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Occhio / θεωρέω

Mente & cervello 119 – novembre 2014

occhioL’animale umano è un’entità teoretica. θεωρέω, vedere/osservare, è il suo approccio privilegiato al mondo. Per intuire che cosa sia il nostro occhio, è sufficiente confrontarlo con quello degli strumenti fotografici più avanzati oggi disponibili: «La luce più intensa distinguibile da una fotocamera Canon 5D II […] è 2000 volte più forte della più debole luce che la stessa macchina è in grado di percepire. Se la luminosità di un ambiente eccede questo intervallo, alcune regioni saranno sovraesposte o sottoesposte, con conseguente imbarazzo per il fotografo. Ma se il fotografo avesse guardato la scena con i propri occhi lo stesso fotone avrebbe colpito direttamente la sua retina. […] L’intervallo di intensità a cui l’occhio umano è sensibile è così vasto che può distinguere due oggetti di cui uno è un milione di volte più luminoso dell’altro» (K.M. Stiefel – A.O. Holcombe, pp. 49-50).
2000/1.000.000. Una differenza enorme che si fonda sul fatto che «il cervello costruisce una percezione di ciò che, con l’evoluzione, ha imparato a identificare come realtà. […] Il cervello sintetizza un’immagine il più possibile coerente per uno scopo preciso, quello di adattarsi e interpretare al meglio il mondo che ci circonda. Il principio dell’occhio e quello della fotocamera sono fondamentalmente differenti. La differenza non si potrà colmare finché, in un lontano futuro, non svilupperemo una macchina davvero intelligente e la impianteremo nel corpo di una fotocamera» (Id., 53), vale a dire finché una ibridazione tecnobiologica non riprodurrà l’immensa capacità umana di inventare una realtà nitida e ordinata a partire dalla tempesta di fotoni che investono l’apparato visivo.
La realtà, ancora una volta, semplicemente non esiste. Né la realtà collettiva, che centinaia di esperimenti mostrano essere il frutto dei condizionamenti ambientali (cfr. qui l’articolo di D. Hellmann e H-P. Erb sui sondaggi, pp. 54-59) né la realtà propriocettiva, individuale. La questione dell’arto fantasma dimostra anch’essa che «qualcosa cambia a livello cerebrale quando il corpo subisce una modificazione importante […] e il cervello umano procede a una rimappatura delle rappresentazioni corporee quando viene a mancare l’apporto delle sensazioni dalla periferia» (D. Ovadia, 69).
Il cervellomente decifra/interpreta di continuo la materia di cui fa parte. Anche l’occhio è un dispositivo ermeneutico.

Ermeneutica e placebo

Mente & cervello 115 – luglio 2014

 

M&C_115_luglio_2014Lo ripeto spesso: l’antroposfera è inseparabile dalla zoosfera, dalla teosfera e dalla tecnosfera. Le indagini neurologiche e antropologiche mostrano con chiarezza che «quando un individuo manipola strumenti, questi divengono parte del suo corpo, o meglio, il cervello li codifica come se gli strumenti avessero un’esistenza equivalente a una qualsiasi parte del corpo». Questo vale anche per altre specie che utilizzano strumenti, come le scimmie, per le quali «il rastrello è assimilato all’immagine della mano. Il numero di neuroni che inizialmente codificava l’immagine si espandeva per incorporare anche il rastrello» (Atsushi Iriki, rispondendo ad Antonella Tramacenere, p. 98). Gli strumenti non sono mai neutri, una frase come ‘dipende dall’uso che se ne fa’ è perlomeno ingenua. L’uso dei videogiochi, dei cellulari, dei computer «sta avendo effetti profondi sul nostro cervello, sulla capacità di riutilizzo delle risorse neurali e probabilmente sulle nuove connessioni di aree sensoriali e motorie» (Id., p. 100). E tuttavia la modalità di funzionamento del cervello rimane profondamente analogica e non digitale poiché «il sistema nervoso degli animali non necessita, come i computer, di enorme rigore e capacità di elaborazione di grandi quantità di dati tutti in una volta, bensì deve essere in grado di adattarsi e imparare continuamente e con il minor dispendio di energia possibile. L’evoluzione ha selezionato macchine ottimizzate per interpretare e associare input esterni, percepiti anche in modo impreciso, e tradurli in schemi complessi plasmandosi di volta in volta sulla base delle esperienze acquisite» (M. Semiglia, p. 20).
Il milieu tecnico, naturale e culturale nel quale gli umani sono costantemente immersi li plasma infatti di continuo, li condiziona e nello stesso tempo li rende imprevedibili nel rispondere all’ambiente, alle sue condizioni, alle sue richieste. Interessantissima è, pure da questo punto di vista, l’esperienza di totale isolamento che si vive nella base antartica Concordia, ben più irraggiungibile e isolata -anche se può sembrare strano- rispetto alle astronavi che ruotano intorno al pianeta. Da febbraio a novembre, infatti, la temperatura raggiunge gli 80 gradi sotto lo zero e nessun mezzo di trasporto può raggiungere la base. Si tratta di una sfida che comporta rischi anche gravi e che in ogni caso cambia la vita di chi vi si sottopone, come viene raccontato in un coinvolgente articolo di Giorgio Di Bernardo (pp. 64-71).
Il corpomente a tutto si adatta, o cerca todo modo di farlo, perché tutto interpreta secondo i propri schemi, bisogni, aspirazioni. Una delle conferme più potenti di tale attitudine è l’effetto placebo, «ossia l’effetto terapeutico di sostanze inerti o procedure fasulle» (T. Gura, p. 90), la cui possibilità dipende dalla regolazione endogena della quale il corpomente è capace; una facoltà, questa, non soltanto chimica ma anche profondamente ermeneutica, consistendo nell’«abilità degli esseri umani di reinterpretare le situazioni» (Id., p. 94). Tra le più recenti acquisizioni riguardanti l’effetto placebo c’è l’importanza del medico. Se coloro che curano si mostrano coinvolti, interessati, attenti alla vicenda

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La mente amorosa

Bellerofonte Castaldi
«O crudel Amor»
Laura Fabris – Ensemble ‘Il Furioso’

[audio:Bellerofonte_Castaldi_O_ crudel_amor.mp3]

«Comment a-t-on le courage de souhaiter vivre, comment peut-on faire un mouvement pour se préserver de la mort, dans un monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge et consiste seulement dans notre besoin de voir nos souffrances apaisées par l’être qui nous a fait souffrir?» (M. Proust, Sodome et Gomorrhe, in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1673)
Ritorno su questo tema -affrontato qui altre volte- anche sollecitato dalla lezione che ho tenuto ieri ai  giovani artisti e attentissimi allievi del Maestro D’Ascola al Conservatorio di Milano. L’amore dunque nascerebbe dalla menzogna e consisterebbe nel bisogno di vedere le nostre ferite curate proprio da chi le ha inferte. Paradossi? No, naturalmente. Esatta fenomenologia del sentimento, piuttosto. Che si tratti di esperienze universali lo mostra anche la consonanza tra Proust e il poeta/compositore Bellerofonte Castaldi (1580-1649) il quale si rivolge al crudele dio d’amore chiedendogli di volgere «lo sguardo  / a costei ch’ogn’or m’ancide, / per cui mi struggo & ardo / mentre del mio mal si ride»; ricorda poi al dio l’ipocrisia della donna, che «con faccia pietosa / ma con mente nera, / sta ver me sempre orgogliosa. // Con finto riso / mostra ogn’hor di darsi vinta, porgendo il Paradiso / con la sua pietà dipinta». Alla «dipinta» e cioè fasulla e apparente pietà dell’amata si contrappone la densa realtà del «crudo inferno di dolor» nel quale l’innamorato si sente precipitare. Un inferno che consiste esattamente nel «monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge».
Naturalmente non si tratta qui di banale strategia amorosa, di psicologiche bugie. Si tratta del fatto che «nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale, che può essere raggiunto soltanto con la completa identificazione di oggetto e soggetto. L’impenetrabilità della più volgare e insignificante creatura umana non è semplicemente un’illusione della gelosia del soggetto […]. Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità», impermeabilità che contribuisce in modo determinante alla trasformazione di ogni istante della vita «in un veleno che esaspera il suo amore o il suo odio o la sua gelosia (termini, questi, intercambiabili) e corrode il suo cuore» (S. Beckett, Proust, SE, 2004, pp. 41-42).
Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che non potrà mai conseguire alcuna certezza poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’Altro distende il proprio corpo negli anni.
Ed è questo che la splendida voce del soprano Laura Fabris ci racconta in un brano dolce e struggente come può essere la nostalgia del paradiso perduto.

 

Fatti / Interpretazioni

Mente & cervello 108 – dicembre 2013

M&C_108Provate a guardare con attenzione la copertina qui a sinistra del numero 108 di Mente & cervello. Che cosa notate? Lo scaffale di un supermercato. Certamente. Guardate  meglio e troverete dell’altro.
In filosofia esiste un segnale quasi sempre efficace per individuare la stanchezza teoretica o la subordinazione della filosofia stessa a esigenze esterne. Questo segnale è l’approccio ingenuo che presume di poter indagare una realtà assoluta. Il realismo insomma. Basta, infatti, tener conto della grande complessità del corpomente e delle sue relazioni con la materia nella quale è immerso e in cui consiste per rendersi facilmente conto che «quello che vediamo non è un’immagine fedele della realtà, ma la ricomposizione eseguita dal cervello di molti dettagli colti dagli occhi in rapida successione. E il modo in cui il cervello crea la realtà […] è fonte di innumerevoli inganni, o per lo meno di clamorosi errori di interpretazione» (M. Cattaneo, p. 3). Il corpomente non è una videocamera che registra qualcosa a essa esterno ma costituisce piuttosto una lampada che fa essere la strada mentre la illumina percorrendola. Ecco perché da scienziati e quindi anche da filosofi si può sostenere -come fa Cattaneo citando Enrico Bellone, entrambi fisici di chiara impronta scientista- che quanto definiamo realtà è una materia grezza plasmata dalla nostra percezione e ordinata dalla nostra attività cerebrale. Si può dunque concludere con serena razionalità che fatti e interpretazioni sono tra di loro inestricabili e dalla loro convergenza deriva la complessità -e anche l’interesse- del mondo. Se, infatti, «vedessimo effettivamente ciò che incamerano i nostri occhi, il mondo sarebbe un luogo confuso», che diventa ordinato perché quella umana «è una specie di cercatori visivi, costantemente a caccia di novità, di bellezza, di compagnia, di cibo e di significato» (M.C. Hout e S.D. Goldinger, 26 e 31); un elenco che mi sembra sintetizzi bene gran parte di ciò che siamo: dispositivi semantici.
Lo dimostra anche la memoria, che è sempre dinamica, cangiante, creativa, ermeneutica per l’appunto. Lo studio delle strutture mnemoniche del cervellomente è tra gli ambiti più aperti e più difficili, nel quale le interpretazioni sono diverse e interessanti. Una di esse sostiene che «nel tempo, l’ippocampo insegnerebbe come rappresentare un ricordo alle parti circostanti del cervello: la corteccia. Quando il ricordo è maturo, l’ippocampo lo scaccia, ed esso va a risiedere nella corteccia. […] Una teoria alternativa spiega queste discrepanze proponendo che l’ippocampo immagazzini selettivamente un certo tipo di memoria -quella ‘episodica’- mentre la corteccia circostante ne immagazzinerebbe un’altra, quella ‘semantica’» (E. Reas, 102). Quando si torna a un certo ricordo esso viene trasformato, ricontestualizzato, ancora una volta interpretato. E questo è una conferma della dimensione e della funzione costruzionista, e non semplicemente rappresentativa, della vita mentale.
Una struttura così complessa non può funzionare sempre alla perfezione. Bizzarrie, errori, eccessi e tristezze sono parte ineliminabile e sana della vita. E invece la convergenza di interessi tra le case farmaceutiche e la pretesa egemonica della psichiatria sta medicalizzando la vita. L’ho scritto anche qui più volte ma adesso è uno degli stessi autori del Manuale Diagnostico Statistico -lo psichiatra Allen Frances- a denunciare tale gravissimo andazzo. Si assiste a una vera e propria «epidemia di autismo o di disturbo bipolare infantile, o nuove malattie inventate di sana pianta. La normale timidezza può essere ‘fobia sociale’, la tristezza che segue un lutto diventa depressione clinica» (M. Capocci recensendo Frances, 105)  e così via medicalizzando, prescrivendo farmaci e terapie, arricchendo gli innumerevoli avvoltoi che pretendono ci sia un solo modo di vivere una condizione mentale che dichiarano assoluta, mentre si tratta anche in questo caso e in gran parte di interpretazioni. Lo dimostra la diversa reazione che si può avere di fronte agli stessi eventi: «Chi non rumina e non si rimprovera per le difficoltà che deve fronteggiare presenta minori livelli di ansia e va meno incontro alla depressione, anche quando nella sua vita si sono verificati eventi negativi» (A. Oliviero, 18). Nei termini come di consueto chiarissimi di Schopenhauer: «Il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, p. 426). È in questa direzione semantica, prima che ermeneutica, che il mondo è un’interpretazione.

 

Realtà / Simulacro

Quanti pensano che si dia una realtà del tutto autonoma dalla semantica e dalla comunicazione non comprendono che il virtuale e lo spettacolare delle società contemporanee costituiscono  «il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine» (Guy Debord, La société du spectacle, Gallimard, 1992 [1967], § 34). Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene. Perché «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini»; soggetti ed eventi che non si fanno spettacolo è come se non esistessero, e questo fa sì che lo spettacolo non sia «un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale» (Ivi, §§ 4 e 6). La fine dell’illusione produce un mondo di immagini nel quale non c’è niente da vedere, un mondo di informazioni in cui non c’è nulla da sapere.

È rimuovendo la realtà/simulacro che diventa possibile comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere. Se la regola dello scambio è di restituire sempre più di quanto si è ricevuto, allora rendere il mondo un po’ più libero significa anche renderlo più inintelligibile di quanto non ci sia stato dato; significa sostituire alla realtà della comunicazione servile l’irrealtà di progetti che esistono tra il già e il non ancora; significa fare dell’interpretazione un luogo di invenzione trasformatrice che dissolva la realtà; significa, in un parola, non rassegnarsi. In questo modo il costruzionismo e l’ermeneutica mostrano la propria natura libertaria e più anarchica di qualunque ideologia realista, progressista e politicamente corretta, il cui umanitarismo è l’evidente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà: «Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere», in modo da legittimare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà» (Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina Editore 1996 [1995], pp. 143 e 137). È anche su questi ex rivoluzionari, che hanno barattato le loro giovinezze radicali con la solidarietà caritatevole dei clericali di ogni chiesa, che il potere fa affidamento e gongola tranquillo.

Lo spettacolo si rivela come una forma economica che «non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni» (La société du spectacle, § 66), una forma nella quale non troviamo ciò che desideriamo ma desideriamo ciò che ci inducono ad acquistare. Condizionati sin nell’intimo del loro pensare, inconsapevoli d’essere condizionati, vaganti tra illusioni, luccichii e menzogne, gli spettatori/consumatori sono il soggetto politico amorfo e passivo che Debord definisce con estrema chiarezza: si tratta di «morti che credono di votare» (Opere cinematografiche, Bompiani, 2004, p. 135), una morte che è consustanziale alle immagini che sopravvivono assai più a lungo di ciò che rappresentano. Ed è anche per questo che «lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente» (La société du spectacle, § 2). In questa società di zombie la democrazia è un simulacro. Il suffragio universale è diventato «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza», nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 2007 [1976], pp. 77 e 81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (Ivi, p. 79). Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (Ivi, p. 35). È esattamente quanto sta accadendo -anche con l’euro- negli anni Dieci del XXI secolo.

Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

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