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Archetipi tribali

KEITH HARING
About art

Milano – Palazzo Reale
A cura di Gianni Mercurio
Sino  al 18 giugno 2017

Uno dei massimi artisti del Novecento fu Keith Haring. Giovane -visse 32 anni-, vivace, ironico, innovatore. E insieme assai colto. Nella sua opera si racchiude e squaderna una ricca varietà di prospettive, fonti, sintesi: come la semiologia, l’etnologia, le culture tribali. Quella di Haring è una etnopittura rinascimentale e astratta nella quale l’uomo vitruviano di Leonardo assume le sembianze di un pittogramma antropomorfo -l’«omino»- che si sostanzia di riferimenti espliciti all’arte antica. Scrisse infatti Haring che «I feel in some way that I may be continuing a search, continuing an exploration that other painters have started. I am not a beginning. I am not an end. I am a link in a chain. […] There is a lot to be learned from antiquity and their use of symbols». Anche per questo fu propenso a utilizzare «basic structures that are common to all people of all times» e con esse fu capace di esprimere gli archetipi universali di una specie che ha bisogno di simboli come si nutre di pane. Il pane lo produce dal grano che germina nei campi, i simboli dalla distesa spaziotemporale della propria storia ontogenetica e filogenetica.
E così in questa mostra alle opere di Haring si affiancano il calco di un Combattimento di centauri e lapiti e una ceramica antica  in forma di Antefissa con Gorgone; un grande fregio del 1984 è messo a confronto con un  fregio tratto dalla Colonna Traiana; un bronzo in tre parti sta accanto a una antica pala d’altare, della quale Haring ricrea lo spessore ieratico, la materia sacra.
Profonda è in questo artista l’ammirazione per l’opera di Hieronymus Bosch, che ritorna nella moltiplicazione di simboli i quali pongono in continuità l’umano e altri animali; nelle ripetute immagini di draghi; nella visionarietà materica e arcaica. In Untitled (1986, riprodotto qui sopra) dentro un giallo lampante sono nascoste e insieme risultano evidenti citazioni da Michelangelo, Cranach, Picasso, Bosch. In altri quadri emerge il postmoderno, con riferimenti a Dubuffet, Mondrian, Léger, Pollock, Alechinsky. Alcuni dipinti sembrano ispirati a decorazioni arabe. Ovunque un flusso di geometrie scandite e intrise di tenerezza, dalle quali gorgogliano totemismo e sciamanesimo, culture africane e azteche.
L’ultima sala raccoglie opere e video dei disegni realizzati da Haring per la metropolitana di New York. In due di essi -che chiudono questa preziosa mostra- è possibile riconoscere una Madonna col bambino e una Trinità. Ancora una volta, dall’inizio alla fine della sua breve e scintillante parabola, Keith Haring coniuga aniconismo e simbologia. Lo fa in modo profondo in un Untitled del 1989 (qui a sinistra), nel quale convergono dentro un cerchio i corpi in movimento. Come una danza di grande bellezza.

Amor fati

Strade, palazzi, chiese, conventi, distribuiti su un territorio immerso nel verde e rivolto al mare. Struttura e nucleo medioevali. Questo è Savoca, in provincia di Messina. Vi si trova un suggestivo Museo etnoantropologico che documenta la cultura materiale dei contadini di Sicilia ed è arricchito da una straordinaria raccolta di proverbi. Come questo: «A ccu è distinato di  moriri o scuru, ammatula cci menti l’ogghiu lantirnatu» (Per chi è destinato a morire al buio, è vano aggiungere olio alla lanterna).
Ammatula, ‘vanamente’, è bellissima parola siciliana. Potente, tragica, dal suono intraducibile. E vera. La contingenza è un’illusione della mente. Nel tutto domina la necessità. «I nostri massimi sforzi e precauzioni appartengono intimamente al fato di tutte le cose;  e così pure ogni stoltezza. Chi si smarrisce per questa idea è, con ciò stesso, egli pure fato. Contro il pensiero della necessità non vi è scampo» (Nietzsche, Frammenti postumi 1884, 26[82]). Amor fati.
Sparsa tra colline e dirupi, Savoca è un luogo fedele alla memoria di ciò che è stato, è uno spazio immerso in un presente che esprime la bellezza dell’Isola senza umiliarla con dubbie invenzioni urbanistiche. Da questa altezza tra il vulcano e l’acqua, la vita luccica nella sua ferocia.

Geografia delle rovine

Vanessa Winship
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Carlos Martín Garcia
Sino al 22 marzo 2015

«Il mare è l’unica frontiera naturale» afferma Vanessa Winship. Il Mar Nero separa e divide turchi, russi, georgiani, armeni, romeni, bulgari. Fa da confine tra popoli, lingue, mondi. Di queste acque e di queste terre le immagini colgono l’identità e la differenza. L’Albania è costellata di bunker dei quali la paranoia del suo regime aveva riempito il territorio, soprattutto le rive. In parte abbandonati e in parte vissuti, sono ora spazi della miseria, della comunità, delle macerie.
Altri luoghi, altre terre: l’Almería è un deserto di marmo e di foreste metafisiche; le bambine turche sono assolutamente esotiche -lontane- pur nella loro comunissima divisa di scolare; la potenza infranta della Georgia è intrisa di sensualità e di morte; la gente e le strade degli Stati Uniti d’America sono fatti di solitudine, di obesità, di rassegnata disperazione.
winship_UsaSpazi, popoli e individui sono narrati in un bianco e nero granuloso e dinamico che fa emergere dagli oggetti, dai volti, dai musicisti, dai soldati, dalle spose, dagli ubriachi, dagli adolescenti, dai corpi, tutta la malinconia delle cose che sono destinate a finire, e a finire presto.
Lo sguardo di questa fotografa non è mai banale, è sempre profondo, intriso di lucidità e di pianto. Vi emergono per intero l’orgoglio e la fragilità degli umani. È tutto molto oltre il reportage e il fotogiornalismo, è quasi un’idea platonica delle rovine antropologiche, paesaggistiche, spaziotemporali.

L'anarchia selvaggia

 

Recensione a:
Pierre Clastres
L’anarchia selvaggia
Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re
(Elèuthera, 2013)
in A rivista anarchica
n. 384, Novembre 2013
Pagine 56-58

Consiglio anche -tra i tanti contributi di questo come degli altri numeri di A– la lettura di una riflessione di Stefano d’Errico sulla buona educazione come atteggiamento rivoluzionario, Generazione siberiana; del dossier dedicato alla Grecia, Exarcheia e le Cicladi; della riflessione di Peter Lamborn Wilson (alias Hakim Bey) sulla possibilità di una religione anarchica, con molti riferimenti a Nietzsche e al paganesimo; della recensione di Andrea Staid a Lo Stato di Harold B. Barclay; della critica che Felice Accame rivolge allo scientismo più dogmatico, Le scoperte dell’America e i fossili culturali; della ricostruzione che Luigi Botta fa degli ultimi istanti e dei funerali di Sacco e Vanzetti, La storia infinita di Nicola e Bart.

 

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

Entropologia

È stata resa nota oggi la morte di Claude Lévi-Strauss, avvenuta il 1 novembre a Parigi. Uno dei risultati della sua ricerca è che «nessuna società è profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva; offrono tutte certi vantaggi ai loro membri, tenuto conto di un residuo di iniquità che sembra più o meno costante» (Tristes Tropiques, 1955; trad. it. Il Saggiatore 1996, p.375). La società umana si presenta nel tempo e nello spazio con una varietà di espressioni e organizzazioni che lascia in ogni caso intravedere il reticolo comune, gli elementi strutturali la cui individuazione rimane il maggiore contributo che le ricerche di Lévi-Strauss abbiano fornito. In ogni caso,

il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all’umanità di sostenervi il suo ruolo. (…) Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso. (…) Piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare «entropologia» questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte, questo processo di disintegrazione.
(402-403)

Tristi tropici, triste antropologia.

Massa e potere

di Elias Canetti
(Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960)
Trad. di Furio Jesi
Adelphi, Milano 1981
Pagine 615

massa_potere

Questo libro restituisce del tutto, senza risolverlo ma addirittura ampliandolo, l’enigma della massa. Non si tratta di un affresco storico né di una tipologia sociologica ma di una serie di frammenti per pensare. Canetti tenta (in un senso molto diverso da Foucault) una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade.
La dinamica individuo-massa viene imperniata sul contrasto fra due forze opposte. Quella centrifuga spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione, tuttavia, comporta un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto (…) D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo» (pag. 18). Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile» (35), che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine, la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento. E quindi la forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza» (273). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (366).  Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» (373). È questa per Canetti la spirale paranoica del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità» (570): l‘arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (336).

Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile. Masse che esprimono anch’esse quel desiderio di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (87).
Il libro coinvolge a fondo. Un maestro della scrittura -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- in delle pagine splendenti offre una comprensione radicale del potere, guarda il volto della Medusa e sopravvive.

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