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Sulla filosofia

Aristotele
I Dialoghi
Introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta
Biblioteca Universale Rizzoli – Classici Greci e Latini
Rizzoli, Milano 2018
Pagine 742

La costellazione teoretica fondamentale del cielo mediterraneo ed europeo è quella che ha le proprie stelle α e α1 in Platone e Aristotele. Il loro legame anche personale è indissolubile:

Dalla stima che Platone ebbe per Aristotele, come può evincersi dalla tradizione secondo cui lo avrebbe soprannominato ‘la mente’ e, per converso, dal modo non soltanto rispettoso ma anche emotivamente partecipato col quale Aristotele dichiara in alcune circostanze in cui critica Platone, il proprio dispiacere di doverlo fare, ci si può ragionevolmente convincere che i rapporti tra il maestro e il discepolo dovevano essere ottimi, sia sotto il profilo scientifico che personale. Anzi […] si può ragionevolmente parlare di autentica devozione del discepolo nei riguardi del maestro, perpetratasi al di là dei dissensi dottrinali e mantenuta viva nel tempo. Persino molti anni dopo la morte di Platone (p. 11).

A dimostrarlo è tutto, compresi i Dialoghi composti da Aristotele in gran parte durante la sua ventennale presenza nell’Accademica platonica. Di essi ci sono rimasti in genere pochi frammenti ma sufficienti  a testimoniare la completa adesione dello Stagirita al programma filosofico della scuola platonica, come mostrano in particolare i Dialoghi dei quali sono rimaste più ampie pagine, come il Protrettico – l’invito a filosofare – e il Sulla filosofia.
In questi e negli altri testi rivolti al più ampio pubblico, e quindi ‘essoterici’, lo stile è «pien[o] di luce e trasparent[e]» (Them., Orat., 319c; p. 59) e i contenuti sono intramati di φρόνησις e di σοφία, di saggezza nell’esistenza e di sapienza nella comprensione. Quello di Aristotele è infatti, come afferma Cicerone, un «ingenio singulari et paene divino», una intelligenza unica e quasi divina (Eudemo, 1 Cic., Div. ad Brut., I, 25, 53; p. 153).
Questa intelligenza era molto selettiva nell’accogliere allievi dentro la propria scuola. Entrare nel Liceo richiedeva infatti un talento naturale che niente può far acquisire se non lo si possiede alla nascita; era poi richiesta una base di conoscenze pregresse e soprattutto la tenace passione verso l’apprendimento. Aristotele sa infatti che non esiste lavoro filosofico senza una massa imponente di conoscenze, di nozioni, di cose sapute, di erudizione nei campi più diversi dell’esistere e del pensare; ma sa anche che tali conoscenze sono necessarie e non sufficienti, da esse la filosofia prende avvio per metabolizzarle e trasformarle in uno sguardo universale e totale sul mondo.

Uno sguardo che si applica pertanto ai campi più diversi, tra i quali nei Dialoghi vengono discussi: 

  • l’amore, che ben prima di Proust Aristotele sa essere apportatore di «dolore conturbante, continue insonnie, passioni disperate, tristezza e follia» (Erotico, 4 Al Dailami; p. 205); 
  • l’educazione (Sull’educazione) come struttura rigorosa e volta all’eccellenza (i Greci non avrebbero neppure compreso espressioni barbariche quali ‘successo formativo’, ‘inclusione degli ultimi’, ‘prove intermedie’ et similia). A testimoniarlo sono anche alcune massime riportate da Diogene Laerzio, quali:

    Interrogato in che modo differissero gli educati [coloro che possiedono la παιδεία, la cultura] dagli ineducati, rispose: ‘quanto i vivi dai morti’.
    I genitori che educano i figli sono molto più venerandi di quelli che li mettono al mondo soltanto, perché questi li fanno vivere, quelli li fanno vivere bene.
    Interrogato in che modo i ragazzi possano fare progressi, rispose: ‘se si mettono sulle orme dei primi senza attardarsi con i più lenti’ (D.L., V, 19-20; p. 408);

  • la conseguente necessità di una solida formazione filosofica per «avere correttamente parte della polis» (Protrettico, 4 Iambl., Protr., 6; p. 237); 
  • il disprezzo verso il desiderio di semplicemente vivere, che è cosa da schiavi, e non di vivere bene, che  è quanto dà senso all’esistenza; 
  • il convergere nella vita umana individuale e collettiva di intelligenza e tecnica, di leggi naturali e di potenza dell’imprevedibile, del caso; 
  • l’identità tra la ϑεωρία (riflessione, contemplazione, pensiero) e l’ἐνέργεια (attività, azione, fare); 
  • l’intellettualismo etico, che non è elemento socratico ma struttura caratterizzante l’intera filosofia greca e che in Aristotele diventa la παιδεία (conoscenza, formazione) come contenuto primario dell’ἀρετή (virtù, comportamento buono); 
  • la potenza ovunque del divenire e del tempo rispetto alle tesi eleatiche di Parmenide, di Melisso e di altri, che Aristotele definisce ἀφυσίκους, afisici, «perché la natura è principio di movimento, ed essi, dicendo che nulla si muove, la sopprimono» (Sulla filosofia , 9 Sext. Emp., Adv. Math., X, 45; p. 591).

Oltre ad accennare a queste tematiche, tutte fondamentali, vorrei dire qualcosa di più su tre questioni che contribuiscono in modo costante all’identità dell’aristotelismo come filosofia universale, vale a dire possibile e praticabile in ogni luogo e in ogni tempo.
La prima è la sostanziale identità di teoresi e studio dei cieli, di filosofia e di astronomia. E questo sia perché l’umano è una parte del cosmo sia perché il cosmo stesso è la vera divinità. Già Anassagora e Pitagora ritennero che la ragione ultima dell’esistenza umana, quella che costituisce la sua dignità, sia la contemplazione del cielo e degli astri intorno alla luna e al sole. E questo anche perché, molto al di là di ogni semplice ‘utilità’ empirica, niente come la distanza, lo splendore, la costanza dei cieli, la loro superiore ontologia, riconduce l’umano e la vita alle loro reali misure. Aristotele concorda con loro e, anche discostandosi dalla potenza argomentativa del Timeo, sostiene che non si dà alcun tempo nel quale il cosmo è stato prodotto ma «che il mondo è ingenerato e incorruttibile» (Sulla filosofia, 18 Philo, De aetern. mundi, III, 10-11; p 615), tanto che gli astri che vediamo durante la notte, i cinque pianeti, le stelle, sono loro le vere divinità.

Il secondo elemento di perenne sapienza scaturisce anche da questa potenza dei cieli, dalle conoscenze astronomiche, ed è la consapevolezza e l’accettazione del limite umano dentro il cosmo, della nostra finitudine. Nei brani del Protrettico riportati da Giamblico, Aristotele afferma che:

tutte le cose che agli uomini sembrano essere grandi sono un adombramento (skiographia). Dal che si dice giustamente che l’uomo è un niente e che nessuna delle cose umane è sicura. […] Se infatti si potesse guardare acutamente come si dice che guardasse Linceo […] sembrerebbe forse che qualcuno può sopportare la vista, scorgendo da quali mali è costituito? […] Quale delle cose umane è grande o di lunga durata?
(10 Iambl., Protr., 8; p. 271).

È quindi del tutto coerente che nel dialogo dal titolo Eudemo, o dell’anima Aristotele racconti per intero il noto dialogo tra il saggio Sileno e lo stolto re Mida, al quale – visto che insisteva nel voler sapere che cosa per l’umano fosse meglio – Sileno rispose:

non nascere è la cosa migliore di tutte (ἄριστον πάντων) […]; voi, effimero seme di un demone carico di fatiche e di una sorte gravosa,. […] Per gli uomini non è assolutamente possibile che si verifichi la cosa migliore di tutte né partecipare della natura dell’ottimo. Infatti, per tutti gli uomini e per tutte le donne è ottimo non essere nati; tuttavia ciò che viene dopo di questo, ossia la prima delle cose possibili per gli uomini è che, essendo nati, muoiano il più presto possibile (6 Plut., Mor., Consol. ad Apoll., p. 115, b-e; pp. 159-161).

Ma, ed è questo il terzo e ultimo elemento: da tale consapevolezza lucida e disincantata deve sgorgare non una tonalità rassegnata e triste ma, al contrario, la ricerca della gioia come dovere proprio dell’umano: «Ma quelle feste che il Dio organizza per noi [lo spettacolo del mondo] e alle quali c’inizia come ai misteri, <gli uomini> rendono vergognose, trascorrendo per lo più la vita tra manifestazioni di dolore, stati d’animo pesante e debilitanti affanni» (Sulla filosofia, 14 Plut., Mor., De tranquill., p. 477; p. 609).
Anche Aristotele insegna dunque che se le lacrime sono un diritto della condizione umana, sorridere è proprio un dovere ‘etico e dianoetico’ (per usare il suo linguaggio), sorridere è una necessità sia dell’agire sia del pensare. Rispetto ad altre attività umane, infatti, la filosofia trova nel suo stesso esercizio il significato, il piacere, la pienezza.

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Contro la nascita

Contro la nascita
il Pequod
anno V, numero 10, dicembre 2024
pagine 38-51

Indice
1 βίος
2 Strategie
3 Una tragedia ridicola
4 Entropia e DNA
5 Oltre la vita, la materia
6 Il mondo è perfetto

«Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
[…]
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono ‘la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui’ (Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca). Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo».

[Considero questo uno dei testi fondamentali del mio percorso. Poche pagine nelle quali ho cercato di riassumere quanto ho compreso della materia e dell’esserci. Spero che i miei amici vorranno leggerlo e conservarmi la loro amicizia, soprattutto gli amici che hanno avuto dei figli 🙂 .
In ogni caso, la tesi più importante che il saggio intende argomentare è che il mondo è perfetto. Espressione che va presa alla lettera. È dunque un testo dalla tonalità del tutto positiva]

Un lupo di mare

A Salty Dog
Procul Harum (1972)

L’Art Rock trova in questo brano il suo capolavoro. La ballata del vecchio marinaio di Coleridge diventa una sinfonia che nella versione dal vivo eseguita nel 2006 in Danimarca ha proprio le dimensioni e l’aspetto di un concerto di musica classica.
È un brano che nella sua ampiezza abbracciante il cosmo ha qualcosa di profondamente malinconico, come un rimpianto per ciò che di bello e grande la vita avrebbe potuto offrire e che invece non ha dato. Il testo esprime una delle più antiche metafore dell’umana esistenza, un viaggio nell’ignoto, dal nulla verso il nulla, o anche dalla luce verso la luce.

All hands on deck, we’ve run afloat,
I heard the Captain cry.
Explore the ship, replace the cook,
Let no one leave alive.
Across the straits, around the horn,
How far can sailors fly?
A twisted path, our tortured course
And no one left alive.

We sailed for parts unknown to man,
Where ships come home to die.
No lofty peak, nor fortress bold,
Could match our captain’s eye.
Upon the seventh seasick day,
We made our port of call.
A sand so white, and sea so blue,
No mortal place at all.

We fired the guns, and burned the mast,
And rowed from ship to shore.
The captain cried, we sailors wept,
Our tears were tears of joy!
Now many moons and many Junes,
Have passed since we made land.
A Salty Dog, the seaman’s log,
Your witness, my own hand.

***************

Tutti sul ponte, siamo riusciti a stare a galla,
Ho sentito il Capitano piangere.
Setaccia la nave, rimpiazza il cuoco,
Che nessuno se ne vada vivo.
Oltre lo stretto, oltre il Capo,
Quanto lontano possono volare i marinai?
Un percorso tortuoso, il nostro percorso tormentato,
E nessuno è rimasto vivo.

Abbiamo navigato verso luoghi sconosciuti all’uomo,
Dove le navi tornano a casa per morire.
Nessuna vetta alta, né fortezza ardita
Potrebbe eguagliare l’occhio del nostro capitano.
Nel settimo giorno di mal di mare,
Abbiamo fatto scalo.
Una sabbia così bianca e un mare così azzurro,
Nessun luogo mortale.

Abbiamo sparato con i cannoni e bruciato l’albero maestro,
E remato dalla nave alla riva.
Il capitano piangeva, noi marinai piangevamo,
Le nostre lacrime erano lacrime di gioia!
Ora molte lune e molti mesi di Giugno,
Sono passati da quando abbiamo toccato terra.
Un Lupo di Mare, il diario di bordo del marinaio,
Il tuo testimone, la mia mano.

(Traduzione di Guido Carosella)

Caduta / Invidia

Anatomie d’une chute
(Anatomia di una caduta)
di Justine Triet
Francia, 2023
Con: Sandra Hüller (Sandra), Milo Machado Graner (David), Samuel Theis (Samuel), Swann Arnauld (Vincent), Antoine Reinartz (il procuratore generale), Jehnny Beth (Marge)
Trailer del film

Sandra è una scrittrice di successo. Si è trasferita da Londra alle montagne vicino a Grenoble per seguire il marito Samuel, che fa l’insegnante ed è anche lui un aspirante scrittore. Per un caso fatale il loro bambino, David, ha subito un incidente stradale che lo ha quasi del tutto privato della vista. Ora Sandra è nel loro chalet per un’intervista a una giovane studiosa di letteratura che sta preparando la tesi di laurea. Al piano superiore Samuel ascolta musica a un volume tale da rendere impossibile la registrazione dell’intervista. Le due donne dunque si salutano. David va a fare una passeggiata nella neve con il cane Snoop. Al loro ritorno il padre è disteso nella neve sotto il balcone di casa, morto.
Comincia così un thriller psicologico nel quale la giustizia e i media scavano nella vita della coppia, nelle sue tensioni, nei segreti, nelle ambizioni, nei drammi. Molti elementi sembrano convergere verso l’assassinio da parte di Sandra. Il testimone chiave è il figlio, che soccorre alla cecità con una intelligenza lucida e un sentire profondo, nonostante abbia 11 anni.
Il racconto è ben costruito nonostante la lunghezza eccessiva (2 ore e 30 minuti), ottimamente interpretato specialmente dalla protagonista, dal figlio e dal pubblico ministero. Il film alterna infatti le coinvolgenti e lunghe scene dentro il tribunale con i ricordi della vita trascorsa e i momenti di inquietudine a casa, tra Sandra, il figlio e la persona che viene incaricata di evitare che l’imputata condizioni l’unico testimone. Il momento chiave è l’ascolto della registrazione che Samuel (il marito) ha fatto dell’ultimo litigio tra i due, avvenuto il giorno prima della sua morte. L’uomo rivolge alla moglie una serie di aspri rimproveri, lei cerca di rimanere calma e ribattere colpo su colpo, sino a uno scontro finale. Samuel vi appare come un uomo ambizioso e interamente fallito, la cui frustrazione per l’incapacità di scrivere lo conduce a nutrire sentimenti di astio e di profonda invidia verso Sandra. Il dispetto della musica assordante mentre lei viene intervistata conferma la meschinità di questa persona. E soprattutto emerge il suo senso di colpa per l’incidente occorso al figlio, del quale porta una oggettiva responsabilità che cerca vanamente di cancellare e che nello stesso tempo serve da motore alla sua angoscia di vivere. La colpa, ancora una volta, questo sentimento distruttivo dell’esistenza.
Il bianco, di solito associato alla purezza, e il rosso della violenza e del sangue si intrecciano inestricabili e danno vita a una lucida illustrazione di come anche all’interno di una coppia, anche tra persone che nutrono sentimenti reciproci d’affetto, la forza di una passione incontrollabile come l’invidia diventi pervasiva. E ciò è assai triste.
Bello è stato invece vedere il film in lingua originale. L’alternanza di francese, per lo più nei momenti pubblici, e di inglese, nei contesti privati, sarebbe andata perduta nel doppiaggio (doppiaggio dei film che costituisce una peculiarità soprattutto italiana e che sarebbe assai proficuo abbandonare o almeno ridurre).

Komorebi

Perfect Days
di Wim Wenders
Giappone-Germania, 2023
Con: Kôji Yakusho (Hirayama), Arisa Nakano (Nika), Tokio Emoto (Takashi)
Trailer del film

I giorni perfetti della solitudine. I giorni di un uomo che nel gomitolo urbano di Tokyo si alza prima dell’alba, ripone il suo letto in un angolo, annaffia le piantine che conserva con cura, si prepara, compra una lattina di caffè e va a pulire i gabinetti pubblici della città, accompagnando il viaggio in auto con l’ascolto di vecchie cassette audio. Le canzoni sono degli anni Settanta e Ottanta, probabilmente quelle più amate da Wim Wenders. Finito il lavoro, si lava ai bagni pubblici (pulitissimi), a volte fa una passeggiata in bici, la sera va a mangiare qualcosa in due diversi locali, uno più intimo e più familiare.
Regolarmente ritira le foto scattate con una vecchia macchina analogica e consegna nuovi rullini. Hirayama fotografa soprattutto gli alberi, il vento tra gli alberi, i raggi di sole che improvvisamente e serenamente si mostrano tra le foglie. Un fenomeno irripetibile e casuale, per il quale in italiano non esiste una specifica parola e che in giapponese si dice Komorebi, termine composto dai caratteri kanji per albero (), splendore (漏れ) e sole (). Prima di addormentarsi legge alcune pagine di un libro. Così tutti i giorni.
A condividere questa solitudine è un barbone che disegna figure con il proprio corpo; a infrangerla e a  disturbarla è invece un giovane compagno di lavoro chiacchierone e approfittatore. Si aggiunge poi l’arrivo di una nipote in fuga dalla famiglia. Dalla sua presenza e poi dal suo tornare a casa, prelevata dalla madre, veniamo a sapere solo indirettamente che Hirayama appartiene a una ricca famiglia, dalla quale si è allontanato per ragioni a noi sconosciute.
Una sera viene cercato dall’ex marito della signora presso cui cena, con il quale si chiede se due ombre sovrapposte risultino per questo più scure. I due uomini cominciano un gioco con le ombre per verificarlo. Nella scena conclusiva il volto di Hirayama sorride e riflette mentre va ancora una volta al lavoro.
Un proverbio latino recita O beata solitudo, o sola beatitudo. Una beata solitudine come condizione della gioia. E questo nel gioco di oscurità e luce che sono i giorni umani, le ombre, komorebi.

Antinatalismo. Storia e significato

Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale
con Sarah Dierna
in Dialoghi Mediterranei
n. 64, novembre-dicembre 2023
pagine 56-75

Indice
-Filosofia e disincanto 
-Sullo stare al mondo
-Antinatalismo: una saggezza antica
-Antinatalismo e religioni
-Illusioni e impulsi
-Egoismo parentale
-Filantropia
-Sine ira et studio

Il saggio che ho scritto insieme a Sarah Dierna – specialista dell’argomento e senza la quale non avrei potuto tentare una sintesi così ampia – è uno dei testi che ritengo più importanti e significativi nel percorso di pensiero mio e, in questo caso, dei miei allievi. Le ragioni dovrebbero emergere dal testo stesso, del quale uno degli studiosi che abbiamo citato, Théophile de Giraud, ci ha detto che «c’est probablement le meilleur article que j’ai lu sur l’antinatalisme». Siamo ovviamente felici di questo riconoscimento.
Aggiungo l’incipit del saggio, che indica le ragioni per le quali abbiamo cercato di pensare la nascita e mediante essa il significato del vivente.

«Svolto con rigore, il lavoro filosofico consiste anche nella analisi critica dei tabù, di qualunque tabù, non necessariamente per rifiutarli ma per comprenderne origine, logiche, obiettivi. Uno dei tabù più pervasivi riguarda il silenzio sull’etica della procreazione, non intesa come bioetica volta ad analizzare le modalità – naturali, artificiali, ibride, storicamente situate – del procreare ma proprio la legittimità etica di farlo. Che il solo sollevare una simile questione susciti subito sorpresa, perplessità e rifiuto è appunto una conferma della natura pregiudiziale e nascosta del problema.
Come mammiferi siamo naturalmente indotti a lasciare dopo di noi i nostri geni. È questa la ragione prima e ultima dell’esistenza e del perpetuarsi dei viventi. Ma come in molti altri ambiti siamo anche in grado di porci degli interrogativi su ciò che sembra indiscutibile e ovvio. Il lavoro filosofico serio consiste, lo ripetiamo, anche e specialmente nel sottoporre ad analisi l’evidenza. Dalle questioni ontologiche a quelle cosmologiche e religiose la filosofia in Grecia è nata in questo modo.
Porsi in modo serio la questione della legittimità etica del procreare comporta certamente una serie di concetti e di conclusioni che turbano quanti ritengono che nulla quaestio si ponga su tale tema. E invece sono tante le domande e le riflessioni che emergono dalla questione della nascita». 

Il primo, l’ultimo

Il primo giorno della mia vita
di Paolo Genovese
Italia, 2023
Con: Toni Servillo (Uomo), Valerio Mastandrea (Napoleone), Margherita Buy (Arianna), Sara Serraiocco (Emilia), Gabriele Cristini (Daniele)
Trailer del film

Di fronte alla volontà e alla prassi di un vivente che decide di porre fine alla propria esistenza, credo che debba valere soltanto un silenzio rispettoso e inquieto. Si tratta infatti di un gesto che sembra confliggere in modo clamoroso con il Wille zum Leben, con il desiderio di continuare a vivere che intrama ogni entità biologica, qualunque specie animale e vegetale. E tuttavia è un gesto che accade. E non poi così di rado. Chiedersi ‘perché?’ è insieme ozioso e tracotante, così diverse e così intime e oscure possono essere le ragioni che inducono a spegnere la propria vita. E diverse sono infatti le motivazioni e le modalità che hanno indotto Arianna, Emilia, Napoleone e Daniele a uccidersi. Arianna era una poliziotta che aveva perso la figlia sedicenne; Emilia una grande ginnasta che arrivava sempre seconda e che un incidente ha ridotto in carrozzina; Napoleone era un motivatore di successo, una specie di guru teso a convincere che la vita merita sempre di essere vissuta; Daniele era un ragazzino indotto dal padre a diventare un fenomeno social, nei cui video virali lo si vede divorare in pochi minuti decine e decine di dolci.
Tutti costoro erano o ancora sono? Non è chiaro. Un non meglio precisato personaggio sembra infatti convincerli all’ultimo istante di darsi ancora del tempo, ancora una settimana entro la quale potranno cambiare idea e annullare il gesto che li ha uccisi. Essi esistono dunque in una condizione nella quale nessuno li può vedere ma loro osservano tutto e constatano, tra le altre cose, quanto «vedere la vita senza di noi è doloroso sempre, e non perché è bella o brutta ma perché va avanti, va avanti comunque».
L’uomo che ha provvisoriamente sospeso il loro gesto non si sa chi e che cosa sia. È capace di aprire luoghi e situazioni con grande facilità; di far intravedere qualcosa del loro futuro, nel caso decidessero di averne uno; di mettere in atto alcuni poteri che attribuiremmo senz’altro a un dio ma che sono esercitati certamente da un umano che ha dei limiti oltre i quali non può andare.
Se il suicidio è un “crimine” perché infrange il corso delle cose voluto dalla potenza divina, allora secondo David Hume andrebbe giudicato altrettanto colpevole ogni e qualsiasi intervento sulla natura, le sue leggi, le sue manifestazioni: «Se disporre della vita umana fosse un diritto esclusivo dell’Onnipotente, tanto che fosse una violazione del suo ufficio per gli uomini disporre delle proprie vite, sarebbe ugualmente criminoso agire per la sua conservazione come per la sua distruzione» (Sul suicidio e altri saggi scelti, Villaggio Maori Edizioni, 2008, p. 15). Tra le altre argomentazioni humeane a difesa del suicidio ce n’è una la cui verità è evidente, quella per la quale «nessun uomo abbia gettato via la vita, finché essa era degna di essere conservata» (p. 20).
È questa attenzione alla qualità dell’esistere a essere del tutto disprezzata dal fanatismo e dalla superstizione che vogliono legare gli umani alla sofferenza come se essa fosse un valore da perseguire invece che un male da, sino a che è possibile, evitare. Superstizione che «rende gli uomini timorosi e sottomessi» (p. 24).
A tale superstizione Hume oppone la saggezza dei pagani, ben riassunta nelle parole di Seneca e di Plinio. Il primo ringrazia Dio «quod nemo in vita teneri potest» (Epist. 12), del fatto che nessuno può conservare per sempre la propria vita. Il secondo compiange il divino proprio perché non può, anche se lo volesse, darsi la morte: «Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae poenis» (Nat. Hist. II, 5).
Un tema così profondo, delicato e controverso è affrontato in questo film in modo anche geometrico e freddo. Caratteristica che secondo alcuni critici e spettatori lo indebolisce. Io credo invece che sia una delle sua migliori qualità. Con i suoi primi piani e con un narrare sospeso, Paolo Genovese è capace di entrare a fondo nelle vicende umane e nella loro interiorità, come già accadeva in Perfetti sconosciuti (2016)  e soprattutto in The Place (2017).

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