Skip to content


Auto da fé

Die Blendung [1935]
di Elias Canetti
Trad. di Luciano e Bianca Zagara
Adelphi, 1985
Pagine 521

Un masso isolato nello spazio del mondo e delle parole che tentano di descriverlo. Un mondo andato in pezzi e una scrittura icastica che ne restituisce la realtà frantumata. Un flusso di coscienza non soggettivo, non più interiore, come se la maligna assurdità delle cose avesse preso da sé voce e forma parossistiche e tuttavia geometriche. Un teorema espressionistico. Questo è Die Blendung, l’unico romanzo di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981.
Peter Kien è un sinologo universalmente ammirato. Ma è «una testa senza mondo» (titolo della prima parte). Vive solitario nella sua grande casa-biblioteca, fin quando la sua governante Therese -una donna che «non aveva niente di sacro, era un essere molto crudele» (p. 344)- non lo raggira e lo induce a sposarla. Comincia allora l’avventura di Kien in un «mondo senza testa» (titolo della seconda parte), nel quale «la vita quotidiana era un superficiale groviglio di menzogne» (20). È un mondo composto da individui ipocriti, violenti, volgari, miserabili. Il mondo degli umani. Therese lo butta fuori di casa impadronendosi dell’appartamento e di tutti i suoi libri; un nano gli sottrae con pazienza e metodo buona parte del patrimonio; un portinaio omicida lo rinchiude al buio in uno stanzino maleodorante. Per una fortunata e fortuita circostanza arriva il fratello Georges, celebre psichiatra, a liberarlo dalla moglie-mostro e da ogni fastidio. Ma, partito Georges, «il mondo nella testa» (titolo della terza parte) comincia il suo moto vorticoso, incontenibile, corrusco.
Che cosa racconta questa storia?
Racconta la follia.
Racconta la scotomizzazione, che restringe la visuale dei personaggi fino a escludere dallo sguardo ciò da cui ciascuno si sente impaurito o infastidito.
Racconta la paura che il tempo suscita tra gli umani, il loro desiderio di cancellare il presente e rifugiarsi nell’immobilità del passato oppure nel futuro che avrà reso passato il presente: «Il futuro, il futuro, come fare per rifugiarsi nel futuro? Una volta passato il presente, lui non avrà più nulla da temere da esso. Ah, se fosse possibile cancellare il presente! L’infelicità del mondo dipende dal fatto che noi si vive troppo poco nel futuro. […] La colpa di tutti i dolori è nel presente. Lui non vede l’ora che giunga il futuro perché allora nel mondo vi sarà più passato», questo pensa Kien (172).
Racconta la massa, il provare «la felicità di volere tutti insieme la stessa cosa» (353). Massa che per Canetti è la forma naturale dell’umanità, la quale «esisteva, come massa, già molto prima di venire inventata -e annacquata- in sede concettuale. Essa ribolle, animale mostruoso, selvaggio, ardente e turgido di umori, nelle profondità del nostro essere, più profonda delle Madri» (447).
Racconta i libri, invenzione perfetta che però non può essere utilizzata come una corazza con la quale difendersi dal coacervo della vita e del suo orrore. Bisogna infatti che testa e mondo si incontrino in una comprensione profonda, disincantata e rigorosa dell’esistere. È in tale convergere che la cultura diventa «il salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui» (446).
In ogni caso, «non c’è uomo che valga quanto i libri che possiede» (235) ed è vero che «diversi miliardi di uomini qualunque avevano vissuto assurdamente e altrettanto assurdamente erano morti. Mille uomini precisi, non più di mille, avevano edificato la scienza» (333).
Questo libro terrificante e terapeutico, ironico e catartico, insegna che alle tre principali forme della relazionalità  umana -il gaudio inquieto, la prestazione e il possesso- bisogna aggiungerne una quarta: la ferocia.

Oltre

Faust
di Aleksandr Sokurov
Con: Johannes Zeiler (Faust), Anton Adasinskiy (l’usuraio), Isolda Dychauk (Margherita), Georg Friedrich (Wagner), Hanna Schygulla (la moglie dell’usuraio)
Russia, 2011
Trailer del film

L’azione. Fame. Disordine. Sporcizia. Denaro. Conoscenza. Lo schifo. Acqua. Il desiderio. Incubi. Homunculus. La storia come illusione. Topi. Guerra. Sesso. Immagini distorte. Espressionismo. Odio. Chiese. Simulacri. Funerali. Ghiacci. Artificio. Corpi. Rancore. Il potere. Medicina. Escrementi. Verità. Alchimia. Dettagli. Cadaveri. Vino. Fango. Grottesco. Simboli. Primissimi piani. Disperazione. Rabbia. Il sogno della ragione. Notte. Puro cinema, che splende d’intelligenza. La luce. Morte. La materia. Il male. Oltre, sempre oltre.

Gadda, la guerra, il narcisso

Teatro Franco Parenti – Milano
L’ingegner Gadda va alla guerra o la tragica storia di Amleto Pirobutirro
Un’idea di Fabrizio Gifuni – da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare
Regia di Giuseppe Bertolucci
Con Fabrizio Gifuni
Vincitore Premio UBU come spettacolo dell’anno
Dicembre 2010

Tra gli archetipi, la Madre è per un umano il dominio stesso della vita e del dolore. Dominio nel duplice senso: luogo e insieme potere, la Madre accoglie, seduce, tradisce, dispera, ritorna. Amleto/Oreste dimostra come non sia possibile uccidere la Madre senza uccidere se stessi. Il Gonzalo Pirobutirro della Cognizione del dolore è un’ulteriore figura di questo rapporto totale con Lei, di quel tutto luminoso e mortale che la Madre rappresenta.

Qui sta il legame tra Shakespeare e Gadda, letto da Gifuni attraverso le pagine di diario che l’ingegnere scrisse sul fronte della Prima guerra mondiale e durante la prigionia in Germania. Scorrono la pietà e la vergogna per le condizioni dei compagni nelle trincee, la lucida percezione del tradimento che l’italia perpetrava nei confronti di tante persone mandate a morire, l’ammirazione e la gelosia nei confronti del fratello Enrico, la fatica del ritorno in una patria nella quale le speranze di grandezza e di rinnovamento vennero tutte tradite. Tradite soprattutto dal fascismo, da quel “Bombetta, Kuce, Mascelluto narcissico” al quale è dedicata l’ultima parte dello spettacolo.

Tratte da alcune pagine di Eros e Priapo, e recitate forse troppo velocemente per poter apprezzarne l’arcaico ma modernissimo linguaggio e il significato demistificatorio, sono parole di straordinaria potenza analitica, dalle quali la farsesca ferocia del Potere dei Presidenti del Consiglio -Mussolini allora, Berlusconi oggi- emerge in modo folgorante e annichilente.

Il folle narcissico (o la folle) è incapace di analisi psicologica, non arriva mai a conoscere gli altri: né i suoi, né i nemici, né gli alleati. Perché? Perché la pietra del paragone critico, in lui (o in lei), è esclusivamente una smodata autolubido. Tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo. […]
Seconda caratterizzazione aberrante, e analoga alla prima, anzi figliata da lei, è la loro incapacità alla costruzione etica e giuridica: poiché tutto l’ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della loro persona, che è persona scenica e non persona gnostica ed etica […] Tutto il lavoro, tutta la fatica, tutta la speranza, tutto il sogno, tutto il dolore umano sono a culminare nella loro vanità mal protesa, a turibolare il loro glande di porfido, porfidescamente incretinito. Lo jus, per loro, è il turibolo: religio è l’adorazione della loro persona scenica; atto lecito è unicamente l’idolatria patita ed esercitata nei loro confronti; crimine è la mancata idolatria.
[…]
Men che meno il narcissico può esser filosafo, o costituirsi discepolo di filosafi alla scuola d’Atene […] Il costruire sistemi filosofici sulla propria indole ghiandolare, cioè aventi la propria tiroide o le surrenali a meccanismo impulsore del mondo, il suo costituire il proprio bellìco a perno del mondo, a pivot, non è operazione filosofica.
[…]
L’autofoja, che è l’ismodato culto della propria facciazza, gli induce a credere, per poco che quattro scalmanati assentano, gli induce a credere d’esser daddovero necessarî e predestinati da Dio alla costituzione e preservazione della società, e che senza loro la palla del mondo l’abbi a rotolare in abisso, nella Abyssos primigenia: mentre è vero precisamente il contrario: e cioè che senza loro la palla de i’ mondo la rotola come al biliardo e che Dio esprime in loro il male dialetticamente residuato dalle deficitarie operazioni collettive, dalla non-soluzione dei problemi collettivi: essi sono il residuato male defecato della storia, lo sterco del mondo.
[…]
Sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro.
(Eros e Priapo [1967], Garzanti 2009, cap. 10, pp. 143-156)

A questo fiume di indignata invenzione, Fabrizio Gifuni dà corpo, maschera, figura, alternando la voce come da plurima orchestra e facendo del viso e di sé lo strumento variabile che lega la follia di Amleto, l’altera pietas di Gonzalo Pirobutirro, il disvelamento dell’infinita volgarità dei Bombetta di ieri, di oggi, di sempre.

Finis Schiele, Finis Austriae

Schiele e il suo tempo
Milano – Palazzo Reale
Sino al 6 giugno 2010

Più il suo tempo che Schiele in questa mostra. Protagonista infatti è Vienna, è l’Austria, che da Impero millenario e terra felix precipita nella catastrofe della Prima guerra mondiale. Negli anni che precedettero la Finis Austriae l’arte figurativa visse una stagione di profondo rinnovamento. Dall’ornato baroccheggiante e ormai esausto, gli artisti della Secessione transitarono a nuove forme: assai più sobrie, razionalistiche e insieme inquietanti. Gustav Klimt fu il grande sciamano -era così che si presentava- di tale trasformazione. Ma i risultati più grandi e innovativi furono raggiunti da Egon Schiele. Nei pochi anni della sua produzione, morì ventottenne di febbre spagnola proprio alla fine del conflitto, Schiele accese la tela con i suoi colori densissimi -che fossero il rosso, il nero, l’arancione, il blu- spalmati in forme mai viste, ben figurative ma nello stesso tempo pronte alla dissoluzione, come se le linee, gli angoli, i cerchi dei suoi ritratti e delle città non potessero più contenersi nei limiti di antiche misure ma dovessero esplodere in una calma, immobile angoscia.
I due magnifici Eremiti formano una massa unica e potente; la sensualissima Donna distesa -una delle ultime opere- è fatta di due colori e di puro desiderio; nell’Autoritratto con alchechengi si condensano tutta la forza psicologica, l’armonia della struttura, la perfezione cromatica che nutrono la mente di chi guarda Schiele.

Accoppiamenti giudiziosi

di Carlo Emilio Gadda
Presentazione di Gianfranco Contini
Nota di Raffaella Rodondi
Garzanti, Milano 2001 (1963)
Pagine 343

In questi racconti variamente pensati, composti e pubblicati, Gadda smaschera ancora una volta la banalità, l’ipocrisia e l’orrore. La guerra è l’insensata disperazione con la quale gli umani e la storia si puniscono del fatto d’esserci. La morale -la sua stessa possibilità- è una finzione. L’idolatria verso l’infanzia è strumentale bisogno di non morire. Il tempo è «lieve suasore d’ogni rinuncia» (pag. 162). Il tempo. Un lampo proustiano sembra insinuarsi e splendere in queste pagine così materiche, dolorose e raffinate: «Terra vestita d’agosto, v’erano sparsi i nomi, i paesi» (141). Proustiano è anche l’erotismo alto e profondo di alcuni racconti, come Cugino barbiere, La sposa di campagna e il molto amato dall’Autore San Giorgio in casa Brocchi.

L’ironia colta e quotidiana fa da costante contrappunto -armonioso e dissonante insieme- al tentativo di dire l’indicibile, il male: …«come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte» (166). Due dei racconti più intensi sono quelli da cui ho citato sinora –Una visita medica, La mamma– entrambi tratti da La cognizione del dolore, vero motore e sorgiva del narrare di Gadda, teso a descrivere «nella vacuità degli spazi senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore» (156) sino a racchiudere in una terribile icasi l’enigma: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio» (Ivi, 158).

La versione divertita di tale orrore è il racconto che da solo è capolavoro, quellIncendio di via Keplero tutto movimento, velocità, fiamme davvero. «Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale…» (109).
Senza pietà, senza pietà -e dunque con verità- a descrivere l’orrore dell’umano, della «miseranda gallinazza (…) senz’uomo a fianco e senza farmaco a lato» (203) alla quale «i medici più costosi della città le avevano detto ch’era schizofrenica: altri, non medici, ch’era un’oca» (243). Tutti: commendatori, filosofi, ragazze, pappagalli, poeti, ingegneri, bottegai, nobildonne, domestiche, soldati, bambini, operai, studenti, tutti destinati dall’esser nati a «chiuder gli occhi nel sonno della morte men duro, se pur duro, dacché più o meno duro ma pur duro e durissimo ce l’hanno tutti, il sonno, allorché si tratti di quella bella pennichella dentro l’urna» (326), come con veemenza antifoscoliana Gadda ironicamente canta.

L’Adalgisa Disegni milanesi

Carlo Emilio Gadda
Garzanti 2007 (1943)
Pagine 297

     


Milano
«città egèmone» (p. 171), con nel suo antico simbolo una «proliferante scrofa, animale dilettissimo all’Autore» (193), è il luogo sociale e psichico nel quale accadono gli eventi del tutto quotidiani ma che Gadda sa trasfigurare in un epos di stupefacente, galoppante, frenetica e splendida invenzione linguistica, in una dolente osservazione del cosmo umano, in una fenomenologia dei gesti, degli eventi e delle cose che si esprime in molteplici forme: nello sterminato elenco di oggetti, nella miseria del pettegolezzo attuato da chi “senza né figli, senza più voglie, si prese la briga e di certo il gusto di dare a tutte il consiglio giusto” come canta De Andrè, nella accurata descrizione del fumare, nel disvelamento della macabra ipocrisia dei necrologi. Dal quotidiano alla grande storia salto non v’è. E una magnifica pagina ricostruisce la vita di un Napoleone Bonaparte «intrigante arrivista (…) incoronando prepotentello» immerso nella «dorata e smaltata chincaglieria ed aquileria cesarea» (51-56).

Anche in un libro composto in gran parte dai lacerti di altri, nella affettuosa e spietata descrizione della vita milanese agli inizi del Novecento, Gadda riesce a meditare sulla «folla tediosa dei viventi» (233), segnata dal limite costitutivo per il quale «ogni più nobile schema nella imperfettibilità del mondo si avvera e perfeziona cariandosi, cioè accompagnandosi di qualche inevitabile imperfezione. Così come il corpo, andando, si accompagna del peso (gravame): e talora di un’ombra» (136). Il male, la morte e l’oltraggio -che della morte è figura- disegnano la potenza del tempo, costruiscono la vita come forma malinconica della memoria, di quanto ottenuto, del molto smarrito.

leggi di più
Vai alla barra degli strumenti