Skip to content


Accoppiamenti giudiziosi

di Carlo Emilio Gadda
Presentazione di Gianfranco Contini
Nota di Raffaella Rodondi
Garzanti, Milano 2001 (1963)
Pagine 343

In questi racconti variamente pensati, composti e pubblicati, Gadda smaschera ancora una volta la banalità, l’ipocrisia e l’orrore. La guerra è l’insensata disperazione con la quale gli umani e la storia si puniscono del fatto d’esserci. La morale -la sua stessa possibilità- è una finzione. L’idolatria verso l’infanzia è strumentale bisogno di non morire. Il tempo è «lieve suasore d’ogni rinuncia» (pag. 162). Il tempo. Un lampo proustiano sembra insinuarsi e splendere in queste pagine così materiche, dolorose e raffinate: «Terra vestita d’agosto, v’erano sparsi i nomi, i paesi» (141). Proustiano è anche l’erotismo alto e profondo di alcuni racconti, come Cugino barbiere, La sposa di campagna e il molto amato dall’Autore San Giorgio in casa Brocchi.

L’ironia colta e quotidiana fa da costante contrappunto -armonioso e dissonante insieme- al tentativo di dire l’indicibile, il male: …«come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte» (166). Due dei racconti più intensi sono quelli da cui ho citato sinora –Una visita medica, La mamma– entrambi tratti da La cognizione del dolore, vero motore e sorgiva del narrare di Gadda, teso a descrivere «nella vacuità degli spazi senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore» (156) sino a racchiudere in una terribile icasi l’enigma: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio» (Ivi, 158).

La versione divertita di tale orrore è il racconto che da solo è capolavoro, quellIncendio di via Keplero tutto movimento, velocità, fiamme davvero. «Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale…» (109).
Senza pietà, senza pietà -e dunque con verità- a descrivere l’orrore dell’umano, della «miseranda gallinazza (…) senz’uomo a fianco e senza farmaco a lato» (203) alla quale «i medici più costosi della città le avevano detto ch’era schizofrenica: altri, non medici, ch’era un’oca» (243). Tutti: commendatori, filosofi, ragazze, pappagalli, poeti, ingegneri, bottegai, nobildonne, domestiche, soldati, bambini, operai, studenti, tutti destinati dall’esser nati a «chiuder gli occhi nel sonno della morte men duro, se pur duro, dacché più o meno duro ma pur duro e durissimo ce l’hanno tutti, il sonno, allorché si tratti di quella bella pennichella dentro l’urna» (326), come con veemenza antifoscoliana Gadda ironicamente canta.

L’Adalgisa Disegni milanesi

Carlo Emilio Gadda
Garzanti 2007 (1943)
Pagine 297

     


Milano
«città egèmone» (p. 171), con nel suo antico simbolo una «proliferante scrofa, animale dilettissimo all’Autore» (193), è il luogo sociale e psichico nel quale accadono gli eventi del tutto quotidiani ma che Gadda sa trasfigurare in un epos di stupefacente, galoppante, frenetica e splendida invenzione linguistica, in una dolente osservazione del cosmo umano, in una fenomenologia dei gesti, degli eventi e delle cose che si esprime in molteplici forme: nello sterminato elenco di oggetti, nella miseria del pettegolezzo attuato da chi “senza né figli, senza più voglie, si prese la briga e di certo il gusto di dare a tutte il consiglio giusto” come canta De Andrè, nella accurata descrizione del fumare, nel disvelamento della macabra ipocrisia dei necrologi. Dal quotidiano alla grande storia salto non v’è. E una magnifica pagina ricostruisce la vita di un Napoleone Bonaparte «intrigante arrivista (…) incoronando prepotentello» immerso nella «dorata e smaltata chincaglieria ed aquileria cesarea» (51-56).

Anche in un libro composto in gran parte dai lacerti di altri, nella affettuosa e spietata descrizione della vita milanese agli inizi del Novecento, Gadda riesce a meditare sulla «folla tediosa dei viventi» (233), segnata dal limite costitutivo per il quale «ogni più nobile schema nella imperfettibilità del mondo si avvera e perfeziona cariandosi, cioè accompagnandosi di qualche inevitabile imperfezione. Così come il corpo, andando, si accompagna del peso (gravame): e talora di un’ombra» (136). Il male, la morte e l’oltraggio -che della morte è figura- disegnano la potenza del tempo, costruiscono la vita come forma malinconica della memoria, di quanto ottenuto, del molto smarrito.

leggi di più
Vai alla barra degli strumenti