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Perversioni e necessità

A un passo dalla verità
(La Traque)
di Yves Rénier
Francia 2021
Con: Philippe Torreton (Michel Fourniret), François-Xavier Demaison (Yann Declerck), Mélanie Bernier (Margaux Nielsen), Isabelle Gélinas (Monique Fourniret)
Trailer del film

Michel è in carcere per ripetute aggressioni sessuali. Pubblica un annuncio su un giornale cattolico nel quale cerca una corrispondente. Monique gli risponde e cominciano a intrattenere una relazione epistolare che, quando lui esce dal carcere, si trasforma in famiglia. Michel è molto intelligente, calcolatore, determinato. Monique è stata abbandonata più volte, le sono stati tolti i figli, è in cerca di un protettore. I due costruiscono un legame assai forte.
Quando Michel rapisce una quattordicenne, che però riesce a fuggire, viene arrestato e comincia a essere sospettato della sparizione di numerose altre ragazze in varie località della Francia e del Belgio. La moglie Monique appare agli inquirenti a volte ignara e ciecamente fiduciosa nell’innocenza del marito, altre volte in vari modi sua complice. I due resistono a un anno intero di interrogatori, colloqui, pressioni. Il gelo di Michel è impressionante e costituisce la paradossale prova della sua responsabilità. Ma è una prova psicologica, insufficiente, vaga. Molti altri indizi di varia natura si aggiungono ma nessuna prova decisiva. Sino a che, proprio quando l’imputato sta per essere scarcerato, avviene qualcosa di molto sottile ma determinante.

È la storia crudele di un personaggio tra i più sadici della cronaca nera e antropologica contemporanea. Michel Fourniret è infatti realmente esistito, come è esistita sua moglie e le tante giovani vittime che ha catturato, torturato e ucciso. Il suo arresto avvenne nel giugno del 2003, la sua morte in carcere nel 2021. La vicenda di questo personaggio è stata raccontata anche nel romanzo La mésange et l’ogresse, di Harold Cobert (2016), dal quale il film di Rénier trae la sua trama.
«Malattia mentale» è una formula certamente esplicativa dei comportamenti di simili soggetti, di assassini seriali per i quali è ragione di autentico piacere, di soddisfazione, di addiction, far precipitare nell’angoscia e nel terrore totali delle altre persone, delle ragazze. Ma incontrare addirittura una coppia ben amalgamata di simili assassini significa non soltanto avere di fronte due malati di mente, due handicappati nelle emozioni, due pazzi, puramente pazzi. No, l’inspiegabile non può essere compreso con simili facili e accomodanti valutazioni e diagnosi. Forse queste persone sono soltanto una punta. La punta esplicita, a un certo punto visibile, la punta sconcertante, tremenda e totale del male.
Una punta che mostra l’insufficienza di ogni approccio morale o anche etico al male. Non si tratta infatti di scelta, condizione necessaria per la possibilità stessa della morale. Non si tratta di psicologia, presunta ‘scienza’ che balbetta ovvietà e banali eziologie, spesso tra di loro in contraddizione, che sembrano valere in ogni caso e dunque non falsificabili, risultando in tal modo – secondo il criterio di demarcazione di Popper – non scientifiche. Non si tratta del ‘mistero del cuore umano’, ulteriore e romantica forma di narcisismo della specie. Si tratta, come sempre quando si vuol capire una realtà complessa, di ontologia. Del fatto cioè che alcune entità umane nascono con ben precise caratteristiche comportamentali e che dunque altro non potrebbero fare, in altro modo non potrebbero agire.

Questo è nella sua sostanza ciò che chiamiamo ‘il male’ e che vale naturalmente anche per quanto definiamo ‘il bene’. Detto con il linguaggio degli gnostici: «Coloro che provengono dal pensiero dell’arroganza assomigliano alle pienezze di cui sono imitazioni, copie, ombre, fantasmi, mancando di parola e luce: essi appartengono al pensiero vuoto. […] Per questo la loro fine sarà come il loro inizio. Da ciò che non fu, torneranno a ciò che non sarà» (Trattato tripartito, NHC I,5, 78,28-38/79,1-4; in I codici di Nag Hammadi, Carocci 2024, p. 84). Detto con il linguaggio di Spinoza: «Il cane che per un morso diventa rabbioso, si deve certo perdonare, tuttavia è giusto sopprimerlo» poiché «nam homines mali non minus timendi sunt, nec minus perniciosi, quando necessario mali sunt; gli uomini cattivi, infatti, non sono da temere di meno, né sono meno pericolosi, se sono cattivi per necessità» (Lettera 78 a Oldenburg e  Lettera 58 a Schuller, in Tutte le opere, Bompiani 2011, pp. 2197 e 2114).
Il bene e il male sono dunque elementi del tutto relativi ai luoghi, ai tempi, alle culture e ai giudizi. Invece la struttura antropologico/ontologica più o meno serena – e dunque feconda di sorriso – oppure una struttura più o meno perversa – e dunque dannosa a sé e agli altri – sono dei dati reali. La differenza tra l’idea di colpa interiore e l’idea di danno oggettivo segna uno dei confini più consistenti tra l’etica cristiano-moderna e l’ontologia greca. In quest’ultima personaggi quali Michel e Monique Fourniret sono semplicemente il vuoto e il nulla e come tali devono essere trattati, compresi, cancellati.

Stefano Isola su Ždanov

Stefano Isola
Per un’ascesi barbarica
ACrO-Pólis
25 agosto 2024
pp. 1-5

«Questo di Biuso è un libro necessario per orientarsi nella situazione di barbarica decadenza in cui viviamo, e lo è anche per la sua capacità, assai rara nel quadro degli attuali tentativi di ridefinizione degli strumenti concettuali per la critica del presente, di realizzare generosamente l’auspicio del suo stesso autore: scrivere un testo che sia non soltanto una critica al wokismo dilagante, ma un più generale “tentativo di ragionare sulla difficoltà o persino sulla impossibilità di buona parte della cultura dominante di pensare il mondo”. In tale ampia prospettiva il libro di Biuso dedica ricche ed ispirate disamine a questioni fondamentali come la dissoluzione della scuola e dell’università, e l’oscurantismo antibiologico della cosiddetta gender theory, in capitoli che meriterebbero ciascuno una recensione a parte.
[…]
I fenomeni collettivi che vanno sotto la denominazione di woke e di cancel culture, insieme ad esiti apparentemente bislacchi come gli abbattimenti di statue o la censura nell’insegnamento scolastico di poeti e pensatori del passato in nome di dogmi del presente, sedimentano ed alimentano l’annullamento e il superamento dei dati di realtà – tra cui la distinzione biologica tra i sessi, ma anche tra salute e malattia, tra materico e digitale, tra reale e virtuale – spingendo l’intera cultura occidentale nella trappola di un narcisismo egotico in cui tutti possono essere tutto nello stesso momento in cui sono portati benevolmente per mano verso il nulla, verso la perdita di ogni differenziazione culturale ed esperienziale e dunque di ogni significato effettivo. E proprio nella misura in cui si dissolve il confine tra verità e finzione, tra ciò che si dà e ciò che si inventa, tra ciò che si produce naturalmente e ciò che viene artificialmente simulato ed implementato, si configura un macroscopico processo di ingegneria sociale assegnato alla decostruzione delle dimensioni umane prodotte dalla biologia e dalla storia, ed al loro oltrepassamento verso la dimensione del transumanesimo»

[La recensione è uscita anche sulla rivista La Fionda, il 6 settembre 2024 e sul bellissimo periodico Il Covile il 19 settembre 2024.  Di questa terza uscita è disponibile anche il pd,, pagine 1-6]

Marta Mancini su Ždanov

Marta Mancini
Ždanov o della superiorità (im)morale
Aldous
3 luglio 2024
pagine 1-4

«La chiave per comprendere la sottocultura che va sotto il nome di politically correct, con gli annessi dispositivi della cancel culture e del wokismo, è senz’altro la sudditanza all’egemonia culturale d’oltreoceano, sostenuta da una forte matrice identitaria radicata nel puritanesimo protestante e nel più profondo calvinismo. Nonostante la crisi in cui versa il progetto economico-finanziario della globalizzazione, gli effetti che ha generato nelle mode culturali sono ancora tangibili e più stringenti che in passato, anche se il compito di conservare la supremazia statunitense ha passato la mano allo sforzo bellicista, naturalmente a spese di altri paesi e lontano dalla geografia fisica della democraticissima nazione che ha sempre molto da insegnare, specialmente in superiorità etica.
Da una simile prospettiva prende avvio l’ultimo libro di Alberto Giovanni Biuso, da poco uscito per Algra Editore, Ždanov. Sul politicamente corretto nel quale l’autore percorre i tratti di tale contesto culturale mostrandone con critica passione i sintomi, i presupposti impliciti, la pervasività, le sostanziali contraddizioni ma anche la possibilità di uscirne attraverso un atto coraggioso di libertà che è prima di tutto libertà di pensiero e di parola. Con la scelta della globalizzazione come sfondo naturale del politicamente corretto, Biuso ne esplicita anche la connotazione ideologicamente trasversale, rappresentata da “un bizzarro miscuglio di alcune espressioni della cultura ‘di destra’ nelle sue componenti individualistiche e liberiste e della ‘cultura di sinistra’ nelle sue componenti altrettanto individualistiche che tendono a trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi ‘desideri’ individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei ‘diritti naturali’»

Al di là dell’etica

Recensione a:
Chiara Agnello
Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene
Saggi su Heidegger
InSchibboleth, 2023
Pagine 179
in Discipline Filosofiche, 29 aprile 2024

L’interesse e la fecondità degli studi di Chiara Agnello consistono in gran parte nell’applicare quanto emerge dalla disamina del pensiero heideggeriano a due temi tra di loro legati: l’Antropocene e l’etica. E questo a partire ancora una volta da un esito ermeneutico più generale. Per Heidegger, infatti, «sembra non bastare la semplice cura e consapevolezza umana del limite invocata da Heisenberg, l’unica strada da percorrere appare piuttosto la deposizione della soggettività in favore di un decentramento che lascia spazio alla capacità degli uomini di porsi in ascolto dell’essere, consapevoli che persino l’impiego provocante è l’illusione di dominare ciò che invece concede all’uomo la possibilità di disvelare» (pp. 128-129), posizione che a sua volta deriva dalla ben nota tesi heideggeriana per la quale «la questione della tecnica va posta su basi ontologiche e non antropologiche, così come la questione dell’essere. […] L’affermazione della tecnica su scala planetaria è intesa come l’esito naturale della metafisica del soggetto caratterizzante la filosofia e la scienza d’età moderna» (p. 119).
Sta qui la spiegazione più profonda di quell’apparente paradosso per il quale la diffusione nel nostro tempo del concetto di «Antropocene» è parallela e si accompagna a mature e argomentate esigenze antropodecentriche, anche e proprio perché la consapevolezza di quanto e come la presenza umana possa costituire un rischio esiziale per la sopravvivenza della Terra rende sempre più giustificato l’invito anche heideggeriano a sostituire la tracotanza di una parte, la parte umana, con la consapevolezza dell’intero del quale l’umano è appunto soltanto una parte.

La Valle del Caos

Friedrich Dürrenmatt
La Valle del Caos
(Durcheinandertal, 1989)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Giovanna Agabio
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 587-681

Sfrenata, imprevedibile, feconda, allucinata, implacabile è la fantasia che in questo libro si scatena. Credo di non aver mai letto un testo nel quale a ogni pagina, in qualunque momento, a ogni riga può succedere di tutto come in questo romanzo dove accade veramente qualsiasi cosa. Ne vengono coinvolti, descritti e travolti i contadini di una irraggiungibile vallata svizzera, la Valle del Caos appunto il cui titolo originale potrebbe essere più letteralmente tradotto come valle del guazzabuglio, del disordine, della confusione.
E la confusione regna infatti dappertutto. Confusione tra gli ambienti, che passano dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America – con i suoi gangster più famosi, più gelidi e più rozzi – alle crociere sul Nilo; dalle sedi senza patria delle grandi multinazionali alla Svizzera, «il paese più impenetrabile della terra. Nessuno sa chi è padrone di qualcosa, chi gioca con chi, chi ha le carte in tavola e chi le ha mescolate» (p. 635).
Confusione tra i personaggi, che cambiano volto, alla lettera, attraverso la chirurgia estetica ma anche e specialmente nella sostanza delle loro identità, del loro numero, della loro funzione.
Confusione tra quadri perfettamente falsi venduti come autentici e dipinti autentici spacciati per falsi.
Confusione tra le forze dell’ordine – vigili urbani, polizia, esercito – che dispiegano un enorme apparato di repressione con il solo intento di giustiziare un cane.
Confusione tra la morale e il crimine che appaiono quali sono, vale a dire due aspetti della stessa ferocia, com’è evidente nella Boston Society for Morality che dà vita alla Swiss Society for Morality, entrambe «qualcosa di vago, esattamente come la maggior parte delle associazioni con nobili scopi» (603). Associazioni che edificano in uno sperduto villaggio svizzero una casa di riposo stagionale chiamata Casa della povertà, riservata a gente ricchissima che per alcuni mesi vive in estrema povertà, salvo poi tornare al proprio lusso: «Una vera e propria fissazione di vivere poveramente colse i milionari e le vedove dei milionari, c’erano direttori generali che facevano i letti, banchieri privati che passavano l’aspirapolvere, grossi industriali che apparecchiavano i tavoli in sala da pranzo, manager di prim’ordine che pelavano patate, vedove di multimilionari che cucinavano e si occupavano della lavanderia, sceicchi e magnati del petrolio che falciavano l’erba, sarchiavano, vangavano, segavano, martellavano, piallavano, verniciavano e per questo pagavano prezzi favolosi» (618).

A dare redenzione e conforto a tali milionari è un pastore di nome Moses Melker, uomo di rara bruttezza, «uno schiavo negro fuggiasco grasso e di pelle bianca, con un abito da cresimando e una valigetta in mano»  (664), una specie di parente dei neandertaliani e anche assassino seriale delle sue mogli, ma ora dedito alla missione di convertire i ricchi e che per questo elabora una teologia il cui testo fondatore (in fieri) ha per titolo Prezzo della grazia (Preis der Gnade). Melker costruisce una teologia per la quale i poveri sono di per sé meritevoli della salvezza mentre i ricchi devono tutto alla misericordia del «Grande Vecchio» e per questo i ricchi sono i veri destinatari del perdono e della Grazia. E non soltanto i ricchi ma anche gli umani più crudeli, i delinquenti più accaniti, i farabutti, i sadici, i criminali. In loro e soltanto in loro splende la potenza del Signore.

Infatti, se la grazia fosse meritata non sarebbe più grazia bensì ricompensa. La grazia era la cruna dell’ago attraverso la quale non soltanto un cammello, bensì tutti loro potevano passare, loro che erano riuniti lì a lamentarsi della maledizione della ricchezza. Davanti al Grande Vecchio gli ultimi erano i primi e i poveri erano i ricchi, i poveri erano in possesso della grazia e i ricchi maledetti. Ma chi possedeva la grazia non ne aveva bisogno poiché la grazia era già in lui, e quindi la grazia era riservata a loro, i ricchi, i maledetti, i sazi, la grazia con cui venivano incoronati come la sola feccia dell’umanità che ne aveva bisogno (617).

La Grazia essendo del tutto arbitraria, il cuore della teologia di Melker consiste pertanto «nel riconoscimento che nulla potesse giustificare la grazia» (595-596).
Come si vede, si tratta di una teologia anch’essa sfrenata; insieme evangelica e machiavellica, gesuitica e luterana. Teologia di un Dio talmente onnipotente e universale da includere nella propria stessa identità la miseria e il male, un Dio del tutto volontaristico (al modo di Ockham e oltre Ockham), che «avrebbe saputo creare una pietra che non riusciva a sollevare, oppure ritrasformare le cose accadute in non accadute» (590), che poteva fabbricare orologi «con quindici ore, in cui ogni ora durava trecento minuti e ogni minuto quarantacinque secondi, ma anche i secondi non erano uguali; alcuni secondi duravano tre quarti di secondo, altri sette minuti» (608). Un Dio il quale riusciva dunque certamente anche a conciliare la propria essenza di Grazia con quella di «Dio senza barba» vale a dire del più infame tra i malviventi.
Se chiediamo infatti «perché il buon Dio è così ingiusto, se appunto è un buon Dio […] se tutto è così ingiusto con gli uomini e con la natura» (656) è perché «il Grande Vecchio è pensabile solo come criminale» (676), il quale nella sua versione cristiana è «ancora più astratto del padre, ma anche qualcosa di lezioso, un redentore di marzapane sulla croce. […] Un Dio che si lascia crocifiggere fa la commedia» (679).
Un romanzo teologico e grottesco, un romanzo dunque barocco e gaddiano nei contenuti anche se non nella lingua, che è sempre classica e ironicamente perfetta. Il finale è epico; davvero ‘una risata vi estinguerà’ sembra dire il Grande Vecchio alla nostra specie.

Enrico Palma su Ždanov

Enrico Palma
Tra identità e differenza si giocano libertà e pluralità
Recensione a:
Ždanov. Sul politicamente corretto
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
11 giugno 2024
pagine 1-6

«È un libro coraggioso, come dovrebbe esserlo ogni tentativo di pensiero che si rispetti e non asservito a ideologie dominanti, a potentati finanziari e all’etica dei valori, la quale è anzi oggetto di una dura contestazione non in quanto modo sensato e meditato di stare al mondo, per dirla con l’Aristotele della Nicomachea, ma come fiera di valori impoverenti, putridi e segno di una stanchezza fisica e intellettuale che alla fine risulta tutt’altro che salutare, bensì altamente nociva e perniciosa. Valori di cui Biuso coglie tutte le pericolose propaggini nel vivere collettivo, ovvero quando diventano fanatiche estremizzazioni che violano il principio metafisico di fondo che intride l’essere. Il pregio di questo libro, e della prospettiva che propone, risiede dunque nel fondarsi non nell’etica, che semmai è successiva al pensiero, ma nella metafisica, che diviene allora il vero discrimine delle cose, la lente attraverso cui osservare con giustezza le cose umane, per assicurare il meglio e prevenire la barbarie»

Kiefer

Anselm
di Wim Wenders
Germania, 2023
Con: Anselm Kiefer
Trailer del film

Da molti anni lo Hangar Bicocca di Milano ospita in modo permanente I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. «Una verticalità immobile  e cangiante» l’ho definita. E tutta la poetica di Kiefer è anche questa verticalità. Il film di Wim Wenders lo dimostra intessendo l’apparire delle opere – poiché di una epifania si tratta  – con la vicenda biografica che ha condotto questo artista visionario dalla collaborazione con Joseph Beuys a un ampliamento sempre più imponente delle immagini, delle costruzioni, degli spazi. Sino a occupare intere ex fabbriche o ettari di terreno per trasformarli in luoghi poietici, dentro i quali sorgono le spose/Lilith; sorgono gli enormi pannelli fatti di ferro, cemento, ondate di colore; sorgono le torri disseminate nello spazio; sorgono le fotografie raccolte in volumi di piombo.
Kiefer appare dunque come un alchimista e un fabbro, la cui fiamma ossidrica vorrebbe illuminare anche la storia recente della Germania, accompagnato dalla lettura costante ed empatica delle poesie di Paul Celan.
Introducendo Celan, leggendo le sue poesie, Kiefer e Wenders parlano anche di Martin Heidegger. Lo fanno con immagini e video che raffigurano il filosofo mentre cammina, con il suo sguardo sempre ironico e magnetico.  Kiefer e Wenders ricordano l’incontro tra Celan e Heidegger a Todtnauberg, nella baita. Celan scrisse in quell’occasione nel libro degli ospiti una frase che accenna all’attesa di una parola. Wenders/Kiefer rilevano che quella parola non è stata pronunciata.
Evidentemente l’ossessione nei confronti di Heidegger è pervasiva e sotterranea anche in un artista così disincantato come Kiefer. Quale parola si attendeva da Heidegger? Una parola di pentimento? Pentimento collettivo o individuale? Una parola di sottomissione ai vincitori? In realtà il punto non è questo, mai. Che ne siano o no consapevoli, i detrattori biografici di Heidegger – da distinguere dai critici teoretici più rigorosi – esercitano la loro moralità non sui «silenzi» e neppure sul «rettorato» ma su altro: sul fatto che per un filosofo di questa grandezza l’etica sia succedanea, secondaria, non necessaria. E invece io credo che anche qui, forse soprattutto qui, sta la grandezza di Heidegger: nell’aver tolto autonomia all’etica e nell’averne fatto la conseguenza dell’ontologia. Ci si comporta per come si è e non si cambia se non nei particolari; «operari sequitur esse», come ricorda anche Schopenhauer riprendendo Pomponazzi.
Secondariatà dell’etica rispetto all’ontologia che con altro linguaggio anche Carlo Emilio Gadda esprime con chiarezza: «Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c’è diti di Vescovo né virtù ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s’è scombinato in un blando desiderio di requie, s’è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne’ pisoli della vanità soddisfatta, s’è sdraiato in una eutanasia: l’essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può suonare a perdifiato, ma suona invano» (L’Adalgisa, Garzanti,  2007, p. 280).
Heidegger ha rifiutato il primato etico della modernità e questo sembra ossessionare e nello stesso tempo affascinare molti interpreti. Ossessiona e affascina anche due artisti come Wenders e Kiefer capaci di cogliere, plasmare ed esprimere il male del mondo. Ancora un passo e capiranno che non c’è niente da chiedere a Heidegger ma c’è soltanto da capire, da conoscere, da sapere. 

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