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Le relazioni pericolose

Teatro Litta – Milano
Le relazioni pericolose
da Pierre Choderlos De Laclos (Les Liaisons dangereuses, 1782)
Adattamento e regia di Silvia Giulia Mendola
Con: Paolo Andreoni, Andrea Dezi, Lorenza Pisano, Cinzia Spanò, Greta Zamparini
Coproduzione Litta – Compagnia PianoinBilico
Sino al 31 dicembre 2008

La vanità conta più del piacere, poiché essa si spinge fino all’assurdo di negare a se stessa il piacere se quest’ultimo sembra mettere a rischio uno smisurato amor di sé. La marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont sono due divinità in lotta fra di loro per il possesso del cuore dei mortali. Due divinità non di pari livello, però. Il visconte vive quasi sempre di riflesso rispetto all’energia, alla determinazione, alla prudenza e al gelo della marchesa, la quale arriva esplicitamente a descriversi coi tratti del divino: «eccomi diventata una Divinità, che riceve le opposte suppliche dei ciechi mortali e non cambia nulla dei suoi decreti immutabili» (lettera LXIII).
Si costruiscono senza posa relazioni, si ordiscono intrecci e rapporti con l’obiettivo di possedere il tempo e il corpo dell’oggetto bramato ma tutto ciò si realizza a danno del sentimento. L’idea stessa di innamorarsi suscita terrore coincidendo essa con il ridicolo, suprema offesa alla vanità. Quando la passione compare, nella Signora di Tourvel, non può che assumere i tratti dell’idolatria, della rinuncia totale al sé in favore di un dio: «io l’amo fino all’idolatria e non l’amo ancora quanto merita» (let.CXXXII).
Il romanzo di Choderlos De Laclos è intessuto di una psicologia penetrante e capace di smascherare la genealogia dei sentimenti morali, à la Nietzsche. Quando, ad esempio, Valmont benefica una famiglia contadina allo scopo di apparire in una luce migliore davanti a Madame di Tourvel, osserva di essere stato stupito dal «piacere che si prova a fare il bene; e sarei tentato di credere che quelle che noi chiamiamo persone virtuose non hanno poi tutto quel merito che tutti si compiacciono di metterci davanti agli occhi» (let. XXI). La gratificazione del sé, inevitabile in ogni azione virtuosa, mette quindi in discussione la virtuosità dell’agire. Allo stesso modo, la bontà viene fatta scaturire dalla debolezza; chi non ha artigli si vanta d’essere mite quando la vera magnanimità implica la capacità di colpire e l’astenersi dal farlo: «Ecco gli uomini: tutti uguali, nella scelleratezza dei loro piani, chiamano probità la debolezza nel portarli all’attuazione» (let. LXVI).

L’amore che c’è, l’amore che manca, l’amore irriso, l’amore idolatrato, l’amore cercato, l’amore temuto…ma cos’è per Laclos questo sentimento? Esattamente quello che è per Proust, il riflesso della nostra tenerezza: «l’incanto che crediamo di trovar negli altri esiste solo in noi; e soltanto l’amore fa apparire così bello l’oggetto amato»; a dirlo è, naturalmente, la marchesa di Merteuil (let. CXXXIV).
Di questo tessuto di passioni e di gelo, la messinscena del Litta coglie le geometrie inevitabili, a partire dalla scacchiera nella quale i personaggi si muovono con meccanicità da burattini: davvero, come ripete Valmont nel suo tragico mantra, «trascende ogni mio controllo» (let. CXLI). Impressione rafforzata dai balli. I cinque personaggi, infatti, danzano i tanghi di Astor Piazzolla, movimenti che più di ogni altro coniugano ardore e geometria.
Efficace anche l’idea di far diventare parte della scena brani delle lettere, a sottolineare come questi uomini e queste donne siano fatti di parole e dunque quanto potente la parola sia.
Siamo naturalmente su un livello molto diverso dal magnifico Quartett di Heiner Müller messo in scena da Wilson qualche anno fa ma lo spettacolo di Silvia Mendola ha tutta la freschezza del desiderio.

Ricordi – A se stesso

Marco Aurelio Antonino
(Ta Eis Eauton, 172 d.C.)
Introduzione di Max Pohlenz
Traduzione di Enrico Turolla
Commento di Marcello Zanatta
Testo geco a fronte
Rizzoli, Milano 1997
Pagine 770

Marco Aurelio ama e disprezza gli uomini in una trama di sentimenti davvero inestricabile: egli disdegna l’opinione del volgo la cui ammirazione è rivolta immancabilmente a quanto c’è di più basso, è convinto che il saggio non possa lamentarsi della malvagità dei molti poiché «è follia la pretesa che i malvagi non commettano colpe. Desiderio impossibile veramente!» (XI, 18) e tuttavia invita se stesso ad accettare e perfino amare coloro che la sorte gli ha posto accanto. Una contraddizione che diventa splendida in V, 20: «Un uomo è cosa, sotto un certo aspetto, in rapporto assai vicino con la mia persona, in quanto io debbo far del bene e debbo sopportare un mio simile; tuttavia in quanto taluni insorgono contro il loro dovere, in questo senso l’uomo diventa per me cosa indifferente non meno del sole, del vento, d’una bestia».
Qui appaiono chiarissime la comunanza e la differenza fra lo stoicismo e il cristianesimo. Anche Marco Aurelio denigra il corpo e i piaceri a esso legati, ribadisce di continuo una sorta di vanitas, omnia vanitas, giudica fumo «il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa» (IX, 30) mostrando di condividere in pieno il nichilismo cristiano; come Agostino, anche Marco Aurelio indirizza l’interiorità socratica verso la dimensione morale e non più metafisica; anche l’imperatore trasforma la filosofia da indagine sulla natura, la vita, la bellezza in meditatio mortis.
E tuttavia egli rimane un romano che vive nell’orizzonte degli dèi che tutto intrecciano in una Necessità non etica ma naturalistica («Concedi che la Parca faccia il suo intreccio con quegli eventi che vuole» [IV, 34]; «Qualunque cosa ti accada, da secoli senza numero t’era stata preparata. E l’intreccio delle cause ha preparato la tua esistenza, da tempo infinito intessendola insieme con lo svolgersi di quella singola cosa» [X, 5]), che immagina il mondo come un unico grande corpo pulsante di trasformazioni incessanti e quindi di vita e di morte; che attacca esplicitamente il volontarismo cristiano ribadendo per intero l’etica intellettualistica dei Greci: «Quale l’arte tua? Esser buono. E questa meta come puoi raggiungere se non per mezzo d’una preparazione intellettuale, uno studio profondo sull’universale natura, uno studio sulle caratteristiche proprie della costituzione umana?» (XI, 5; cfr. anche XI, 3). L’etica diventa antropologia. La sofferenza non è frutto di una colpa ma di un errato giudizio della mente che valuta come essenziali cose a lei in realtà indifferenti.

Le splendide e intime riflessioni rivolte dall’imperatore a se stesso possiedono un sapore amaro, come il presentimento di una sconfitta, di una rinuncia alla forza straripante della vita. Dei tre elementi che secondo Eric Dodds definiscono il saggio stoico –spassionato, spietato e perfetto– Marco Aurelio sembra possedere la perfezione morale e l’indifferenza verso le passioni ma non quella energia che, se necessario, diventa riso e sorriso sulla commedia tragica e grottesca della vita e degli umani.

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