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«Impossibile che le sembri grande»

«E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’» (Genesi, 1, 26). Di fronte alla presunzione e alla tracotanza di chi si crede addirittura immagine di Dio, quanto più saggia suona l’ironia dei Greci. Con quale senso di esultanza e di liberazione Nietzsche dichiara «allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…» (Umano, troppo umano I, af. 628); il brano platonico così si conclude: «…bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).
Rispetto al regno sterminato dell’essere, al filosofo platonico la natura umana non può che apparire insignificante: «E a quella mente in cui alberga la possibilità straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto pensi che possa sembrare grande la vita di un uomo? – Impossibile che le sembri grande, disse» (Repubblica 486 a).
Sì, impossibile che le sembri grande. La vita di ciascuno e la vita della specie. Anche perché «le nostre mani, la conformazione del bacino, la posizione degli occhi, il tipo di metabolismo, la struttura del nostro apparato gastroenterico parlano di una posizionalità adattativa e non di un’immagine della divinità» (Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda, 2014, p. 61).
Anche questo è la scienza, anche questo è la filosofia: un paziente ricondurre ogni volta il bambino umano, che si crede il re del mondo, alla sua misura di ‘posizionalità adattativa’ dentro lo sconfinato splendore della materia.

Bianco / Ontologia

Piero Manzoni 1933-1963
Palazzo Reale – Milano
A cura di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo
Sino al 2 giugno 2014

Piero Manzoni cominciò con cupe opere «nucleari», dense e scurissime, dalla quali sembra gorgogliare una profonda angoscia. Poi, intorno al 1957, l’epifania del bianco, i magnifici Achrome. Opere dinamiche e luminose, realizzate con una grande varietà di supporti, tutti fissati con il caolino. Achrome di carta, pelli, paglia, cloruro di cobalto, fibra artificiale, peluche, panini (le milanesi michette), polistirolo, ovatta, cotone idrofilo, panno, sassolini. Insieme a queste opere le Linee tendenti all’infinito dello spazio e del tempo ma intanto inscatolate in cilindri e numerate (in esse, scrisse Vincenzo Agnetti, «finalmente il tempo si è fatto visibile»).
Ancora: Uova con sopra le impronte digitali di Manzoni, uova che dai partecipanti alle sue serate venivano mangiate (eucaristia) o, da qualcuno, conservate (reliquia). La Base magica, saliti sulla quale si diventava automaticamente delle opere d’arte con tanto di certificato da parte dell’autore; ma lo si rimaneva solo fintanto che si stava là sopra. Cominciò a firmare i corpi di alcune modelle rendendole Sculture viventi e a soffiare in dei palloncini, creando il Fiato d’artista.
Nel 1961 l’editore Jan Petersen gli propose di pubblicare una monografia a lui dedicata. Manzoni la intitolò Vita e opere e la fece consistere in una serie di fogli di plastica traslucida. Vuoti.
Vuoti? No, riempiti della pienezza semantica della quale l’opera di Manzoni è forse la più radicale testimonianza nell’ambito delle arti figurative. Manzoni_Sculture_viventiManzoni infatti scrisse che «un quadro vale solo in quanto è essere totale», che le immagini devono risultare «quanto più possibile assolute» e cioè non debbono valere per ciò che esprimono o che spiegano «ma solo in quanto sono: essere». Il gioco serissimo dei significanti va molto oltre Duchamp, va oltre tutto. L’opera è un puro significare senza alcun significato. Soltanto in questo modo si può raggiungere l’obiettivo al quale Manzoni si dedicò con lucidità: «La trasformazione dev’essere integrale» e radicata sul terreno universale dell’essere, la temporalità. «Consumato il gesto, l’opera diventa dunque documento dell’avvenimento di un fatto artistico». Sul significante assoluto -il tempo e il suo procedere- la mostra infatti si chiude: «Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere».

 

Platone / Il piacere

Si racconta che in occasione di una lezione Sul Bene Platone si mise a parlare di numeri e di matematica, con stupore di chi lo ascoltava. Qualcosa di analogo accade a chi legga il Filebo. L’indagine sul piacere diventa indagine sulle proporzioni, la misura e la gerarchia dell’essere. Mediante le quattro categorie dell’illimitato, di ciò che limita, della mescolanza tra di loro e della causa, Platone dimostra il valore del pensare come forma suprema del piacere, quella che -circoscrivendone la potenza- rende davvero possibile il godimento dei piaceri, senza esserne sopraffatti. Alla misura di cui è permeata l’intelligenza non tutti possono accedere ma quei «pochissimi» sono degli uomini felici, la loro gioia è la gioia dei saggi:

Il pensare, l’avere intelligenza ed il ricordare, e poi le attività a queste affini, opinione retta e ragionamenti veri, sono più convenienti e più desiderabili del piacere, almeno per tutti quegli esseri viventi che sono in grado di prendervi parte: per tutti coloro che possono o potranno parteciparne, quelle sono le cose più vantaggiose di tutte.
(Trad. di Claudio Mazzarelli, in Tutti gli scritti, Rusconi 1991, 11 B-C)

L’intelligenza vince quindi su ogni altro piacere ma con due importanti precisazioni. Nel quotidiano -nella fatica del corpo, della natura e del sociale- è necessario che la rigidezza delle forme etiche sia sempre mescolata alle forme del piacere, per quanto soltanto alle più pure. Di più: il Bene trascende non solo il piacere ma lo stesso pensiero, di entrambi è l’altrove. Si delinea quindi una gerarchia assiologica che al suo vertice pone la misura -opposta a ogni hybris– e subito dopo, in ordine, il bello-proporzionato, l’intelligenza-pensiero, le scienze e l’opinione corretta, i piaceri della mente ma anche delle «sensazioni» (66 A-C). Piaceri e azioni “ignobili” vengono «affidate alla notte, come se la luce non dovesse vederle» (66 A).
Così vicino al cristianesimo per la tendenza a sottovalutare la corporeità, il platonismo si mostra comunque irriducibilmente pagano quando sostiene che non sia «ingiusto né invidioso gioire dei mali dei nemici» (49 D). Gioire del dolore dei nemici è quello che fanno i pagani, appunto, secondo l’esatta definizione che Jeshu-ha-Notzri dà di loro in Mt 5, 43-48. La dismisura morale del cristianesimo distrugge in realtà la possibilità stessa dell’etica. A essa Platone oppone la misura come armonia della ragione nell’uomo, come saggezza ordinatrice nelle cose.
Il dialogo è uno degli ultimi di Platone, secondo alcuni il penultimo prima del Timeo. Anche per questo il suo stile è solenne fin dalle prime battute, estremamente analitico nell’indagine, tripudiante nella certezza di avere ormai raggiunto una forma luminosa del pensare e dell’essere.

Identità e Differenza

Martin Heidegger
IDENTITÀ E DIFFERENZA
(Identität und Differenz, 1957: Der Satz der Identität; Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik)
Trad. di Giovanni Gurisatti
Adelphi, 2009
Pagine 101

L’identità non è uguaglianza. Per la seconda sono necessari due termini, per la prima ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare» (p. 58). Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si coappartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale coappartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda.
È certo «singolare», come riconosce Heidegger, che l’ente e l’essere vengano trovati a partire dalla loro differenza e nella differenza. Ed è proprio tale condizione a rendere del tutto inadeguata la struttura linguistica soggetto/oggetto che domina il Moderno, avendo la sua radice nella concezione dell’umano quale animal rationale.  “Soggetto” e “oggetto”, infatti,

sono già il prodotto di una specifica caratterizzazione dell’essere. Chiaro è soltanto il fatto che nel caso sia dell’essere dell’ente sia dell’ente dell’essere si tratta ogni volta di una differenza. Ne deriva che noi pensiamo l’essere in modo aderente alla cosa solo se lo pensiamo nella differenza dall’ente, e quest’ultimo nella differenza dall’essere. Soltanto così la differenza balza propriamente agli occhi. Se però tentiamo di rappresentarla ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto. (80)

Numerosi sono i modi nei quali il pensiero ha dispiegato l’oblio della differenza tra essere ed enti. È tale dimenticanza della differenza (Vergessenheit) -e non soltanto la differenza- che Heidegger intende pensare.
Un oblio che si è di volta in volta manifestato come «Fu@siv Lo@gov,  çEn, Ide@a, Ene@rgeia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di potenza, volontà di volontà» (87). In tutte queste determinazioni la metafisica mostra se stessa non soltanto come oblio della differenza ma anche come onto-teo-logia, che guarda o al fondamento comune degli enti (onto-logica) oppure alla totalità dell’ente supremo che fonda ogni cosa (teo-logica).
La concezione rappresentazionale dell’essere e l’oblio della differenza -in una parola la metafisica- arrivano per Heidegger al culmine nella tecnica, intesa come legittimazione del dominio di uno degli enti, l’umano, sull’intero.

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Mente

È del significato l’essere transeunte, è della verità l’essere nomade. Significati e verità abitano nel corpo che è per sua natura l’effimero e cangiante coagularsi della materia in un ordine temporale destinato sin dal suo apparire alla dissoluzione. Prospettivismo e relativismo non sono tanto e soltanto un’opzione culturale, gnoseologica e neppure esistenziale ma costituiscono, assai più radicalmente, la struttura stessa –paradossalmente costante- del pensare e dell’esserci umani nel tempo/mondo.
Ogni verità che si pone fuori dal tempo, ogni principio che si autocostituisce come variabile indipendente nel cangiare incessante delle sensazioni e delle conoscenze, è solo una labile espressione del bisogno che abbiamo di stabilità in quella transizione incessante che la vita umana –individuale e collettiva- è. La finitudine biologica del corpo fonda il limite ontologico del mondo. Noi siamo questo limite. Pensare il tempo è possibile solo a partire da un processo che esso stesso produce. La mente è tale processo. La mente è un grumo di tempo consapevole del proprio passare, è la consapevolezza che il flusso temporale acquista di se stesso in un’entità biologica che produce significati come il ragno fila la propria tela.

 

Pluralità e interpretazione

Aa. Vv.
GIORNALE DI METAFISICA
Pluralità e interpretazione

Anno XXXIII (2011), nn. 1-2, Gennaio/Agosto
Tilgher, Genova 2011
Pagine 320

Plurale ed ermeneutico è per sua natura il linguaggio. L‘uniformità unificante vorrebbe invece ridurre la pluralità dei parlanti a una «globanglizzazione» (D .Di Cesare, p. 17) sostenuta anche di recente da ministri, funzionari e decisori politici italiani, i quali sono convinti che la lingua sia uno strumento qualsiasi, mentre invece essa è «l’organo che articola il mondo» (20), tanto che «anche il più sottile imporsi di una lingua, non è l’imposizione di uno strumento come un altro, ma è piuttosto, e più profondamente, l’imposizione di un modo di articolare il mondo» (23). È per questo che ogni monismo linguistico uccidendo le lingue consuma le differenze e invece che creare un «paradiso comunicativo» produce «l’inferno culturale e […] il trionfo della stupidità» (26).
Plurale ed ermeneutico è anche il prospettivismo nietzscheano, che non è una banale forma di relativismo proprio perché le opere di Nietzsche «forniscono dei criteri per discernere –ex negativo ed in positivo- il grado di validità delle varie prospettive» (S. Pastorino, 87). Si tratta di un prospettivismo vicino a quello che due fisici come Hawking e Mlodinow sostengono in un articolo pubblicato su Le scienze (dicembre 2010, p. 88), citato da P. Palumbo: «Non esiste un concetto di realtà indipendente da una teoria o dall’immagine che se ne ha. Adottiamo invece un punto di vista che chiamiamo realismo dipendente dal modello: l’idea che una teoria fisica o un’immagine del mondo sia un modello (in genere di natura matematica) con un insieme di regole che collegano gli elementi del modello alle osservazioni. Secondo il realismo dipendente dal modello non ha senso chiedersi se un modello sia reale, ma solo se concorda con le osservazioni. Se due modelli concordano con le osservazioni, nessuno dei due può essere considerato più reale dell’altro. Una persona può usare il modello più adeguato alla situazione che sta considerando» (138). Sono dei fisici, cioè dei veri scienziati, a mostrare l’ingenuità di non pochi filosofi tutti tesi a ‘naturalizzare’ sempre qualcosa: la mente, il linguaggio, la conoscenza. Ma che cosa è natura? Che cosa è realtà? La conoscenza umana passa sempre attraverso il corpomente che costruisce per se stesso percezioni, giudizi, significati. La materia è la materia della mente.

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Hic et nunc

«Come certi personaggi letterari sono costitutivamente esseri di fuga –basti pensare all’Albertine della Recherche-, così l’indagine filosofica sul tempo sembra mutuare dal suo oggetto il dileguarsi nel momento stesso in cui il tempo viene nominato.
La difficoltà non è soltanto teoretica o logica o empirica. L’ostacolo è anche esistenziale. Il tempo, infatti, è per gli umani l’altro nome della morte. E qui il nodo diventa talmente complesso da consentire a Platone di definire la filosofia come una preparazione al morire e a Spinoza di affermare che a nulla il saggio pensa meno che alla morte. E anche l’esatta prospettiva epicurea –per la quale il morire ci è precluso poiché si tratta di un incontro che il vivente non può che mancare, sin quando è vivente- nasconde e rivela una difficoltà quasi costitutiva da parte del pensiero di pensare la morte, poiché si pensa sempre qualcosa e mai il niente. Perfino il noumeno è soltanto un concetto-limite e quindi pensabile al confine tra il conoscibile e l’ignoto, ma la morte? E il tempo, che la sostanzia? Si tratta di due processi diversi o non è forse il medesimo divenire che mostra se stesso nell’esserci temporale delle cose e nel loro ultimo dissolversi e scomparire? Non è certo un caso se il filosofo che nel Novecento ha fatto del tempo e dell’essere il proprio oggetto privilegiato è anche colui che meglio di ogni altro ha tematizzato la morte. Finitudine e temporalità sono due categorie o due esistenziali o due processi che formano un vincolo concettuale ed esperienziale unico. Sono la vita nel suo esserci e nell’andare. Non possiamo comprendere il morire perché e finché siamo pensiero vivo in atto e vita pensata nel tempo. Ma dal non poter comprendere la morte scaturiscono numerose difficoltà, aporie, genericità nella riflessione sul tempo. Donando agli umani l’ignoranza sul quando della loro morte, Prometeo ha reso possibile le attività e il fervore della vita di ogni giorno ma ha anche posto un ostacolo alla comprensione della natura temporale dell’umano, della sua finitezza costitutiva e quindi precedente ogni morale, ogni religione, ogni pensiero della cosa. E dunque l’affermazione aristotelica secondo la quale l’uomo è l’essere vivente che possiede in sé la percezione del tempo (De anima, III, 433 b) significa in primo luogo che l’uomo è l’essere che conosce la propria finitudine e in essa abita, esattamente come il divino abita l’altrove. L’altrove che è il sempre».
(La mente temporale, pp. 205-206)

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