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Valerio Adami

Valerio Adami. Pittore di idee
A cura di Marco Meneguzzo
Palazzo Reale – Milano
Sino al 22 settembre 2024

Una pittura colorata e tragica, che dichiara di voler essere oggettiva, lontana dalla interiorità, dalla psicologia e dall’astrazione di molta arte del Novecento. Ma che invece è del tutto intrisa di onirismo e di psicoanalisi, come lo stesso Adami ha di frequente riconosciuto. E per quanto riguarda la figurazione, si riconoscono certo situazioni, personaggi, volti e paesaggi ben precisi. Su molti dei numerosi ritratti c’è il nome del soggetto e varie tele portano al proprio interno il titolo.

E però si tratta anche in questo caso di una figuratività espressionistica e tuttavia povera della densità di quello stile. Una figuratività geometrica del tutto riconoscibile ma anche ripetitiva.
Adami è un citazionista, i cui riferimenti sono numerosi e anche questi tradizionali. Alcuni nomi: il mito greco in generale, poi Bacon, Picasso, Dürer, Raffaello, Kokoschka, De Chirico. E Adami è pittore della buona società, riconosciuto sin dall’inizio e ben inserito nell’industria culturale. Soprattutto è artista completamente immerso nello Zeitgeist, nello spirito del tempo, con una propria cifra, certo, ma con niente di realmente autonomo dalle mode e dai linguaggi manieristi di molta arte contemporanea.
Un figurativismo cerebrale e un’astrazione incompiuta hanno il proprio esempio e cifra in alcune opere intrise di un erotismo gelido, come quella che appare qui sotto.

Ma c’è un’eccezione, almeno una. Si tratta di un dipinto del 2006 come sempre dalle ampie dimensioni (2 metri per 2,65), dal titolo Über Berg und Tal (Kubin) Sils-Maria. La raffigurazione della località svizzera è straordinaria, i colori sono molto diversi da quelli che segnano le altre opere e in ogni angolo di questo bellissimo dipinto si sentono il transito, il gelo, le cime, la dimora, il vuoto, il cosmo, il colore freddo della vita. Nietzsche, davvero. La mostra milanese merita di essere visitata per toccare con mano i limiti di Adami ma soprattutto per essere attraversati dalla bellezza di queste forme.

Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia…

Carlo Emilio Gadda
Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo
Conversazione a tre voci
(1958)
Introduzione di Franco Gavazzeni
Garzanti, Milano 1999
Pagine 103

Il furore che Gadda rivolge contro Foscolo non è destinato soltanto a Niccolò Ugo ma a un intero modo di intendere la parola, la poesia, la storia e la vita stessa. Un modo che a Gadda appare insopportabilmente artificioso, ipocrita e meschino. Nei versi di questo poeta Gadda ritrova e rintraccia sempre il vuoto di chi a volte nulla ha da dire ma parla lo stesso; altre di chi usa la parola per conquistare femmine e danari; e infine anche di chi crede che «una ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica», inventrice di un «macchinoso e inutile vocabolario» (p. 64) possa definirsi ed essere poesia. Accade quindi che in un vero e proprio profluvio di  imeni (presunti) intatti, ci siano «più vergini nei millenovecento versi di Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle ‘Grazie’, poi, sono vergini anche i quadrupedi» (78). L’Ellade delle odi, dei sonetti, delle Grazie e dei Sepolcri è agli occhi di Gadda soltanto l’invenzione esaltata e strumentale «del trombone, del rètore, e del falsario» (97) che  Foscolo è stato.
A celebrare questo diselogio funebre sono tre interlocutori impegnati in una sarcastica ma sempre divertente conversazione sulla guerra, le donne, la poesia. Nel salotto di Donna Clorinda Frinelli, «che incarna l’amabile e beata incultura del gentil sesso» (F. Gavazzeni, p. 37) si affrontano il foscoliano Professore Manfredo Bodoni Tacchi e l’inviperito antifoscoliano Avvocato Damaso de’ Linguagi. Il testo venne pensato per la radio e dalla Rai venne trasmesso, preceduto da una intervista/presentazione dello stesso Gadda sul n. 48, anno XXXV, 30 novembre 1958 del «Radiocorriere T.V». L’intervista è un testo raffinato e molto bello che fa pensare all’abisso tra la RAI e le sue pubblicazioni di quel tempo e la RAI del nostro tempo.
La stroncatura è troppo iperbolica per essere condivisibile ed è basata in gran parte – così ipotizza il curatore – su una abbastanza miserabile Vita di Ugo Foscolo scritta dal conte milanese Giuseppe Pecchio nel 1830. Riferimento che testimonia forse come una delle fonti di Gadda fu appunto il romanticismo lombardo, fieramente avverso a qualunque forma di classicismo.
Ma, come sempre in questo autore espressionista e geniale, assai più del tema conta il linguaggio, il profondo piacere che una lingua inventata, sfrenata, perfetta e molteplice trasmette al lettore preso nel vortice di una parola plurale e dolente, divertita e sempre tragica.

Goya

Goya
La ribellione della ragione

Palazzo Reale – Milano
A cura di Victor Nieto Alcaide
Sino al 3 marzo 2024

A Francisco Goya Milano aveva dedicato nel 2010 un’ampia mostra. Questa nuova occasione di incontro con uno dei massimi artisti europei conferma tutto ciò che allora ne pensai, in particolare questa frase: «Goethe scrisse che, se visti dall’altezza della ragione, la vita appare una malattia e il mondo un manicomio. E sono esattamente questa vita e questo mondo che Goya disvela nella loro chiara e dolente assurdità» (Goya y Lucientes).
Si tratta infatti di un’opera che a ogni contatto mostra di essere nuova e diversa, di aprire corridoi nella comprensione del mondo, di attirare come un magnete lo sguardo. E di essere l’incunabolo di tutta la pittura moderna, a partire dalla sua stessa varietà e dalla tecnica davvero perfetta. Scrive infatti il curatore della mostra: «L’espressività tracima oltre la rappresentazione, mentre il colore è del tutto arbitrario. Dipingere tenendo conto del disegno presupponeva fedeltà al tema e alle norme stabilite. La rinuncia al disegno, il protagonismo della pittura, l’autonomia del colore, il valore in sé e per sé della materia pittorica e di una pennellata libera ed espressiva, l’originalità di soggetti che sorgono dall’immaginazione dell’artista e non da un’iconografia costituita fanno di Goya l’autore del primo capitolo della storia della pittura moderna». L’artista è del tutto consapevole di tale autonomia della forma, tanto è vero che in occasione di una relazione tenuta il 14 ottobre 1792 in un’Accademia di Belle Arti affermò che «non ci sono regole in pittura […], l’obbligo servile di far studiare o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino».

A volte le figure si dissolvono, frastagliate nei confini delle loro forme diventate ciò che poi si chiamerà impressionismo, ad esempio ne La cattura di Cristo (1797-98)

Altre volte invece i confini degli enti e dell’accadere sono netti e potenti, come in tutta l’arte rinascimentale. E ovunque pulsa una forza lucida e disperata che è l’essenza stessa di ogni espressionismo. Le due serie di incisioni dal titolo Disastri della guerra e Capricci costituiscono le manifestazioni più note e conturbanti di tale espressionismo. I Disastri sono infatti quasi una cronaca senza infingimenti e insieme onirica dell’orrore che ogni guerra è e produce. I Capricci dispiegano gli incubi, il grottesco, l’insensato che abita nelle cose e negli eventi, dispiegano gli archetipi stessi del male e del dolore, della ὕβρις che abita i fatti umani.

Un’impresa eroica! Con_morti!

Nei Ritratti l’arte di Goya si fa limpida, inquietante e profonda. Sono ritratti che colgono una sostanza stranamente e impossibilmente immortale dei corpi. In queste opere Goya conferma il suo sguardo oggettivo e insieme partecipe e tragico alla vicenda umana.

Marianito (1813)

Tragicità, inquietudine e grottesco rendono questo artista assai vicino, pur in ogni differenza, a uno dei vertici del delirio e del genio, a Hieronymus Bosch. Lo avvicinano certamente nei Capricci e nei Disastri ma anche in alcune opere emblematiche e fondanti come la Processione di flagellanti (1808-812, immagine di apertura) e Il Colosso (1808), nel quale la dismisura della figura che sta al centro emerge su una pianura di attività minute, frenetiche e oscure, attraversate come dal lampo di un sogno.

Lampo, fulmine, bagliore e sfolgorio si distendono spesso nella luce pacata e diffusa che Goya assorbì da Rembrandt e che lo rendono, non soltanto per il tempo nel quale visse ma per la declinazione che di questo tempo diede, uno dei massimi artisti dell’Illuminismo, di una ragione che si ribella, sì, perché da se stessa ha compreso i limiti di ogni sogno razionalista sull’irrazionalismo costitutivo della vicenda umana.

Autoritratto al cavalletto (1785)

El Greco

Nel labirinto di El Greco
Palazzo Reale – Milano
A cura di Juan Antonio Garcìa Castro, Palma Martìnez-Burgos Garcìa, Thomas Clement Salomon, Mila Ortiz
Sino all’11 febbraio 2024

Doménikos Theotokópoulos (1541-1614) giunge da Creta (la veneziana Candia) a Toledo, città d’elezione continuamente raffigurata nelle sue opere (la si vede nei particolari della Crocifissione – immagine di apertura – e del Laocoonte, in basso), dopo aver attraversato la grande pittura italiana del Rinascimento, da lui conosciuta, ammirata, praticata a Venezia e a Roma. Nella sua isola aveva cominciato come pittore di icone sacre. E sacra sempre rimane la sua arte. Da Tintoretto (presente in questa mostra) sugge il rosso, l’azzurro, il viola, il giallo, l’inquietudine, la distanza. Da Michelangelo apprende i corpi, l’anatomia, la densità dello spazio. Da tutti assorbe e ricrea una luce turchese, intima, intensa, metallica, cosmica.
I suoi segni e i suoi volumi disegnano lo spirito più profondo del suo tempo, di una Controriforma che del cattolicesimo fu vittoria e fasto. Nulla di questa potenza, di questa bellezza, accade nel luteranesimo e nel calvinismo, la cui miseria iconica è gemella della modestia esistenziale.
«Dentro da sé, del suo colore stesso» (Dante, Paradiso, XXXIII, 130), i suoi quadri vanno oltre il tempo che pure testimoniano in modo totale, diventano espressionismo, si fanno un’ontologia lacerata e inevitabile dalla quale molto hanno appreso nel Novecento Francis Bacon e numerosi altri artisti.
I ritratti del Greco sono sculture della vita e della morte, dell’energia che va, che si dissipa.  La forza del Greco, il suo tratto, sono inediti e sconcertanti. Testimoniano e si dirigono verso un trionfo delle forme che è l’inquietante consapevolezza di un segreto che non è possibile cogliere qui e ora.
La mostra milanese, essenziale e bella, permette di vedere e toccare quadri come l’Espolio, l’Incoronazione della Vergine, la Cacciata dei mercanti dal Tempio, il Laocoonte,. Opere nelle quali la violenza e la grazia, il trascendente e la terra si toccano.
Una fusione della materia corporale, delle rocce, della gloria.

El Greco, Laocoonte, particolare

Autorità

Nel nome del padre
di Marco Bellocchio
Italia – Francia, 1972 / Versione ridotta dal regista (2011)
Con: Yves Beneyton (Angelo Transeunti), Renato Scarpa (Padre Corazza), Edoardo Torricella (Padre Matematicus), Laura Betti (la madre di Franc)
Trailer del film

Paura e terrore come strumenti di dominio praticati nei collegi cattolici alla fine degli anni Cinquanta. Ma ormai strumenti insufficienti di fronte alle trasformazioni del secondo dopoguerra, alla fine del pontificato di Pio XII, al venir meno del principio di autorità delle istituzioni e dei padri. Mentre viene portato in collegio, infatti, Angelo Transeunti riceve schiaffi dal proprio genitore e li restituisce con violenza. Dentro un costoso collegio/carcere spinge alla ribellione i suoi compagni folli, deboli, aggressivi. Una ribellione che però non ha l’obiettivo di rendere liberi, piuttosto nutre quello di creare un sistema di terrore ancora più efficiente rispetto a quello ormai in decadenza del clero.
Una vicenda autobiografica e violenta viene narrata da Bellocchio nelle forme espressionistiche del grottesco, dell’eccesso, del visionario, con madonne che scendono dagli altari ad abbracciare collegiali che si masturbano guardandola; con preti che vivono dentro bare; con altri che vengono sbeffeggiati da alunni ai quali nulla sanno insegnare; con recite studentesche durante le quali le bestemmie si coniugano alla paura del lupo cattivo, il mito di Don Giovanni si lega a oscene volgarità. La disincantata rassegnazione di Padre Corazza e la gelida passione ribelle di Angelo Transeunti disegnano insieme l’uovo di serpente che dalla ribellione borghese del Sessantotto è transitato a forme di dominio sempre più pervasive, intime, tecnologiche, sanitarie, totali.
Film come questi mostrano in modo plastico che cosa significhi un anelito all’emancipazione privo di ogni luce e quindi inevitabilmente destinato a sciogliersi, annullarsi, trasformarsi ancora una volta in potere.

Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Espressionismo manzoniano

I Promessi Sposi
di Mario Bonnard
Italia, 1922
Con: Domenico Serra (Renzo), Emilia Vidali (Lucia), Umberto Scalpellini (Don Abbondio), Mario Parpagnoli (Don Rodrigo), Enzo Billiotti (Fra’ Cristoforo), Rodolfo Badaloni (L’Innominato), Ida Carloni Talli (Agnese), Ninì Dinelli (Gertrude), Olga Capri (Perpetua)

Restaurato e accompagnato da musiche contemporanee, questo capolavoro del cinema muto mostra una coinvolgente originalità formale e narrativa. Mario Bonnard fa del romanzo di Manzoni un percorso dentro la storia, l’antropologia, il male. La vicenda di Renzo e Lucia quasi rimane sullo sfondo delle grandi scene collettive, fatte di folle, soldati, appestati, ribellioni. Scene nelle quali la violenza delle vicende, la malvagità degli umani, l’inesorabilità degli eventi emergono dallo sfondo ora idilliaco del lago ora concitato della città. I rappresentanti dell’ideologia religiosa di Manzoni – fra’ Cristoforo, il cardinale Federigo – appaiono costantemente rivolti verso l’alto, distanti, quasi emaciati, ininfluenti. Come se fossero estranei rispetto alla concretezza della manzoniana fenomenologia dell’umano. Le libertà narrative che Bonnard si è preso – l’Innominato alla guida dei suoi soldati contro i lanzichenecchi; Lucia malata in casa di Donna Prassede; i dettagli del tradimento del Griso e della sua morte; le lunghe scene del saccheggio di Mantova; – sono funzionali a una disincantata descrizione della città umana, così come essa va sempre o come andava ‘nel secolo XVII’:
«In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo»
(I Promessi Sposi, a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. VIII, p. 184).
E tutto questo viene narrato in una tonalità color seppia, con moderne dissolvenze delle forme, tramite giochi tra sfondo/primi piani e altre modalità espressionistiche. Un grande film.

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