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Mazzarella. Vita politica valori

Recensione a:
Eugenio Mazzarella
Vita politica valori. Sensibilità individuali e sentire comunitario
in Giornale di Metafisica
n. 33, 1/2 2011 – Autunno 2011
Pagine 317-319

– Pdf della recensione

Il volume analizza in modo rigoroso il nesso tra etica, storia e natura umana mediante la discussione di alcune questioni tanto essenziali nel tessuto della nostra quotidianità quanto fragili nel loro statuto teorico: la fecondazione assistita, le condizioni terminali di vita, le Dichiarazioni anticipate di trattamento, la regolamentazione delle coppie di fatto e in particolare delle coppie omosessuali stabili, il problema dell’identità e dell’integrazione nei rapporti tra religioni e democrazia. Il libro si presenta come un punto di riferimento indispensabile per il legislatore, per il filosofo e per il cittadino. I temi che il testo affronta ne escono infatti più forti nelle loro strutture profonde e più limpide nelle possibili risposte.

Consilience

L’armonia meravigliosa
Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza
di Edward O. Wilson
(Consilience, 1998)
Trad. di Roberto Cagliero

Il titolo italiano di quest’opera cerca, senza riuscirci, di restituire la densità di contenuto di un termine dell’inglese arcaico come Consilience. Coincidenza, convergenza, unificazione; questo è il plesso semantico che il titolo originale intende evocare. Convergenza tra che cosa? Tra il sapere scientifico e quello umanistico, non due campi separati e distinti -come induce a pensare lo specialismo che va diventando una palude di discipline minori dentro le quali affonda la comprensione del mondo- ma due ramificazioni dell’unico sapere umano e naturale, da apprendere nella sua unitarietà originaria e profonda. La complessità del mondo è incomprensibile senza una visione capace di sintetizzare science e humanities. Infatti,

l’idea centrale della visione coincidente del mondo è che tutti i fenomeni tangibili, dalla nascita delle stelle al funzionamento delle istituzioni sociali, sono fondati su processi materiali in ultima analisi riconducibili alle leggi della fisica, indipendentemente dalla tortuosità e dalla durata delle sequenze (pag. 305).

Comprendere la condizione umana significa anzitutto capire i geni e la cultura. E non come ambiti e funzioni autonome ma nella loro essenziale coevoluzione. L’evoluzione del cervello e quella dei comportamenti hanno proceduto insieme per milioni di anni. La radice di molti dei pericoli che sovrastano la Terra e l’umanità risiede proprio nel fatto che da alcuni millenni -dalla Rivoluzione neolitica- l’evoluzione culturale è diventata incomparabilmente più veloce di quella genetica. Tuttavia, ancora oggi

la cultura è creata dalla mente comune e ogni mente individuale a sua volta è il prodotto del cervello umano, che è strutturato geneticamente. I geni e la cultura sono dunque collegati in modo inscindibile. Ma il collegamento è flessibile, in termini finora quasi del tutto incommensurabili. Ed è nel contempo tortuoso: i geni codificano regole epigenetiche, che sono i percorsi neurologici e gli aspetti regolari dello sviluppo cognitivo grazie ai quali la mente individuale si assembla. La mente cresce dalla nascita fino alla morte assorbendo parti della cultura esistente che trova disponibili, avvalendosi di selezioni guidate dalle regole epigenetiche ereditate dal cervello individuale (144, corsivo dell’Autore).

I concetti chiave sui quali si fonda questo tentativo di unificazione della conoscenza sono i seguenti: epigenesi, natura umana, naturalismo etico, panteismo biologico.

L’epigenesi «definisce lo sviluppo di un organismo sotto l’influsso congiunto dell’eredità e dell’ambiente» (221-222). Educazione e geni, storia e biologia, appreso e innato non sono per nulla in conflitto tra di loro proprio perché «nell’ampia zona che sta a metà tra le visioni estreme del Modello Standard delle Scienze Sociali e il determinismo genetico, le scienze sociali sono essenzialmente compatibili con quelle naturali» (216).

Homo sapiens è una specie appartenente all’ordine dei Primati, la cui identità è data dalle regole epigenetiche, dalle «regolarità ereditarie dello sviluppo mentale che spingono l’evoluzione culturale in una direzione e non in un’altra, collegando così i geni con la cultura» (188). Non c’è nulla di fatalistico in una simile visione dell’umanità. Nessun sociobiologo ha mai sostenuto che le forme specifiche di cultura, i valori di una popolazione, le sue credenze, siano dettati dai geni. Sono gli scienziati sociali, invece, ad assolutizzare una delle due dimensioni, ignorando -a volte ostentatamente- i contributi della genetica e dello studio del cervello umano, l’organo dal quale, dopotutto, nasce ogni pensiero, valore, principio di comportamento. Anche a causa di tale ignoranza, gli scienziati sociali vengono regolarmente colti di sorpresa dallo sviluppo dei fenomeni che pure studiano con assiduità, data la tipica tendenza a sopravvalutare i sistemi ideologici (credenze religiose, dottrine politiche, strutture economiche) a detrimento di concause di tipo biologico (territorialismo, disponibilità delle risorse, aggressività intraspecifica). La cultura è certo lo scarto della nostra specie rispetto a ogni altra ma anch’essa è -e altro non potrebbe essere- il prodotto più recente della storia genetica dell’umanità. All’ingenuo antropocentrismo dominante nelle scienze sociali e umane bisogna opporre il dato di fatto che «la nostra specie e il suo modo di pensare sono un prodotto, e non il fine, dell’evoluzione» (35). L’universo non è stato certo pensato a misura di una specie abitante su un piccolo pianeta alla periferia della Via Lattea. Piuttosto che crederci padroni della Terra, converrebbe -prima di tutto a noi stessi- mostrarci rispettosi della miriade di forme di vita con le quali conviviamo e da cui dipende la nostra sopravvivenza.

Sta qui la necessità di un’etica naturalistica, i cui capisaldi possono essere così sintetizzati: centralità del corpo; coesistenza di passione e razionalità; rifiuto della credenza nel libero arbitrio; altruismo e fitness. L’etica nasce dal basso del corpo e delle sue esperienze e non dall’alto di una rivelazione. Certo, aggiunge Wilson, «la fiducia nel libero arbitrio è biologicamente proficua. In sua mancanza la mente, imprigionata nel fatalismo, rallenterebbe e finirebbe per deteriorarsi» (137).

L’ultima -ma decisiva- espressione della consilience è ciò che potremmo definire panteismo biologico. Wilson riconosce la profondità del bisogno del sacro nell’uomo e individua nelle realtà fisiche scoperte dalla scienza un fascino superiore a quello delle cosmologie religiose.

Qual è lo scopo finale di questa proposta scientifica? Contribuire, ancora una volta, a capire chi e cosa siamo e -da qui- comprendere una serie di gravi questioni per tentare di affrontarle meglio. Il problema principale è la progressiva scomparsa della biodiversità, causata soprattutto dalle enormi esigenze materiali della specie umana: «la crescita della popolazione può essere giustamente definita il mostro della Terra» (331) e contro di essa bisogna operare con consapevolezza, convinzione e decisione, pena la scomparsa della maggior parte degli ecosistemi, delle specie viventi e, infine, della stessa umanità.
Cervello e cultura sono dunque unificati da questo libro in una prospettiva biologica che è materialistica senza però essere riduzionistica.

De vero arbitrio

La libertà del volere umano
di Arthur Schopenhauer
(Über die Freiheit des menschlichen Willens, 1838)
Traduzione di Ervino Pocar
Laterza, 19882 (1981)
Pagine 152

Inserendosi esplicitamente nella linea che va da Lutero a Hobbes, da Vanini a Hume, da Priestley a Voltaire e soprattutto a Spinoza, Schopenhauer offre una risposta coerente e profonda al problema della libertà del volere.
L’esperienza quotidiana e l’autoscoscienza ci dicono, certo, che noi possiamo fare ciò che vogliamo ma la questione è un’altra: posso anche volere ciò che voglio? Non si cerca la libertà del fare, che è evidente, ma quella del volere. Possediamo la prima forma di libertà (l’actus imperatus) ma non la seconda (l’actus elicitus). Questo è il senso della distinzione spinoziana fra libertà e costrizione: chiamiamo libere quelle azioni che non sono ordinate da una potenza esterna ma vengono imposte dalla natura stessa dell’agente. Azioni che tuttavia rimangono in ogni caso determinate.
Ritenere la volontà un prius senza fondamento è ragionare sul nulla, addirittura sull’impensabile. In realtà, ogni volere e quindi ogni azione si fondano su due elementi: il carattere perenne e la motivazione occasionale. Insieme, essi producono la ferrea necessità dell’agire umano.

Come una palla di bigliardo non può mettersi in moto prima di aver ricevuto un urto, nemmeno l’uomo può alzarsi dalla seggiola prima che un motivo lo attiri o lo spinga: allora però il suo alzarsi è necessario e immancabile come il rotolare della palla dopo l’urto. E aspettarsi che uno faccia qualcosa alla quale non lo inviti alcun interesse è come attendersi che un pezzo di legno si muova verso di me senza che ci sia una fune a tirarlo (p. 89).

La differente risposta alla miriade di sollecitazioni e di motivi che l’esperienza offre dipende dalla diversità delle nature umane. Il carattere di ciascuno è, infatti, individuale, empirico (e quindi conoscibile solo con l’esperienza), costante nel tempo, innato: «data un’educazione e un ambiente perfettamente uguali, due bambini rivelano chiaramente caratteri del tutto diversi» (98). Il carattere rappresenta la generale modalità dell’agire, il motivo è la singola causa scatenante. La verità è che operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari (118). Non c’è spazio per rimorsi e rimpianti, anche le circostanze apparentemente più casuali sono il frutto di un’infinita serie di concatenazioni. Allorché una di esse incontra un determinato carattere, scaturisce immancabile la scelta, quella scelta e nessun’altra. «Dobbiamo considerare gli avvenimenti con gli stessi occhi coi quali consideriamo lo stampato che leggiamo, ben sapendo che c’era prima che lo leggessimo» (107).
L’accettazione di questa verità è per Schopenhauer la pietra di paragone che permette di distinguere le menti filosofiche dalle altre. Esattamente come per Spinoza e per Nietzsche. Per essi sapere che «tutto ciò che avviene dal fatto più grande al più piccolo avviene necessariamente. Quidquid fit necessario fit» (106) è la premessa della più solida tranquillità.
Tuttavia Schopenhauer lascia un ampio spazio all’agire dell’uomo. Il suo determinismo -come quello, ancora una volta, di Spinoza e di Nietzsche- non ha nulla di fatalistico, passivo, amorfo. Se il carattere è di fatto immodificabile -tanto da spiegare il sistematico fallimento di tutti i moralismi-, c’è un ambito in cui il miglioramento è possibile: esso è la conoscenza. Emerge qui tutto il socratismo di Schopenhauer:

Il carattere è immutabile, i motivi agiscono con necessità, ma devono passare attraverso la conoscenza che è l’intermediaria dei motivi. Essa però ha la capacità di allargarsi nel modo più vario, di rettificarsi continuamente per gradi innumerevoli, e a questo mira ogni educazione. Il perfezionamento della ragione mediante ogni sorta di nozioni e intuizioni diventa moralmente importante in quanto apre l’accesso a motivi dai quali senza di essa l’uomo rimarrebbe precluso (97).

Aiutandoci a capire, Schopenhauer ha allargato lo spazio della nostra libertà. L’operari è necessario ma l’esse è libero perché avrebbe potuto essere diverso: «Tutto dipende da ciò che uno è; ciò che fa risulterà poi da sé come corollario necessario» (146).

Contro la colpa

Un autentico processo di liberazione sa distinguere in modo netto il danno rispetto alla colpa. Il danno è un dato empirico, è un fatto. La colpa è una costruzione culturale, è un veleno per la vita, la cui pervasività si deve in gran parte all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam. Il senso di colpa è completamente inutile e dannoso. Sentirsi in colpa verso qualcuno significa infatti quasi sempre odiarlo, proprio a causa del senso di colpa che produce in noi. «Non rimorso! Bensì compensare il mal fatto con una buona azione!» (F.Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, [Opere, vol. V/2], fr. 11 [345] ).

Passioni

I monoteismi impongono una cura chirurgica delle passioni, il cui effetto è l’opposto dell’equilibrata soluzione greca che consiste nel dare di tanto in tanto uno sfogo festoso alle cattive inclinazioni. È questo l’elemento etico del paganesimo rimasto fin dal principio incomprensibile all’ordine morale ebraico, cristiano e islamico. I Greci riconoscevano l’inevitabilità del desiderio e della violenza insiti nella natura umana e invece di tentare ingenuamente di estirparli preferivano dar loro una legittimazione sociale e una ritualizzazione che favorisse l’espressione dell’estremo conservando nel contempo il controllo delle sue manifestazioni. Si tratta di una forma di libertà interiore e comportamentale la quale non si mutila della dimensione ebbra e dionisiaca che abita al fondo dei cuori umani non ancora spenti. Tenta piuttosto di consentirle uno sfogo moderato atto a salvaguardare sia l’elemento orgiastico che quello razionale.

Sul suicidio (e altri saggi scelti)

Sul suicidio
di David Hume
Introduzione di Gaetano Vittone
Edizione a cura di Giuseppe Torresi
Traduzione di Chiara Vitalone
Villaggio Maori Edizioni
Catania, 2008
Pagine 80

Le riflessioni di Hume sul suicidio ben si inseriscono nel quadro naturalistico che sottende tutto il suo pensiero. Se il suicidio è un “crimine” perché infrange il corso delle cose voluto dalla potenza divina, allora va giudicato altrettanto colpevole ogni e qualsiasi intervento sulla natura, le sue leggi, le sue manifestazioni:

Se disporre della vita umana fosse un diritto esclusivo dell’Onnipotente, tanto che fosse una violazione del suo ufficio per gli uomini disporre delle proprie vite, sarebbe ugualmente criminoso agire per la sua conservazione come per la sua distruzione. Se schivo una pietra che sta per cadere sulla mia testa, turbo il corso della natura e usurpo quella particolare funzione propria dell’Onnipotente, prolungando la mia vita oltre il tempo che, secondo le leggi generali della materia e del moto, Egli le aveva assegnato. (pp. 15-16)

Tra le altre argomentazioni a difesa del suicidio ve n’è una la cui verità è evidente, quella per la quale «nessun uomo abbia gettato via la vita, finché essa era degna di essere conservata» (20). È l’attenzione alla qualità dell’esistere a essere del tutto disprezzata dal fanatismo e dalla superstizione che vogliono legare gli umani alla sofferenza come se essa fosse un valore da perseguire invece che un male da, finché è possibile, evitare. A tale superstizione monoteistica Hume oppone l’etica naturalistica del mondo classico, ben riassunta nella parole di Seneca e di Plinio. Il primo ringrazia Dio «quod nemo in vita teneri potest» (Epist. 12, qui 67). Il secondo compiange gli dèi proprio perché non possono, pur volendolo, darsi la morte: «Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae poenis» (Nat. Hist. II, 5, qui 69).

Nonostante la frequente ironia che esercita anche sul mondo classico, Hume è ben ancorato in esso. Lo dimostrano la difesa della serenità e della gioia contro ogni cupezza e malinconia su questa e su altre vite; il socratismo di fondo che gli fa dire come sia molto raro «che un uomo di gusto e di sapere non sia, alla fine, un uomo onesto, qualsiasi debolezza possa mostrare» (57); l’analisi di sentimenti quali l’innamoramento o il pregiudizio positivo che ogni specie e individuo nutrono nei confronti dei propri figli; la precisione con la quale riassume l’atteggiamento di fondo di una filosofia che pur detesta come la platonica.
È anche la capacità analitica che le è propria a fare della filosofia, compresa quella di Hume, un «antidoto supremo contro le superstizioni e la falsa religione», un farmaco che sa arrivare là dove gli altri falliscono. (11) Per Hume il suo limite è, semmai, di costituire un sapere e un atteggiamento troppo sofisticati per essere alla portata di tutti. La filosofia richiede, infatti, una natura a essa predisposta.

Questo importante libro rende quindi accessibili alcuni saggi di Hume non facilmente leggibili in italiano. La traduzione e la cura sono ottimi. L’introduzione di Gaetano Vittone si conclude con una citazione di Quine secondo il quale «la situazione humiana è la situazione umana» (5). Pur ritenendo tale affermazione iperbolica e parziale, riconosco che il filosofo scozzese ha colto molto della identità e della potenza umane quando ha sostenuto la centralità della mente nella costruzione del senso e del valore delle cose:

Tutte le differenze di condizione di vita dipendono dalla mente; e non esiste alcuna situazione che sia in qualche modo preferibile a un’altra. Il bene e il male, sia fisico che morale, sono del tutto relativi ai sentimenti e agli affetti umani. Nessun uomo sarebbe più infelice, se potesse mutare i suoi sentimenti. Come PROTEO, egli potrebbe sfuggire a tutti gli attacchi della fortuna, con la trasformazione continua del suo aspetto e della sua figura. (55)

La mente-proteo è dunque capace di fare del mondo il luogo del significato, uno spazio semantico e fenomenologico che è l’autentico spazio umano al di là di ogni oggettivo darsi della materia.

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