«Perdono», «perdonare» sono parole prive di significato. Esse hanno infatti senso soltanto in relazione alla parola e al concetto di «colpa». Ma nessuno al mondo è colpevole; nessuno al mondo è responsabile di ciò che fa bensì di ciò che è. L’essere in un modo o nell’altro non dipende tuttavia dal soggetto ed è invece in relazione con la genetica, con l’ambiente, con l’innocente e insensata casualità della natura che getta i suoi dadi offrendo a uno gli occhi chiari e all’altro pupille scure. Così accade per il carattere che -ha ragione Eraclito- è il vero demone di ciascuno.
A chi si comporta in modo tale da farmi soffrire -agisce cioè in un modo che dal mio punto di vista è dannoso- io non posso poi offrire alcun perdono, per il semplice fatto che non c’è nulla da perdonare. C’è, semmai, da ricambiare con l’indifferenza, con il disprezzo, oppure colpendo a mia volta. Ma non, ribadisco, per ciò che l’altro mi ha fatto bensì per ciò che l’altro è, per il modo in cui è venuto al mondo, per il fatto stesso di essere venuto al mondo, rendendo in questo modo il mondo un po’ più triste. Ma l’altro, in quanto agente, non ha nessuna colpa. È innocente. Non posso quindi perdonarlo. «Operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari» (Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza 1988, p. 118).
Aa. Vv.
GIORNALE DI METAFISICA
Pluralità e interpretazione
Anno XXXIII (2011), nn. 1-2, Gennaio/Agosto
Tilgher, Genova 2011
Pagine 320
Plurale ed ermeneutico è per sua natura il linguaggio. L‘uniformità unificante vorrebbe invece ridurre la pluralità dei parlanti a una «globanglizzazione» (D .Di Cesare, p. 17) sostenuta anche di recente da ministri, funzionari e decisori politici italiani, i quali sono convinti che la lingua sia uno strumento qualsiasi, mentre invece essa è «l’organo che articola il mondo» (20), tanto che «anche il più sottile imporsi di una lingua, non è l’imposizione di uno strumento come un altro, ma è piuttosto, e più profondamente, l’imposizione di un modo di articolare il mondo» (23). È per questo che ogni monismo linguistico uccidendo le lingue consuma le differenze e invece che creare un «paradiso comunicativo» produce «l’inferno culturale e […] il trionfo della stupidità» (26).
Plurale ed ermeneutico è anche il prospettivismo nietzscheano, che non è una banale forma di relativismo proprio perché le opere di Nietzsche «forniscono dei criteri per discernere –ex negativo ed in positivo- il grado di validità delle varie prospettive» (S. Pastorino, 87). Si tratta di un prospettivismo vicino a quello che due fisici come Hawking e Mlodinow sostengono in un articolo pubblicato su Le scienze (dicembre 2010, p. 88), citato da P. Palumbo: «Non esiste un concetto di realtà indipendente da una teoria o dall’immagine che se ne ha. Adottiamo invece un punto di vista che chiamiamo realismo dipendente dal modello: l’idea che una teoria fisica o un’immagine del mondo sia un modello (in genere di natura matematica) con un insieme di regole che collegano gli elementi del modello alle osservazioni. Secondo il realismo dipendente dal modello non ha senso chiedersi se un modello sia reale, ma solo se concorda con le osservazioni. Se due modelli concordano con le osservazioni, nessuno dei due può essere considerato più reale dell’altro. Una persona può usare il modello più adeguato alla situazione che sta considerando» (138). Sono dei fisici, cioè dei veri scienziati, a mostrare l’ingenuità di non pochi filosofi tutti tesi a ‘naturalizzare’ sempre qualcosa: la mente, il linguaggio, la conoscenza. Ma che cosa è natura? Che cosa è realtà? La conoscenza umana passa sempre attraverso il corpomente che costruisce per se stesso percezioni, giudizi, significati. La materia è la materia della mente.
George Nolfi
The Adjustment Bureau
(titolo italiano I guardiani del destino)
Con: Matt Damon (David Norris), Emily Blunt (Elise Sellas), Anthony Mackie (Harry), Terence Stamp (Thompson), John Slattery (Richardson)
USA, 2011
Trailer del film
David Norris è nato nei quartieri operai di New York, ha dovuto vivere lutti e abbandoni, cerca e ottiene riscatto nella politica. Sta per diventare, infatti, senatore. Una fotografia goliardica e inopportuna sembra però bloccarne la carriera. Il giorno della sconfitta incontra Elise e per la prima volta dalla morte dei suoi familiari non si sente solo. Ma David non doveva incontrare questa donna. Lo esclude il Piano che il Presidente e i suoi collaboratori hanno stabilito per lui e per tutti. Al fine di riportare gli eventi sul loro predeterminato cammino, interviene l’Adjustment Bureau, entità apparentemente umane che hanno il compito di impedire deviazioni dal Piano. David deve lasciare Elise ma non si rassegna a questo destino.
Tratto da un racconto di Philip K. Dick, il film ha un impianto molto tradizionale nel quale però coniuga una comune storia d’amore con lo scarto costituito da uno dei temi radicali della filosofia: il determinismo. Il più rigido dei guardiani dice a David che gli umani non possiedono libero arbitrio ma hanno l’impressione del libero arbitrio. Affermazione del tutto vera. Solo che -contrariamente a quanto sostiene il film- il determinismo che intride eventi e processi non è voluto da nessuna volontà, da nessuna entità divina, umana, diabolica. Non esiste alcun Presidente o Burattinaio. Il determinismo di ogni pensabile e possibile accadere è dato dal convergere del carattere di ognuno (il demone del quale parla Eraclito) e della serie imperscrutabile degli eventi che precedono qualunque gesto e decisione di ciascuno e di tutti. Non potevo non scrivere queste parole e tu non potevi non leggerle.
Heidegger, i Greci, gli dèi
«Gli dèi dei Greci non hanno nulla a che vedere con la religione. I Greci non hanno creduto nei loro dèi. Una fede degli Elleni -per rammentare Wilamowitz- non esiste». Così Heidegger durante un seminario che tenne a Friburgo insieme con Eugen Fink (Eraclito. Seminario del semestre invernale 1966/1967, a cura di A. Ardovino, Laterza, 2010, p.16). È vero, i Greci non hanno una fede religiosa ma sono immersi nel divino come la Terra è immersa nella luce ed è circondata da tenebre sconfinate. L’immenso buio del dolore, dell’assurdo e della fine viene illuminato da quei frammenti di oggettività che sono le statue degli dèi, le loro epifanie, il loro materico apparire ed ergersi sullo sfondo dell’armonia dei templi e della potenza naturale. Questa è la “fede” dei Greci, in realtà un vedere e non un credere.
Fuoco
Da Eraclito a Tiziano, da Previati a Plessi
Milano – Palazzo Reale
Sino al 6 giugno 2010
«Il fuoco è il tempo fisico, questa irrequietudine assoluta, questo assoluto dissolversi del sussistente». Così Hegel a proposito di Eraclito (Lezioni di storia della filosofia, trad. di E. Codignola e G .Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. I, p. 316). Come il tempo, infatti, il fuoco plasma, distrugge, consuma gli enti e se stesso. Anche per questo in tutte le tradizioni, nei miti, nelle visioni politeistiche del mondo, il fuoco costituisce la vera divinità, la forma del suo enigma.
Adorato come Sole, fiamma, fenice, vulcano, energia; conservato dalle vestali e sempre acceso sino a che un imperatore cristiano -Teodosio- ne ordinò lo spegnimento nel 391, il fuoco è la luce stessa, la sua fonte, la sostanza, l’interrogativo. Regalandolo alla nostra specie, un Titano trasformò l’umano nell’inquietudine ibrida che siamo.
Questa mostra assai bella, pur se a volte un poco didascalica, costituisce un autentico spazio pagano che nelle sue varie sezioni testimonia di come le antiche credenze mediterranee avessero un profondo principio unitario -la luce, il fuoco- senza che questo le trasformasse in fedi esclusive ed escludenti. Le opere vanno da antichi vasi ciprioti con il simbolo solare della svastica ai quadri di Andy Warhol e Alberto Burri, passando per il Rinascimento, i fiamminghi, Canova, il Simbolismo e lo straordinario Prometheus di Arnold Böcklin.
Tra le testimonianze letterarie ricordate dai pannelli che costellano la mostra, due sono particolarmente significative. La prima si riferisce alla nascita del re Servio Tullio, la cui madre Ocrisia venne fecondata dal fuoco sacro uscito da una fiamma in forma di fallo alato. L’altra è tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, il quale afferma (XV, 392) che la Fenice
«si ciba non di frutta o di fiori, ma di incenso e resine odorose. Dopo aver vissuto 500 anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci s’abbandona sopra, morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi. Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice, destinata a vivere tanto a lungo quanto il suo predecessore. Una volta cresciuta e divenuta abbastanza forte, solleva dall’albero il nido (la sua propria culla, ed il sepolcro del genitore), e lo porta alla città di Heliopolis in Egitto, dove lo deposita nel tempio del Sole».
È anche questa immanenza del divino, la sua familiarità con la materia, il suo essere la materia, a costituire il fuoco sempre vivo del paganesimo.
La pace è un istante, la guerra è sempre. L’illusione della pace è il cadavere del pensiero. Il parmenidismo applicato ai rapporti umani -individuali e collettivi- è in realtà una necrofilosofia. La stasi è una consolazione per i deboli di cuore, per coloro che hanno timore della vita e del suo pulsare. Il tempo -il pólemos che scorre sempre e non si ferma mai- è per quanti accolgono la grandezza e il dolore del divenire. Certo, oltre il tempo si dà ancora essere. Ma è l’Indicibile.