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Per i novant’anni di Emanuele Severino

È in corso in questi giorni a Brescia, sua città natale (da padre siciliano), un convegno dal titolo Heidegger nel pensiero di Severino. A questo filosofo, e ai suoi novant’anni, vorrei rendere omaggio con una breve analisi dedicata a Heidegger e la metafisica, libro nel quale la prospettiva neoeleatica non era così imponente e pervasiva come diventerà poi. Anche per questo si tratta di un libro aperto e fecondo, che ha ancora molto da dire.

Emanuele Severino
Heidegger e la metafisica
Adelphi, 1994
Pagine 588

Gli scritti di Emanuele Severino qui raccolti vanno dal 1948 al 1958. Il testo più importante è la tesi di laurea dedicata a Heidegger e la metafisica, del 1950. Il giovane filosofo perviene a notevoli esiti ermeneutici e teoretici, tra i quali l’individuazione dell’unitarietà del Denkweg heideggeriano, le cui ‘svolte’ stanno più nella penna degli interpreti che nell’itinerario del filosofo, limitandosi quest’ultimo alla modifica delle forme espressive e non della sostanza del pensiero. Lungo tutto il suo cammino «Heidegger impersona il viandante alla ricerca dell’essere» (§ 87, p. 345), il cui passo –  e questa è una seconda intuizione di grande rilievo – è sempre stato di impronta fenomenologica. Una costanza fenomenologica rivolta all’essere come all’«orizzonte entro cui l’ente particolare sussiste» (§ 11, p. 64).
Questa terza acquisizione è quella fondamentale. Da essa Severino fa correttamente derivare sia il radicarsi di Heidegger nel terreno del sacro sia il suo rifiuto dell’etica. L’ontologia è infatti «il fondamento di ogni teologia: soltanto a partire dalla luce dell’essere si può pervenire all’illuminazione del Sacro come naturale orizzonte del Divino» (§ 82, p. 337). La ricchezza dell’ontologia è anche la ragione dell’insufficienza di ogni sguardo morale sul mondo. È infatti a causa del suo essere soltanto una parte dell’intero che il Dasein è lambito e intessuto di nulla, poiché in quanto ente non è l’essere. La cura verso il mondo è attraversata per intero da questa nullità; è «tale immersione nel nulla» a costituire «la colpevolezza strutturale del Dasein. La colpa, nella sua ontologicità, non è l’esser colpevole di fatto, è il fondamento ontologico di ogni comportamento morale (ontico-esistentivo) buono o cattivo» (§ 47, p. 232).
Anche senza esplicitamente tematizzarla, Severino riconosce dunque la natura gnostica del pensare heideggeriano, a partire dall’«esser fondamento di una nullità’: Grundsein einer Nichtigkeit. Questo originario esser colpevole è il fondamento di ogni colpa in cui può incorrere il Dasein: non il Dasein è colpevole perché è incorso in una colpa» (§ 47, p. 228). Colpa che si esprime nell’angoscia non come sentimento psichico ma come struttura ontologica: «L’angoscia svela il mondo come mondo (Welt als Welt) e cioè l’in-essere come puro, isolato, poter essere (Seinkönnen) nel suo esser gettato. […] Nell’ente il Dasein dimentica la sua nullità e si sente ‘a casa sua’ (Zuhause). L’angoscia svela invece l’essenziale non-essere-a-casa-sua del Dasein (Un-zu-hause)» (§ 34, p. 157).

Al di là dell’etica, dentro il sacro, nell’unità del metodo fenomenologico, si dispiega la questione dell’essere, vale a dire la metafisica. Il fatto che successivamente, nell’Avvertenza del 1994, Severino capovolga il segno della sua interpretazione del 1950 non diminuisce certo la lucidità di quella lettura: «La vicinanza di Heidegger alla metafisica classica è la vicinanza alla matrice stessa dell’alienazione fondamentale dell’Occidente, mentre in quel mio saggio giovanile quella vicinanza era il sintomo della verità del pensiero heideggeriano» (p. 22). Naturalmente Heidegger non esprime affatto l’«alienazione fondamentale dell’Occidente», e ciò anche per le ragioni individuate nel suo saggio da Severino, la cui premessa –  del tutto condivisibile – è che filosofia e metafisica coincidono: «La soluzione del problema filosofico non può, nella sua assolutezza, non essere metafisica» (p. 33).
L’assolutezza heideggeriana – vale a dire il suo pensare da ontologo e non da teorico della conoscenza, da sociologo, da epistemologo – fa di lui «un alleato e non un nemico» della metafisica (§ 85, p. 342). Metafisica vuol dire infatti discoprimento dell’essere in quanto tale, al di là dei modi parziali e degli enti specifici nei quali e attraverso i quali l’essere si svela. L’ontologia  è anche una scienza del nulla, inteso come differenza rispetto all’essere delle cose e trascendenza rispetto al loro stare.
Il nulla è infatti «il non essere ente dell’essere, non esser ente nel senso di non essere questo e quest’altro ente, ma di trascendere ogni ente particolare e ogni determinazione: ‘Sein ist das trascendens schlechthin’ (‘l’essere è il trascendente come tale’)» (§ 14, p. 74). E dunque l’essere non si esaurisce negli enti ma li trascende sempre, è il trascendente in quanto tale.

Questi concetti, questo linguaggio, queste conclusioni sono forma, sostanza e costruzione della metafisica, alla quale secondo Severino Heidegger intende fornire una solida base, costruita naturalmente sul fondamento aristotelico e in generale greco ma capace di oltrepassarne i limiti sia storici sia metodologici rispetto alle prospettive e alla complessità del presente, vale a dire di un pensare che deve sempre confrontarsi con la metamorfosi cartesiana e moderna della filosofia in scienza del soggetto assoluto.
La filosofia di Heidegger è intessuta di metafisica nei tre elementi del suo metodo, del punto di partenza ontico – riguardante gli enti –, della  sua direzione ontologica, rivolta all’essere e al suo esser nulla rispetto all’ente. Severino ha dunque perfettamente ragione a vedere nella metafisica il baricentro del pensare heideggeriano. E ha ancora ragione quando, più di quarant’anni dopo, individua il fondamento del pensiero europeo nel «senso greco del divenire.  La fede nell’esistenza del divenire è, insieme, la fede che il divenire è il contenuto dell’esperienza e l’evidenza originaria»; ha torto, però, ad aggiungere che «questa fede esclude con necessità ogni forma e ogni struttura immutabile, e quindi ogni conoscenza definitiva e incontrovertibile e ogni metafisica» (p. 15).
Al contrario: la distinzione tra l’adesso che sta e l’adesso che diviene è il nucleo più profondo della differenza ontologica. L’adesso che sta sono gli enti. L’adesso che diviene è l’essere. L’adesso che sta è reale, l’adesso che diviene è reale. Gli enti sono reali, l’essere è reale. L’essere del tempo è il suo divenire, la differenza ontologica è la temporalizzazione dell’essere: «Der Unterschied von Sein und Seienden ist in der Zeitigung der Zeitlichkeit gezeitigt», ‘la differenza tra l’essere e gli enti consiste nella temporalizzazione dell’essere che gli enti sono’ 1.
L’identità/differenza implicita in questa formula è ciò che rende ontologicamente possibile ed epistemologicamente comprensibile sia il permanere di un ente nella varietà radicale delle sue trasformazioni sia il trasformarsi di un ente nella costanza del suo essere. La differenza ontologica è il tempo. L’adesso ora, l’adesso ritenuto, l’adesso che viene sono la medesima realtà. Sono la realtà che è e che diviene. Sono l’essere.
Se c’è qualcosa piuttosto che nulla è perché c’è divenire piuttosto che stasi, è perché c’è differenza insieme all’identità. È anche per tale ragione che la questione della filosofia è l’esseretempo infinito, asintotico, aperto, sempre oltre, μετά. La metafisica si costituisce come scienza del divenire ed è per questo che può diventare scienza  dell’essere.

Nota
1. M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie [I problemi fondamentali della fenomenologia, 1927], «Gesamtausgabe», Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1989, Band 24, § 22, p. 454. Il corsivo è di Heidegger.

Contro l’etica

[La riflessione che segue è frutto dello scambio con i miei studenti Selenia Anastasi, Marcosebastiano Patanè (autore della foto qui sopra, che ritrae il tempio di Segesta) e Noemi Scarantino, che hanno partecipato al Festival della Filosofia di Castellammare del Golfo. Li ringrazio per aver discusso, ampliato e arricchito una prima versione del testo]

Paura. È un sentimento e comportamento filogeneticamente prezioso perché consente alle specie viventi di evitare situazioni e rischi che risulterebbero rovinosi, mortali. Ma è anche un sentimento e comportamento che può paralizzare la vita, perdere il momento propizio, impedire la gioia.
Ho percepito questa paura in alcuni momenti della discussione che si è svolta sulle due relazioni che ho tenuto al Festival di filosofia di Castellammare del Golfo. Non parlo, naturalmente, della condivisione esplicita e a volte entusiastica delle prospettive che ho cercato di sostenere ma di un filo rosso di neutralizzazione che mi è sembrato emergere in vari interventi, anche in alcuni di aperto apprezzamento. Neutralizzazione della potenza dionisiaca dei sentimenti umani; neutralizzazione della nostra evidente, pervasiva, profonda, costitutiva animalità.
È come se la forza animale delle nostre passioni si aprisse quale baratro davanti all’andare quieto e ordinato dei giorni. È come se il Grande Altro che impone e richiede il controllo delle nostre estasi amorose fosse stato davvero e fino in fondo introiettato dai corpimente sino a farlo coincidere con la propria persona. È come se l’antica paura degli animali che siamo fosse per noi una condizione di identità tramite la separazione del nostro βίος dalla ζωή che tutti i viventi accomuna. La passione amorosa è una passione animale che si esprime nelle forme biologiche e simboliche della specie umana. Noi filiamo i nostri amori come il ragno fila la propria tela, con la stessa tenacia, intensità, teleologia. L’obiettivo è in entrambi i casi nutrire il corpomente in vista della pienezza dello stare al mondo.
Quella amorosa è dunque una passione naturale e profonda, una passione necessaria ed ermeneutica, una passione specchio, una passione squilibrata nella relazione, solitaria e universale. Una passione linguistica e temporale, una passione semantica e iconica. Una passione innocente e infinita. Una passione che trasforma il tempo profano nel tempo sacro della festa dei corpi. ὕβϱις non è necessariamente e soltanto l’estremo abbandonarsi alla passione amorosa e il ritorno all’animalità ma è anche e specialmente il voler todo modo respingere e dominare questi due aspetti fondamentali di ciò che siamo, con l’obiettivo di attenersi a valori, a etiche, a impauriti pudori che snaturano la nostra intima essenza. La ὕβϱις per eccellenza è in realtà il rifiuto della dimensione dionisiaca poiché, come mostra la tragedia greca, alla fine Dioniso vince sempre.
Di fronte alla struttura animale e sacra della passione amorosa, alcune reazioni hanno utilizzato come strumento di sterilizzazione l’armamentario dell’etica e i concetti della psicologia. L’animalità amorosa è invece al di là del bene e al di là del male, è oltre la psiche perché affonda nei ritmi ancestrali della terra dalla quale gorgogliamo.
La paura si esprime anche come diffidenza, disillusione, arrendevolezza. La passione amorosa è invece simile a una disobbedienza civile, è espressione di una ribellione al Grande Altro, ribellione che intravede una forma di esistenza e relazione oltre l’ordine imposto dalle norme religiose, dal genere sessuale, dalla condizione sociale, dall’età e dalle circostanze.
Quelli vissuti a Castellammare con gli studenti e con i miei affezionati amici -che incontro sempre con gioia e che ringrazio per ciò che ogni volta mi donano- sono stati giorni assai belli di prati, di mare e di templi. Giorni intensi di pensiero e di confronto. Giorni piacevoli di camminate e di cibo. Giorni fecondi anche perché mi hanno ulteriormente illuminato sulle paure quasi pavloviane degli umani e sul fatto che la filosofia non ha nulla a che fare con l’etica e con la psicologia ma con il mondo, con l’essere. E dunque chi cerca di praticare la filosofia e porla al centro della propria esistenza dovrebbe liberarsi dall’etica e dalla psicologia e dire -se riesce- l’ontologia, il suo flusso, il divenire e la potenza.

Sofocle

Teatro Elfo Puccini – Milano
Antigone
di Sofocle
Traduzione e adattamento di Maddalena Giovannelli in collaborazione con Alice Patrioli e Nicola Fogazzi
Con Carla Manzon, Aram Kian, Stefano Orlandi, Francesca Porrini, David Remondini, Arianna Scommegna, Sandra Zoccolan
Regia di Gigi Dall’Aglio
Produzione ATIR Teatro Ringhiera

La storia del teatro è piena di testi belli e profondi, capaci di trasmettere messaggi educativi, sostenuti da visioni morali tese a rendere un po’ meno feroci gli umani e a migliorare quindi le loro esistenze.
I testi del teatro greco non rientrano in tale tipologia. La dimensione morale non sta mai al loro cuore, per la semplice ragione che i Greci non avevano un’etica ma ogni loro espressione è indice di una metafisica della Necessità che esclude in partenza qualsivoglia discorso moralistico. Edipo non ha alcuna colpa morale, per la ragione che non sapeva di essere il figlio di Laio e di Giocasta, e dunque non sa di aver ucciso suo padre e sposato sua madre. E tuttavia viene in ogni caso punito perché ciò che conta non è l’intenzione dell’atto ma l’atto in sé. E l’atto è sempre frutto di Ἀνάγκη, destino della necessità. Dai testi di Sofocle, come da quelli di Eschilo e di Euripide, non è quindi possibile trarre alcuna consolazione psicologica, alcuna edificazione politico-morale.
E invece, essendo quei testi davvero potenti, chi vuole dare messaggi politici e morali li utilizza come se fosse quello il loro scopo, trasformandoli -ad esempio- in antesignani di Brecht. E ho fatto di proposito il nome di un drammaturgo che amo. Ma Sofocle non è Brecht. I Greci non trasmettono messaggi e non vogliono migliorare nessuno. Il loro teatro, come ogni altra espressione di quella cultura, intende onorare la potenza degli dèi e ricordare agli umani la loro miseria.
Tutti, infatti, nella tragedia greca sono, dal punto di vista moderno, colpevoli e tutti sono ugualmente innocenti. Perché Antigone, come tutto il resto, è prima di queste categorie. Antigone è una tragedia ontologica. Lo dice con chiarezza ogni sua riga, compresa la celebre fenomenologia dell’umano per la quale «πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει» (v. 332), molti enti il mondo possiede che generano stupore e sgomento ma nulla più dell’umano è sgomento e stupore. L’umano è δεινότερον non nel solo significato del ‘più inquietante’ ma anche nel senso che è il più distante dall’eterno e il più straniero alla gioia. Siamo i mortali, questa è la nostra casa, nella quale abitiamo sin dall’inizio come enti intrisi di finitudine e di inoltrepassabile limite.
Questo magnifico canto prosegue così: «L’umano solca il mare che prima delle tempeste si colora di bianco / crea sentieri tra le onde incombenti. / Persino la Terra, suprema e inviolabile dea / lui la gira e rigira con i suoi cavalli, /  instancabile anno dopo anno»…e così via in una potenza cosmica della quale nella messa in scena a cui ho assistito non rimane più nulla, in un teatro ‘di denuncia’ dal quale i Greci sono semplicemente spariti. Né vale a conservare la dimensione epica del teatro antico l’utilizzo di strumentazioni musicali, cori scanditi come litanie e il baluginare un po’ ridicolo di luci e di ombre mentre i cittadini di Tebe invocano Dioniso, τὸν ταμίαν Ἴακχον, Iacco, il dio che regala (v. 1154).
Il dono dei Greci è stato anche lo sguardo senza speranza ma colmo di senso che essi rivolgono al mondo. Ricondurli nell’alveo dei buoni sentimenti significa cancellarli. I Greci non sono buoni, sono sapienti.

Jenseits von Gut und Böse

Elle
di  Paul Verhoeven
Francia, 2016
Con: Isabelle Huppert (Michelle), Laurent Lafitte (Patrick), Christian Berkel (Robert), Anne Consigny (Anne), Charles Berling (Richard), Virginie Efira (Rebecca)
Trailer del film

Sùbito. Michelle viene aggredita sùbito nella sua bella casa parigina. Un uomo con il volto coperto la violenta, si asciuga e se ne va. Lei si lava e continua la sua vita. Non lo denuncia; ha avuto troppo a che fare con poliziotti e giudici da quando aveva dieci anni e il padre commise una strage nel proprio quartiere. Ora lei è un’affermata e abile dirigente d’azienda, che tratta i propri collaboratori, la madre, l’ex marito, l’amante, le amiche, il figlio, con la stessa ruvida determinazione. Lei cerca di non perdere le occasioni di soddisfazione e di piacere che la vita offre. E reagisce agli eventi con l’istintiva determinazione di un animale non umano. Sino a uscirne quasi sempre serena.
È così che bisogna vivere. Così, in un egoismo immediato ed esplicito. Così, concentrati su di sé. Così, responsabili davanti a se stessi di ciò che si fa e che si pensa. Così, prendendo le persone e poi lasciandole al loro destino. Così, rispondendo con violenza alla violenza delle circostanze. Così, augurando ai nemici sciagura e cogliendo la vendetta come frutto succoso. Così, sorridendo al dolore e diventando di cristallo davanti alla morte. Così, per non soffrire. Forse.
Paul Verhoeven costruisce un’allegoria sull’imbroglio della virtù, sull’inganno della morale. Lo fa in un film che nella costanza della vicenda cambia direzione a ogni svolta. Imprevedibile e innocente. Come elle.

Malinconia / Sadismo

Lo chiamavano Jeeg Robot
di Gabriele Mainetti
Italia, 2015
Con: Claudio Santamaria (Enzo), Luca Marinelli (Zingaro), Ilenia Pastorelli (Alessia), Antonia Trupo (Nunzia)
Trailer del film

Enzo fugge dai poliziotti tra i vicoli di Roma. Si nasconde nel Tevere ma uno dei bidoni sui quali poggia si rompe e lui vi precipita dentro. Quando ne riemerge è sporco di una sostanza viscida, nera. A poco a poco si accorge di aver acquisito una forza fisica davvero fuori dell’ordinario. La dovrà utilizzare per difendere Alessia -la sua vicina fragile e bambina, che pensa di vivere nel mondo dei cartoni animati giapponesi- dalle insidie di un gruppo di criminali guidati dallo Zingaro. Alessia gli ripete di continuo che lui è il supereroe Jeeg Robot e la sua missione è salvare l’umanità.
Una favola che ripete l’antico scontro tra il bene e il male ma nella quale per fortuna il ‘buono’ è un piccolo bandito dalla vita squallidissima, che si muove nel mondo con uno sguardo spento, malinconico e sperduto. I cattivi sono davvero cattivi, specialmente lo Zingaro, un autentico sadico. I poliziotti sono ambigui e su tutto domina il bisogno mediatico di farsi conoscere, di diventare ‘famosi’ con la televisione, con i video, con youtube.
Lo chiamavano Jeeg Robot deve gran parte della sua efficacia a Claudio Santamaria e a Luca Marinelli. I due attori, infatti, riescono a dare plausibilità a una storia così lontana dal tessuto reale dei giorni. Come sempre, lo stile è il film. E qui lo stile non è banale.

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