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L’Altro

Recensione a:
Storia naturale dell’amore
di Domenica Bruni
(Carocci 2010, pp. 143)
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Vol. IX, numero 1, primavera 2018
Pagine 107-108

Innamoramento e amore sono due strutture naturali e culturali, innate e apprese, universali e differenziate. Ovunque e sempre l’amore è anche un conflitto tra i sessi. Ovunque e sempre, «l’amore sembra avere qualcosa in comune con il mistero più profondo, ossia con la fine dell’esistenza» (p. 93). Non soltanto, infatti, l’abbandono è un’anticipazione e una metafora della morte ma la struttura stessa del sentimento amoroso ha a che fare con il nulla, con l’«inesistenza dell’oggetto d’amore, il quale altro non è che una proiezione dei nostri desideri» (p. 93). L’universalità dell’amore è dunque la stessa universalità del morire. Le caratteristiche somatiche e mentali riassunte con chiarezza da Domenica Bruni descrivono efficacemente la relazione tra la passione amorosa, la fine per l’individuo di un’epoca e la rinascita in un mondo nuovo.
Per l’Altro si è disposti a cambiare abitudini e persino valori. Tutto questo crea una dipendenza emotiva foriera di ansia, di speranza e di disperazione. Tali caratteristiche non nascondono tuttavia, anzi confermano, che l’Altro è un oggetto ermeneutico verso cui si esercita una costante e minuziosa «ricerca di indizi», ricerca nella quale si esprime una «ipersensibilità verso i segnali che invia la persona amata per avere una conferma della reciprocità del sentimento» (p. 97).

 

Ermeneutica e linguaggio

Lunedì 14 maggio 2018 alle 10,00 nell’Aula A7 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania Dario Generali terrà un seminario a partire dal volume da lui curato L’idioma di quel dolce di Calliope labbro. Difesa della lingua e della cultura italiana nell’epoca dell’anglofonia globale (Mimesis, 2017).
Inserendosi nel dibattito in atto sulla funzione e identità dell’italiano come lingua di ricerca -e non soltanto di comunicazione- Generali sostiene, nel suo contributo al volume, che «la decisione di rendere anglofoni i livelli più alti della formazione universitaria e delle successive specializzazioni non può che determinare quella separazione, anche linguistica, fra gli studiosi e il resto della società, che Galileo e buona parte della scienza moderna hanno voluto superare scegliendo di utilizzare, nella stesura delle proprie opere, gli idiomi nazionali e non il latino, lingua universale del tempo.
Operare in tale direzione, oltre a rendere le lingue nazionali e, nella fattispecie, l’italiano, dei dialetti, abbandonerebbe la società civile alla subcultura massmediatica e commerciale, con conseguenze devastanti da tutti i punti di vista sul livello intellettuale, ma anche produttivo ed economico, della nazione» (p. 120).
Delegare ad altre lingue l’espressione della nostra cultura significa rinunciare alla nostra identità di umani collocati in uno spaziotempo ben preciso. È questa una radicale forma di colonizzazione, quella che non tocca soltanto le modalità economiche, le decisioni amministrative, le strutture politiche ma  giunge al nucleo stesso del nostro essere parlanti e dunque pensanti.

Innamorato

Ho inserito su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della seconda lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 6 aprile 2018.
Ho tentato di disegnare la cattedrale, il gelo, la bellezza, il sacro, l’amore, il tempo, la vibrazione, la scrittura, la gioia.
La natura temporale dell’amore fonda la logica tragica del desiderio.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo fatto di eventi e di memorie, assai più che il semplice corpo fatto di organi e tessuti, a trasfigurarlo nella favolosa e insondabile meta della nostra passione.
Irraggiungibile meta.
Meta foriera di angoscia, gettata nell’attesa, intessuta di gelosia, fatta di ricordi.
Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che nessuna certezza potrà mai conseguire poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’Altro distende il proprio corpo negli anni.
La vita appare in tal modo per quello che è in se stessa e agli occhi della Gnosi: un paradiso perduto, dal quale una qualche entità aberrante e maligna ci ha gettati nel tempo. E sta qui una delle ragioni per cui l’universo di Proust è senza morale, veramente al di là del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.
Per Proust la via d’uscita, l’unica, non è etica né psicologica. È la scrittura.
La scrittura ci libera dal dolore dei giorni e dei sentimenti per trasfigurare giorni e sentimenti nella parola soteriologica, nella parola che salva, che è gloria, che dà la gioia.
La Recherche può non piacere, si ha diritto a che non piaccia. Bisogna allora lasciarla.
La Recherche non può essere un’amica ma soltanto un’amante.
Quelle che ho balbettato sono le parole di un innamorato.

Terza lezione su Proust (20.4.2018)

Proust

Per alcuni allievi della Scuola Superiore di Catania terrò un breve corso (tre lezioni) dedicato alla Recherche, aperto a chiunque fosse interessato all’argomento.
La prima lezione si svolgerà venerdì 16.3.2018 nella stanza 259 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict, dalle 15 alle 17.30.
Condurremo una lettura trasversale della Recherche a partire da alcuni temi:
Letteratura e filosofia
Proust filosofo
L’umano come dispositivo di memorie e di oblio.

À la recherche du temps perdu è una galassia esplorabile all’infinito, la sua struttura «a nebulosa» (Deleuze) ne permette un’infinita interpretazione. Ogni sua lettura è quindi una sorta di riscrittura, di vita rinnovata dell’Opera. Anche la filosofia è un infinito intrattenimento con alcune delle domande fondamentali dell’esistenza: l’esserci, il tempo, la bellezza, l’amore, la verità, la morte.
Tra l’opera di Marcel Proust e la filosofia i legami sono costitutivi, profondi, illuminanti.

Heidegger a Bilbao

El Arte y el Espacio
Bilbao – Museo Guggenheim
Sino al 15 aprile 2018

Il 18 ottobre 1997 sorse sul fiume e tra le case di Bilbao questo sogno di pietra immaginato da Frank O. Gehry, fatto di curve, ellissi, parabole. Nessuna retta. Ricoperto di titanio splendente sotto il  sole che si fa cupo nelle sere. Gehry ha messo in costante movimento l’idea architettonica di Lloyd Wright, trasformando le linee razionali e pulite in una dinamica dialogante con lo spazio tutto intorno, con l’intera struttura urbana, con l’idea stessa -platonica- di luogo. Gehry ha così pienamente obbedito alla richiesta che la città di Bilbao aveva rivolto ai progettisti: «Un edificio che sarà maggiore della somma delle sue parti e avrà una identità iconica tanto potente da indurre le persone a visitarlo per se stesso, nel pieno rispetto comunque delle opere che vi saranno esposte».
Il risultato è che il Guggenheim è diventato Bilbao e Bilbao il Guggenheim. Un luogo in costante dialogo con la città e il suo fiume, un edificio dentro lo spaziostoria, un divertito tempio consacrato all’arte degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.
La prima opera -all’ingresso- è la nebbia che si alza dalle acque e che rafforza l’impressione che l’edificio sia una nave in movimento. Si entra poi nell’ampio e lungo spazio che accoglie The Matter of Time di Richard Serra. Potenti e magnifiche strutture geometriche nelle quali si penetra come nell’enigma, nel timore, nella gloria. Pur essendo pura opera spaziale, in essa vive il tempo come esperienza, non il tempo matematico. Un capolavoro bergsoniano.

Tra le altre opere permanenti, i Nine Discourses on Commodus (1963) di Cy Twombly, esempio tra i massimi di espressionismo narrativo, grumi di colore che narrano l’impero e l’assassinio di Commodo. E poi ancora Man from Naples (1982) di Basquiat, Barge (1962) di Robert Rauschenberg e la Marilyn seriale di Andy Warhol.
Tra le numerose mostre temporanee, sino al 15 aprile 2018 è da visitare El Arte y el Espacio, uno splendido esempio di dialogo tra la filosofia di Heidegger -in particolare il suo testo del 1969 Die Kunst und der Raum (l’arte e lo spazio, appunto)- e artisti come: Lucio Fontana con i suoi Concetti spaziali; Robert Gober con il piccolo ready-made Drain: la parte finale del tubo di un lavandino installato in verticale su una parete del museo; Damián Ortega che in Cosa cósmica ha trasformato un Maggiolino Volkswagen in efficace esempio di esplosione di un oggetto nello spazio, un’opera nella quale il vuoto conta dunque quanto il pieno.

Ma è soprattutto lo scultore basco Eduardo Chillida a dialogare con Heidegger. Le sue creazioni intendono infatti essere «las vibraciones de mente, cuerpo y mundo», essere dunque il Dasein, l’unità profonda di sé e di ambiente, di organicità e comprensione, di concettualità ed esistenza.

Questa mostra heideggeriana e l’intero Museo Guggenheim confermano che non esiste un luogo assoluto nel quale si nasce e si impara a vivere. Individui e collettività germinano da precise strutture linguistiche, comportamentali, narrative, urbanistiche, politiche e quindi ermeneutiche. L’ermeneutica non è una disciplina e neppure un metodo, è la struttura stessa in movimento dell’essere, compreso l’essere vivente. La φύσις viene infatti definita da Aristotele ἀρχὴ των κινήσεως καὶ μεταβολῆς, principio del movimento e del cangiare (Phys., Γ 1, 200 b 12). Moto e mutamento che del Guggenheim di Bilbao sono scopo, archetipo, struttura.

δικη

Una doppia verità
(The Whole Truth)
di Courtney Hunt
USA, 2016
Con: Keanu Reeves (Ramsey), Gabriel Basso (Mike), Renée Zellweger (Loretta), Jim Belushi (Boone),  Gugu Mbatha-Raw (Janelle)
Trailer del film

Chi è il serpente che striscia sulla strada in una delle scene iniziali del film? Il padre? Arrogante, violento, ricchissimo, decisamente antipatico? La madre? Modesta, sfuggente, vittima? Il figlio? Silenzioso, ostinato, contraddittorio? O qualcun altro? La consueta ambientazione dei film forensi, le corti di giustizia statunitensi nelle quali si forma la verità, rimanda agli altrettanto consueti racconti che ricostruiscono da diverse prospettive i fatti. Dall’incrocio tra fatti e interpretazioni emerge che the Whole Truth -l’assai più denso titolo originale del film- è quasi inaccessibile.
La cornice è classica, il ritmo sostenuto, i particolari rivelatori sono disseminati con cura, i punti di vista intrecciati nella loro differenza. Un film piacevole -niente di più- dal quale emerge la distanza tra la giustizia e la verità, tra l’Erinni e Dike. Anche da questo iato è scaturito il bisogno dell’ἀλήθεια.

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