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Sulla filosofia

Aristotele
I Dialoghi
Introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta
Biblioteca Universale Rizzoli – Classici Greci e Latini
Rizzoli, Milano 2018
Pagine 742

La costellazione teoretica fondamentale del cielo mediterraneo ed europeo è quella che ha le proprie stelle α e α1 in Platone e Aristotele. Il loro legame anche personale è indissolubile:

Dalla stima che Platone ebbe per Aristotele, come può evincersi dalla tradizione secondo cui lo avrebbe soprannominato ‘la mente’ e, per converso, dal modo non soltanto rispettoso ma anche emotivamente partecipato col quale Aristotele dichiara in alcune circostanze in cui critica Platone, il proprio dispiacere di doverlo fare, ci si può ragionevolmente convincere che i rapporti tra il maestro e il discepolo dovevano essere ottimi, sia sotto il profilo scientifico che personale. Anzi […] si può ragionevolmente parlare di autentica devozione del discepolo nei riguardi del maestro, perpetratasi al di là dei dissensi dottrinali e mantenuta viva nel tempo. Persino molti anni dopo la morte di Platone (p. 11).

A dimostrarlo è tutto, compresi i Dialoghi composti da Aristotele in gran parte durante la sua ventennale presenza nell’Accademica platonica. Di essi ci sono rimasti in genere pochi frammenti ma sufficienti  a testimoniare la completa adesione dello Stagirita al programma filosofico della scuola platonica, come mostrano in particolare i Dialoghi dei quali sono rimaste più ampie pagine, come il Protrettico – l’invito a filosofare – e il Sulla filosofia.
In questi e negli altri testi rivolti al più ampio pubblico, e quindi ‘essoterici’, lo stile è «pien[o] di luce e trasparent[e]» (Them., Orat., 319c; p. 59) e i contenuti sono intramati di φρόνησις e di σοφία, di saggezza nell’esistenza e di sapienza nella comprensione. Quello di Aristotele è infatti, come afferma Cicerone, un «ingenio singulari et paene divino», una intelligenza unica e quasi divina (Eudemo, 1 Cic., Div. ad Brut., I, 25, 53; p. 153).
Questa intelligenza era molto selettiva nell’accogliere allievi dentro la propria scuola. Entrare nel Liceo richiedeva infatti un talento naturale che niente può far acquisire se non lo si possiede alla nascita; era poi richiesta una base di conoscenze pregresse e soprattutto la tenace passione verso l’apprendimento. Aristotele sa infatti che non esiste lavoro filosofico senza una massa imponente di conoscenze, di nozioni, di cose sapute, di erudizione nei campi più diversi dell’esistere e del pensare; ma sa anche che tali conoscenze sono necessarie e non sufficienti, da esse la filosofia prende avvio per metabolizzarle e trasformarle in uno sguardo universale e totale sul mondo.

Uno sguardo che si applica pertanto ai campi più diversi, tra i quali nei Dialoghi vengono discussi: 

  • l’amore, che ben prima di Proust Aristotele sa essere apportatore di «dolore conturbante, continue insonnie, passioni disperate, tristezza e follia» (Erotico, 4 Al Dailami; p. 205); 
  • l’educazione (Sull’educazione) come struttura rigorosa e volta all’eccellenza (i Greci non avrebbero neppure compreso espressioni barbariche quali ‘successo formativo’, ‘inclusione degli ultimi’, ‘prove intermedie’ et similia). A testimoniarlo sono anche alcune massime riportate da Diogene Laerzio, quali:

    Interrogato in che modo differissero gli educati [coloro che possiedono la παιδεία, la cultura] dagli ineducati, rispose: ‘quanto i vivi dai morti’.
    I genitori che educano i figli sono molto più venerandi di quelli che li mettono al mondo soltanto, perché questi li fanno vivere, quelli li fanno vivere bene.
    Interrogato in che modo i ragazzi possano fare progressi, rispose: ‘se si mettono sulle orme dei primi senza attardarsi con i più lenti’ (D.L., V, 19-20; p. 408);

  • la conseguente necessità di una solida formazione filosofica per «avere correttamente parte della polis» (Protrettico, 4 Iambl., Protr., 6; p. 237); 
  • il disprezzo verso il desiderio di semplicemente vivere, che è cosa da schiavi, e non di vivere bene, che  è quanto dà senso all’esistenza; 
  • il convergere nella vita umana individuale e collettiva di intelligenza e tecnica, di leggi naturali e di potenza dell’imprevedibile, del caso; 
  • l’identità tra la ϑεωρία (riflessione, contemplazione, pensiero) e l’ἐνέργεια (attività, azione, fare); 
  • l’intellettualismo etico, che non è elemento socratico ma struttura caratterizzante l’intera filosofia greca e che in Aristotele diventa la παιδεία (conoscenza, formazione) come contenuto primario dell’ἀρετή (virtù, comportamento buono); 
  • la potenza ovunque del divenire e del tempo rispetto alle tesi eleatiche di Parmenide, di Melisso e di altri, che Aristotele definisce ἀφυσίκους, afisici, «perché la natura è principio di movimento, ed essi, dicendo che nulla si muove, la sopprimono» (Sulla filosofia , 9 Sext. Emp., Adv. Math., X, 45; p. 591).

Oltre ad accennare a queste tematiche, tutte fondamentali, vorrei dire qualcosa di più su tre questioni che contribuiscono in modo costante all’identità dell’aristotelismo come filosofia universale, vale a dire possibile e praticabile in ogni luogo e in ogni tempo.
La prima è la sostanziale identità di teoresi e studio dei cieli, di filosofia e di astronomia. E questo sia perché l’umano è una parte del cosmo sia perché il cosmo stesso è la vera divinità. Già Anassagora e Pitagora ritennero che la ragione ultima dell’esistenza umana, quella che costituisce la sua dignità, sia la contemplazione del cielo e degli astri intorno alla luna e al sole. E questo anche perché, molto al di là di ogni semplice ‘utilità’ empirica, niente come la distanza, lo splendore, la costanza dei cieli, la loro superiore ontologia, riconduce l’umano e la vita alle loro reali misure. Aristotele concorda con loro e, anche discostandosi dalla potenza argomentativa del Timeo, sostiene che non si dà alcun tempo nel quale il cosmo è stato prodotto ma «che il mondo è ingenerato e incorruttibile» (Sulla filosofia, 18 Philo, De aetern. mundi, III, 10-11; p 615), tanto che gli astri che vediamo durante la notte, i cinque pianeti, le stelle, sono loro le vere divinità.

Il secondo elemento di perenne sapienza scaturisce anche da questa potenza dei cieli, dalle conoscenze astronomiche, ed è la consapevolezza e l’accettazione del limite umano dentro il cosmo, della nostra finitudine. Nei brani del Protrettico riportati da Giamblico, Aristotele afferma che:

tutte le cose che agli uomini sembrano essere grandi sono un adombramento (skiographia). Dal che si dice giustamente che l’uomo è un niente e che nessuna delle cose umane è sicura. […] Se infatti si potesse guardare acutamente come si dice che guardasse Linceo […] sembrerebbe forse che qualcuno può sopportare la vista, scorgendo da quali mali è costituito? […] Quale delle cose umane è grande o di lunga durata?
(10 Iambl., Protr., 8; p. 271).

È quindi del tutto coerente che nel dialogo dal titolo Eudemo, o dell’anima Aristotele racconti per intero il noto dialogo tra il saggio Sileno e lo stolto re Mida, al quale – visto che insisteva nel voler sapere che cosa per l’umano fosse meglio – Sileno rispose:

non nascere è la cosa migliore di tutte (ἄριστον πάντων) […]; voi, effimero seme di un demone carico di fatiche e di una sorte gravosa,. […] Per gli uomini non è assolutamente possibile che si verifichi la cosa migliore di tutte né partecipare della natura dell’ottimo. Infatti, per tutti gli uomini e per tutte le donne è ottimo non essere nati; tuttavia ciò che viene dopo di questo, ossia la prima delle cose possibili per gli uomini è che, essendo nati, muoiano il più presto possibile (6 Plut., Mor., Consol. ad Apoll., p. 115, b-e; pp. 159-161).

Ma, ed è questo il terzo e ultimo elemento: da tale consapevolezza lucida e disincantata deve sgorgare non una tonalità rassegnata e triste ma, al contrario, la ricerca della gioia come dovere proprio dell’umano: «Ma quelle feste che il Dio organizza per noi [lo spettacolo del mondo] e alle quali c’inizia come ai misteri, <gli uomini> rendono vergognose, trascorrendo per lo più la vita tra manifestazioni di dolore, stati d’animo pesante e debilitanti affanni» (Sulla filosofia, 14 Plut., Mor., De tranquill., p. 477; p. 609).
Anche Aristotele insegna dunque che se le lacrime sono un diritto della condizione umana, sorridere è proprio un dovere ‘etico e dianoetico’ (per usare il suo linguaggio), sorridere è una necessità sia dell’agire sia del pensare. Rispetto ad altre attività umane, infatti, la filosofia trova nel suo stesso esercizio il significato, il piacere, la pienezza.

[Versione in pdf]

Federico Nicolosi su Ždanov

Federico Nicolosi
Pensare criticamente il presente: sul politicamente corretto
Dialoghi Mediterranei
n. 70, novembre-dicembre 2024
pagine 651-655

«Fare del dilagante problema politico-economico un problema etico-psicologico significa convogliare il nucleo della questione in un orizzonte che lascia spazio all’arbitrio del singolo, all’interpretazione acritica, all’operare sulle parole con la convinzione di star operando sul reale. Deve allora avere gran ragione Nietzsche nel dire: “La morale è nient’altro che questo. – ‘Tu non devi conoscere’ – da ciò deriva tutto il resto”. Da qui, la mossa di Biuso di architettare un intero capitolo Contro l’etica».

Esperienze neocoloniali

Sabato 9 novembre 2024 alle 10.00 si svolgerà al Disum di Catania, con il patrocinio dell’ASFU, un seminario di studi dal titolo Guerre costituenti e nuovo ordine economico. Vi parteciperò con un intervento sulle esperienze neocoloniali del XXI secolo.
Colonialismi e imperialismi sono esperienze costanti della storia umana in molte zone ed epoche del pianeta. Alcuni esempi:
-il conflitto tra Atene e i Meli raccontato da Tucidide: «Chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (La guerra del Peloponneso, V, 89; p. 1321). «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (V, 105; p. 1325).
-la lunga esperienza dell’Impero romano
-la spartizione dell’Africa tra le potenze europee nella Conferenza di Berlino del 1884
-l’impero britannico tra Otto e Novecento.
Una delle differenze tra le esperienze coloniali del passato e quelle del presente è naturalmente la dimensione globale che il neocolonialismo del XXI secolo tende ad avere. Il termine globalizzazione indica anche questa dinamica.
Uno degli elementi di continuità tra vecchi e nuovi colonialismi è invece la giustificazione etica che le forze colonialiste danno a se stesse in nome di una qualche morale: il diritto, la religione cristiana, la civiltà, la democrazia, l’accoglienza, l’inclusività e altri valori.

Perversioni e necessità

A un passo dalla verità
(La Traque)
di Yves Rénier
Francia 2021
Con: Philippe Torreton (Michel Fourniret), François-Xavier Demaison (Yann Declerck), Mélanie Bernier (Margaux Nielsen), Isabelle Gélinas (Monique Fourniret)
Trailer del film

Michel è in carcere per ripetute aggressioni sessuali. Pubblica un annuncio su un giornale cattolico nel quale cerca una corrispondente. Monique gli risponde e cominciano a intrattenere una relazione epistolare che, quando lui esce dal carcere, si trasforma in famiglia. Michel è molto intelligente, calcolatore, determinato. Monique è stata abbandonata più volte, le sono stati tolti i figli, è in cerca di un protettore. I due costruiscono un legame assai forte.
Quando Michel rapisce una quattordicenne, che però riesce a fuggire, viene arrestato e comincia a essere sospettato della sparizione di numerose altre ragazze in varie località della Francia e del Belgio. La moglie Monique appare agli inquirenti a volte ignara e ciecamente fiduciosa nell’innocenza del marito, altre volte in vari modi sua complice. I due resistono a un anno intero di interrogatori, colloqui, pressioni. Il gelo di Michel è impressionante e costituisce la paradossale prova della sua responsabilità. Ma è una prova psicologica, insufficiente, vaga. Molti altri indizi di varia natura si aggiungono ma nessuna prova decisiva. Sino a che, proprio quando l’imputato sta per essere scarcerato, avviene qualcosa di molto sottile ma determinante.

È la storia crudele di un personaggio tra i più sadici della cronaca nera e antropologica contemporanea. Michel Fourniret è infatti realmente esistito, come è esistita sua moglie e le tante giovani vittime che ha catturato, torturato e ucciso. Il suo arresto avvenne nel giugno del 2003, la sua morte in carcere nel 2021. La vicenda di questo personaggio è stata raccontata anche nel romanzo La mésange et l’ogresse, di Harold Cobert (2016), dal quale il film di Rénier trae la sua trama.
«Malattia mentale» è una formula certamente esplicativa dei comportamenti di simili soggetti, di assassini seriali per i quali è ragione di autentico piacere, di soddisfazione, di addiction, far precipitare nell’angoscia e nel terrore totali delle altre persone, delle ragazze. Ma incontrare addirittura una coppia ben amalgamata di simili assassini significa non soltanto avere di fronte due malati di mente, due handicappati nelle emozioni, due pazzi, puramente pazzi. No, l’inspiegabile non può essere compreso con simili facili e accomodanti valutazioni e diagnosi. Forse queste persone sono soltanto una punta. La punta esplicita, a un certo punto visibile, la punta sconcertante, tremenda e totale del male.
Una punta che mostra l’insufficienza di ogni approccio morale o anche etico al male. Non si tratta infatti di scelta, condizione necessaria per la possibilità stessa della morale. Non si tratta di psicologia, presunta ‘scienza’ che balbetta ovvietà e banali eziologie, spesso tra di loro in contraddizione, che sembrano valere in ogni caso e dunque non falsificabili, risultando in tal modo – secondo il criterio di demarcazione di Popper – non scientifiche. Non si tratta del ‘mistero del cuore umano’, ulteriore e romantica forma di narcisismo della specie. Si tratta, come sempre quando si vuol capire una realtà complessa, di ontologia. Del fatto cioè che alcune entità umane nascono con ben precise caratteristiche comportamentali e che dunque altro non potrebbero fare, in altro modo non potrebbero agire.

Questo è nella sua sostanza ciò che chiamiamo ‘il male’ e che vale naturalmente anche per quanto definiamo ‘il bene’. Detto con il linguaggio degli gnostici: «Coloro che provengono dal pensiero dell’arroganza assomigliano alle pienezze di cui sono imitazioni, copie, ombre, fantasmi, mancando di parola e luce: essi appartengono al pensiero vuoto. […] Per questo la loro fine sarà come il loro inizio. Da ciò che non fu, torneranno a ciò che non sarà» (Trattato tripartito, NHC I,5, 78,28-38/79,1-4; in I codici di Nag Hammadi, Carocci 2024, p. 84). Detto con il linguaggio di Spinoza: «Il cane che per un morso diventa rabbioso, si deve certo perdonare, tuttavia è giusto sopprimerlo» poiché «nam homines mali non minus timendi sunt, nec minus perniciosi, quando necessario mali sunt; gli uomini cattivi, infatti, non sono da temere di meno, né sono meno pericolosi, se sono cattivi per necessità» (Lettera 78 a Oldenburg e  Lettera 58 a Schuller, in Tutte le opere, Bompiani 2011, pp. 2197 e 2114).
Il bene e il male sono dunque elementi del tutto relativi ai luoghi, ai tempi, alle culture e ai giudizi. Invece la struttura antropologico/ontologica più o meno serena – e dunque feconda di sorriso – oppure una struttura più o meno perversa – e dunque dannosa a sé e agli altri – sono dei dati reali. La differenza tra l’idea di colpa interiore e l’idea di danno oggettivo segna uno dei confini più consistenti tra l’etica cristiano-moderna e l’ontologia greca. In quest’ultima personaggi quali Michel e Monique Fourniret sono semplicemente il vuoto e il nulla e come tali devono essere trattati, compresi, cancellati.

Stefano Isola su Ždanov

Stefano Isola
Per un’ascesi barbarica
ACrO-Pólis
25 agosto 2024
pp. 1-5

«Questo di Biuso è un libro necessario per orientarsi nella situazione di barbarica decadenza in cui viviamo, e lo è anche per la sua capacità, assai rara nel quadro degli attuali tentativi di ridefinizione degli strumenti concettuali per la critica del presente, di realizzare generosamente l’auspicio del suo stesso autore: scrivere un testo che sia non soltanto una critica al wokismo dilagante, ma un più generale “tentativo di ragionare sulla difficoltà o persino sulla impossibilità di buona parte della cultura dominante di pensare il mondo”. In tale ampia prospettiva il libro di Biuso dedica ricche ed ispirate disamine a questioni fondamentali come la dissoluzione della scuola e dell’università, e l’oscurantismo antibiologico della cosiddetta gender theory, in capitoli che meriterebbero ciascuno una recensione a parte.
[…]
I fenomeni collettivi che vanno sotto la denominazione di woke e di cancel culture, insieme ad esiti apparentemente bislacchi come gli abbattimenti di statue o la censura nell’insegnamento scolastico di poeti e pensatori del passato in nome di dogmi del presente, sedimentano ed alimentano l’annullamento e il superamento dei dati di realtà – tra cui la distinzione biologica tra i sessi, ma anche tra salute e malattia, tra materico e digitale, tra reale e virtuale – spingendo l’intera cultura occidentale nella trappola di un narcisismo egotico in cui tutti possono essere tutto nello stesso momento in cui sono portati benevolmente per mano verso il nulla, verso la perdita di ogni differenziazione culturale ed esperienziale e dunque di ogni significato effettivo. E proprio nella misura in cui si dissolve il confine tra verità e finzione, tra ciò che si dà e ciò che si inventa, tra ciò che si produce naturalmente e ciò che viene artificialmente simulato ed implementato, si configura un macroscopico processo di ingegneria sociale assegnato alla decostruzione delle dimensioni umane prodotte dalla biologia e dalla storia, ed al loro oltrepassamento verso la dimensione del transumanesimo»

[La recensione è uscita anche sulla rivista La Fionda, il 6 settembre 2024 e sul bellissimo periodico Il Covile il 19 settembre 2024.  Di questa terza uscita è disponibile anche il pdf, pagine 1-6]

Marta Mancini su Ždanov

Marta Mancini
Ždanov o della superiorità (im)morale
Aldous
3 luglio 2024
pagine 1-4

«La chiave per comprendere la sottocultura che va sotto il nome di politically correct, con gli annessi dispositivi della cancel culture e del wokismo, è senz’altro la sudditanza all’egemonia culturale d’oltreoceano, sostenuta da una forte matrice identitaria radicata nel puritanesimo protestante e nel più profondo calvinismo. Nonostante la crisi in cui versa il progetto economico-finanziario della globalizzazione, gli effetti che ha generato nelle mode culturali sono ancora tangibili e più stringenti che in passato, anche se il compito di conservare la supremazia statunitense ha passato la mano allo sforzo bellicista, naturalmente a spese di altri paesi e lontano dalla geografia fisica della democraticissima nazione che ha sempre molto da insegnare, specialmente in superiorità etica.
Da una simile prospettiva prende avvio l’ultimo libro di Alberto Giovanni Biuso, da poco uscito per Algra Editore, Ždanov. Sul politicamente corretto nel quale l’autore percorre i tratti di tale contesto culturale mostrandone con critica passione i sintomi, i presupposti impliciti, la pervasività, le sostanziali contraddizioni ma anche la possibilità di uscirne attraverso un atto coraggioso di libertà che è prima di tutto libertà di pensiero e di parola. Con la scelta della globalizzazione come sfondo naturale del politicamente corretto, Biuso ne esplicita anche la connotazione ideologicamente trasversale, rappresentata da “un bizzarro miscuglio di alcune espressioni della cultura ‘di destra’ nelle sue componenti individualistiche e liberiste e della ‘cultura di sinistra’ nelle sue componenti altrettanto individualistiche che tendono a trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi ‘desideri’ individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei ‘diritti naturali’»

Al di là dell’etica

Recensione a:
Chiara Agnello
Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene
Saggi su Heidegger
InSchibboleth, 2023
Pagine 179
in Discipline Filosofiche, 29 aprile 2024

L’interesse e la fecondità degli studi di Chiara Agnello consistono in gran parte nell’applicare quanto emerge dalla disamina del pensiero heideggeriano a due temi tra di loro legati: l’Antropocene e l’etica. E questo a partire ancora una volta da un esito ermeneutico più generale. Per Heidegger, infatti, «sembra non bastare la semplice cura e consapevolezza umana del limite invocata da Heisenberg, l’unica strada da percorrere appare piuttosto la deposizione della soggettività in favore di un decentramento che lascia spazio alla capacità degli uomini di porsi in ascolto dell’essere, consapevoli che persino l’impiego provocante è l’illusione di dominare ciò che invece concede all’uomo la possibilità di disvelare» (pp. 128-129), posizione che a sua volta deriva dalla ben nota tesi heideggeriana per la quale «la questione della tecnica va posta su basi ontologiche e non antropologiche, così come la questione dell’essere. […] L’affermazione della tecnica su scala planetaria è intesa come l’esito naturale della metafisica del soggetto caratterizzante la filosofia e la scienza d’età moderna» (p. 119).
Sta qui la spiegazione più profonda di quell’apparente paradosso per il quale la diffusione nel nostro tempo del concetto di «Antropocene» è parallela e si accompagna a mature e argomentate esigenze antropodecentriche, anche e proprio perché la consapevolezza di quanto e come la presenza umana possa costituire un rischio esiziale per la sopravvivenza della Terra rende sempre più giustificato l’invito anche heideggeriano a sostituire la tracotanza di una parte, la parte umana, con la consapevolezza dell’intero del quale l’umano è appunto soltanto una parte.

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