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De vero arbitrio

La libertà del volere umano
di Arthur Schopenhauer
(Über die Freiheit des menschlichen Willens, 1838)
Traduzione di Ervino Pocar
Laterza, 19882 (1981)
Pagine 152

Inserendosi esplicitamente nella linea che va da Lutero a Hobbes, da Vanini a Hume, da Priestley a Voltaire e soprattutto a Spinoza, Schopenhauer offre una risposta coerente e profonda al problema della libertà del volere.
L’esperienza quotidiana e l’autoscoscienza ci dicono, certo, che noi possiamo fare ciò che vogliamo ma la questione è un’altra: posso anche volere ciò che voglio? Non si cerca la libertà del fare, che è evidente, ma quella del volere. Possediamo la prima forma di libertà (l’actus imperatus) ma non la seconda (l’actus elicitus). Questo è il senso della distinzione spinoziana fra libertà e costrizione: chiamiamo libere quelle azioni che non sono ordinate da una potenza esterna ma vengono imposte dalla natura stessa dell’agente. Azioni che tuttavia rimangono in ogni caso determinate.
Ritenere la volontà un prius senza fondamento è ragionare sul nulla, addirittura sull’impensabile. In realtà, ogni volere e quindi ogni azione si fondano su due elementi: il carattere perenne e la motivazione occasionale. Insieme, essi producono la ferrea necessità dell’agire umano.

Come una palla di bigliardo non può mettersi in moto prima di aver ricevuto un urto, nemmeno l’uomo può alzarsi dalla seggiola prima che un motivo lo attiri o lo spinga: allora però il suo alzarsi è necessario e immancabile come il rotolare della palla dopo l’urto. E aspettarsi che uno faccia qualcosa alla quale non lo inviti alcun interesse è come attendersi che un pezzo di legno si muova verso di me senza che ci sia una fune a tirarlo (p. 89).

La differente risposta alla miriade di sollecitazioni e di motivi che l’esperienza offre dipende dalla diversità delle nature umane. Il carattere di ciascuno è, infatti, individuale, empirico (e quindi conoscibile solo con l’esperienza), costante nel tempo, innato: «data un’educazione e un ambiente perfettamente uguali, due bambini rivelano chiaramente caratteri del tutto diversi» (98). Il carattere rappresenta la generale modalità dell’agire, il motivo è la singola causa scatenante. La verità è che operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari (118). Non c’è spazio per rimorsi e rimpianti, anche le circostanze apparentemente più casuali sono il frutto di un’infinita serie di concatenazioni. Allorché una di esse incontra un determinato carattere, scaturisce immancabile la scelta, quella scelta e nessun’altra. «Dobbiamo considerare gli avvenimenti con gli stessi occhi coi quali consideriamo lo stampato che leggiamo, ben sapendo che c’era prima che lo leggessimo» (107).
L’accettazione di questa verità è per Schopenhauer la pietra di paragone che permette di distinguere le menti filosofiche dalle altre. Esattamente come per Spinoza e per Nietzsche. Per essi sapere che «tutto ciò che avviene dal fatto più grande al più piccolo avviene necessariamente. Quidquid fit necessario fit» (106) è la premessa della più solida tranquillità.
Tuttavia Schopenhauer lascia un ampio spazio all’agire dell’uomo. Il suo determinismo -come quello, ancora una volta, di Spinoza e di Nietzsche- non ha nulla di fatalistico, passivo, amorfo. Se il carattere è di fatto immodificabile -tanto da spiegare il sistematico fallimento di tutti i moralismi-, c’è un ambito in cui il miglioramento è possibile: esso è la conoscenza. Emerge qui tutto il socratismo di Schopenhauer:

Il carattere è immutabile, i motivi agiscono con necessità, ma devono passare attraverso la conoscenza che è l’intermediaria dei motivi. Essa però ha la capacità di allargarsi nel modo più vario, di rettificarsi continuamente per gradi innumerevoli, e a questo mira ogni educazione. Il perfezionamento della ragione mediante ogni sorta di nozioni e intuizioni diventa moralmente importante in quanto apre l’accesso a motivi dai quali senza di essa l’uomo rimarrebbe precluso (97).

Aiutandoci a capire, Schopenhauer ha allargato lo spazio della nostra libertà. L’operari è necessario ma l’esse è libero perché avrebbe potuto essere diverso: «Tutto dipende da ciò che uno è; ciò che fa risulterà poi da sé come corollario necessario» (146).

Contro la colpa

Un autentico processo di liberazione sa distinguere in modo netto il danno rispetto alla colpa. Il danno è un dato empirico, è un fatto. La colpa è una costruzione culturale, è un veleno per la vita, la cui pervasività si deve in gran parte all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam. Il senso di colpa è completamente inutile e dannoso. Sentirsi in colpa verso qualcuno significa infatti quasi sempre odiarlo, proprio a causa del senso di colpa che produce in noi. «Non rimorso! Bensì compensare il mal fatto con una buona azione!» (F.Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, [Opere, vol. V/2], fr. 11 [345] ).

Passioni

I monoteismi impongono una cura chirurgica delle passioni, il cui effetto è l’opposto dell’equilibrata soluzione greca che consiste nel dare di tanto in tanto uno sfogo festoso alle cattive inclinazioni. È questo l’elemento etico del paganesimo rimasto fin dal principio incomprensibile all’ordine morale ebraico, cristiano e islamico. I Greci riconoscevano l’inevitabilità del desiderio e della violenza insiti nella natura umana e invece di tentare ingenuamente di estirparli preferivano dar loro una legittimazione sociale e una ritualizzazione che favorisse l’espressione dell’estremo conservando nel contempo il controllo delle sue manifestazioni. Si tratta di una forma di libertà interiore e comportamentale la quale non si mutila della dimensione ebbra e dionisiaca che abita al fondo dei cuori umani non ancora spenti. Tenta piuttosto di consentirle uno sfogo moderato atto a salvaguardare sia l’elemento orgiastico che quello razionale.

Sul suicidio (e altri saggi scelti)

Sul suicidio
di David Hume
Introduzione di Gaetano Vittone
Edizione a cura di Giuseppe Torresi
Traduzione di Chiara Vitalone
Villaggio Maori Edizioni
Catania, 2008
Pagine 80

Le riflessioni di Hume sul suicidio ben si inseriscono nel quadro naturalistico che sottende tutto il suo pensiero. Se il suicidio è un “crimine” perché infrange il corso delle cose voluto dalla potenza divina, allora va giudicato altrettanto colpevole ogni e qualsiasi intervento sulla natura, le sue leggi, le sue manifestazioni:

Se disporre della vita umana fosse un diritto esclusivo dell’Onnipotente, tanto che fosse una violazione del suo ufficio per gli uomini disporre delle proprie vite, sarebbe ugualmente criminoso agire per la sua conservazione come per la sua distruzione. Se schivo una pietra che sta per cadere sulla mia testa, turbo il corso della natura e usurpo quella particolare funzione propria dell’Onnipotente, prolungando la mia vita oltre il tempo che, secondo le leggi generali della materia e del moto, Egli le aveva assegnato. (pp. 15-16)

Tra le altre argomentazioni a difesa del suicidio ve n’è una la cui verità è evidente, quella per la quale «nessun uomo abbia gettato via la vita, finché essa era degna di essere conservata» (20). È l’attenzione alla qualità dell’esistere a essere del tutto disprezzata dal fanatismo e dalla superstizione che vogliono legare gli umani alla sofferenza come se essa fosse un valore da perseguire invece che un male da, finché è possibile, evitare. A tale superstizione monoteistica Hume oppone l’etica naturalistica del mondo classico, ben riassunta nella parole di Seneca e di Plinio. Il primo ringrazia Dio «quod nemo in vita teneri potest» (Epist. 12, qui 67). Il secondo compiange gli dèi proprio perché non possono, pur volendolo, darsi la morte: «Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae poenis» (Nat. Hist. II, 5, qui 69).

Nonostante la frequente ironia che esercita anche sul mondo classico, Hume è ben ancorato in esso. Lo dimostrano la difesa della serenità e della gioia contro ogni cupezza e malinconia su questa e su altre vite; il socratismo di fondo che gli fa dire come sia molto raro «che un uomo di gusto e di sapere non sia, alla fine, un uomo onesto, qualsiasi debolezza possa mostrare» (57); l’analisi di sentimenti quali l’innamoramento o il pregiudizio positivo che ogni specie e individuo nutrono nei confronti dei propri figli; la precisione con la quale riassume l’atteggiamento di fondo di una filosofia che pur detesta come la platonica.
È anche la capacità analitica che le è propria a fare della filosofia, compresa quella di Hume, un «antidoto supremo contro le superstizioni e la falsa religione», un farmaco che sa arrivare là dove gli altri falliscono. (11) Per Hume il suo limite è, semmai, di costituire un sapere e un atteggiamento troppo sofisticati per essere alla portata di tutti. La filosofia richiede, infatti, una natura a essa predisposta.

Questo importante libro rende quindi accessibili alcuni saggi di Hume non facilmente leggibili in italiano. La traduzione e la cura sono ottimi. L’introduzione di Gaetano Vittone si conclude con una citazione di Quine secondo il quale «la situazione humiana è la situazione umana» (5). Pur ritenendo tale affermazione iperbolica e parziale, riconosco che il filosofo scozzese ha colto molto della identità e della potenza umane quando ha sostenuto la centralità della mente nella costruzione del senso e del valore delle cose:

Tutte le differenze di condizione di vita dipendono dalla mente; e non esiste alcuna situazione che sia in qualche modo preferibile a un’altra. Il bene e il male, sia fisico che morale, sono del tutto relativi ai sentimenti e agli affetti umani. Nessun uomo sarebbe più infelice, se potesse mutare i suoi sentimenti. Come PROTEO, egli potrebbe sfuggire a tutti gli attacchi della fortuna, con la trasformazione continua del suo aspetto e della sua figura. (55)

La mente-proteo è dunque capace di fare del mondo il luogo del significato, uno spazio semantico e fenomenologico che è l’autentico spazio umano al di là di ogni oggettivo darsi della materia.

«Le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli» (Mt, 21, 31)

Non pèrdono occasione per ergersi a tutori e paladini della “morale naturale”, cioè della loro. Reputano ogni altra prospettiva etica un errore e una perversione o, come usan dire, “un disordine grave”. Concionano senza requie su embrioni, moribondi, rapporti coniugali, profilattici, omosessuali…Risulta quindi stupefacente il loro quasi assoluto silenzio sull’esempio di vita morale che il Presidente del Consiglio italiano offre ai milioni di fedeli cattolici (e ai giovinetti loro figli) che hanno contribuito alla sua elezione. Il culmine è raggiunto quando costui offre dei consigli in materia di piacere sessuale a una prostituta, dicendole -testualmente- «Mi posso permettere? Tu devi fare sesso da sola…Devi toccarti con una certa frequenza».
Questo cortese ed esplicito invito alla masturbazione formulato da una altissima autorità politica del Paese più caro al cuore di Papi e Cardinali non suscita nelle loro anime neppure la più flebile eco. «Rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume» (Mt., 23, 27)

Mente & Cervello 55 – Luglio 2009

M&C_55_luglio_09

La decostruzione schopenahueriana e nietzscheana dell’etica dimostra che se per azioni morali si intendono azioni compiute solo per altruismo, allora non esistono azioni morali. Constatazione che ci apparirebbe ovvia se non fossimo permeati di richieste impossibili e innaturali come quelle di alcuni precetti cristiani. Un articolo di D.Ovadia dedicato al “piacere di donare” offre la conferma sperimentale (se ce ne fosse bisogno) di tale banalità: «È evidente che chi dona trae un certo beneficio dal proprio gesto» (pag. 36), non foss’altro la gratificazione per averlo compiuto.

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