istante-ora, il καιρός, è il sacro. Oggi è il sacro.

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