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Spaziotempo

Quel che accade tra Einstein e la meccanica quantistica
il manifesto
17 agosto 2019
pagina 11

Ne Il concetto di spazio / The concept of Space. Il destino dell’uomo alla fine della metafisica (Loghìa, 2018) Gianluca Giannini conduce una densa riflessione sullo spaziotempo. Ho cercato di dialogare con le sue tesi dalla mia prospettiva temporale ed è stata anche un’occasione per sintetizzare alcuni concetti che i lettori di questo sito (e dei miei libri) conoscono bene.
Non c’è un tempo che precede gli eventi e nel quale gli eventi accadono ma l’accadere degli eventi è il tempo. Il quale non è soltanto un dato mentale come non è soltanto un’esperienza fisica. Il tempo è la differenza della materia nei diversi istanti del suo divenire ed è l’identità di questo divenire anche in una coscienza che lo comprende. La realtà consiste nell’accadere degli eventi nei diversi strati e strutture che compongono la materia. Strati che vanno dal puro sussistere fisico-chimico all’esistere come coscienza consapevole.

Grundlos

Martin Heidegger
Il principio di ragione
(Der Satz vom Grund , Günther Neske, 1957)
A cura di Franco Volpi
Traduzione di Giovanni Gurisatti e Franco Volpi
Adelphi, 1991
Pagine 275

«L’ente si mostra soltanto nella luce dell’essere» (p. 115) e questo significa che ogni discorso sugli enti, sugli eventi, sui processi, ogni domanda sulle cose, ogni analisi della vita quotidiana è sempre anche ontologia. Non potremmo pensare, parlare, dire senza pensare e dire sempre la struttura che fonda il mondo e gli enti, il mondo come relazione tra gli enti. Di converso, ogni ontologia è tale perché il discorso dell’essere si manifesta e non può che manifestarsi sul fondamento della molteplicità e del suo gioco, sul fondamento dunque degli enti.
Enti, fondamento, principio, sono alcune delle parole con le quali crescere per cogliere nel tessuto dell’ovvio e del confuso l’ordine, il senso e la luce che all’ovvio danno significato ed esistenza. Der Satz vom Grund è la formula che a partire da Wolff indica il principium rationis, il fatto che nihil est sine ratione, che  nulla è senza una ragione, senza un fondamento, qualcosa che lo fondi, gli dia esistenza e lo giustifichi. Alla lettera però, nel suo significato primo e più proprio, der Satz vom Grund  significa l’essenza del fondamento. Non la causa che dà origine alle cose ma il principio da cui esse si dipartono e dove risiedono, «l’ambito che sta in profondità e che al tempo stesso è portante» (164).
Il nucleo non consiste dunque nel fatto che niente è senza fondamento -che tutto dunque debba avere una causa- ma che niente è senza fondamento, che dunque il fondamento è l’essere. Heidegger fa transitare il principio wolffiano e leibniziano dalla causalità fisico-metafisica all’ontologia; da una modalità misurabile e quantitativa alla coappartenza universale di essere e fondamento. Der Satz vom Grund non vuol dire che l’ente ha un fondamento ma significa che l’essere in quanto essere è ciò che fonda ogni particolare e l’universale. «La tesi del fondamento dice: all’essere appartiene un qualcosa come il fondamento. L’essere è dello stesso genere del fondamento, ha il carattere del fondamento» (90-91). Il cuore dell’ontologia heideggeriana è questo: l’ente è tale in quanto è in qualche modo fondato, l’essere invece proprio perché non è un ente non ha alcuna fondazione ma è il fondare stesso.
Sta anche qui la differenza ontologica, risiede nel fatto che gli enti -qualunque sia la loro natura, forma, consistenza- sono fondati, mentre l’essere è grundlos, privo di fondamento. Il fondamento dell’essere è indisponibile, nel significato più ampio, pregnante e plurimo di questa parola. Indisponibile perché l’essere non può avere un fondamento che lo fondi e dunque l’essere è un abisso dal quale il fondamento ab-bleit, rimane-via. Indisponibile perché «l’essere ‘è’ il fondo abissale, l’Ab-Grund. In quanto l’essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso privo di fondamento. L’ ‘essere’ non rientra nel dominio della tesi del fondamento, bensì solo l’ente» (94).
E «questo è quanto dice il detto di Eraclito annoverato come detto 123: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. ‘Allo svelarsi appartiene un velarsi’. L’essere, in quanto destinarsi che si dirada, è, al tempo stesso, sottrazione. Al destino dell’essere appartiene la sottrazione» (123). Sottrazione=indisponibilità a  qualunque volontà, consapevole o meno, di una parte che si ponga come fondante il tutto e l’intero.
E però l’essere è pensabile e dicibile come complessità della struttura temporale del mondo, il suo costituire non l’istante matematico, l’ora assoluto che si dissolve nel momento stesso in cui accade ed è detto, ma il suo essere intessuto di ciò che sta per avvenire provenendo da quanto è già accaduto.
È anche questo il significato e il senso di αἰών. Aἰών è l’ordine temporale e materico dell’intero -l’ordine strutturale e funzionale della natura-, è razionalità che comprende tale ordine, è linguaggio che fluendo lo dice.
Aἰών è dunque κόσμος, φύσις, λόγος. In ogni testo di Eraclito traluce questa dinamica. Nel detto 52 lo fa in modo tanto enigmatico quanto conseguente: αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη. Il principio che fonda e governa l’intero è un fanciullo che gioca senza posa. E senza perché. «Gioca perché gioca. Il ‘poiché’ sprofonda nel gioco. Il gioco è senza ‘perché’. Il gioco gioca, giocando. Esso rimane soltanto gioco: il più alto e il più profondo» (192).
Indisponibile anche alle cause, indisponibile al dominio del principio di causalità, indisponibile al risultato, indisponibile all’utile. Gioca perché gioca. Diviene perché diviene. «Ma questo ‘soltanto’ è tutto, l’Uno, l’Unico. Niente è senza fondamento, Essere e fondamento: lo Stesso. L’essere, in quanto fondante, non ha fondamento: esso gioca come il fondo abissale, l’abisso senza fondo di quel gioco che, in quanto destino, ci lancia (zuspielt) l’essere e il fondamento» (192-193).
L’essenza del fondamento, der Satz vom Grund, è questo sfolgorare della gratuità, è tale infinita dinamica. Il fondamento dell’essere è il divenire. L’essere è divenire come gioco di identità e differenza. Se quod omnis veritatis reddi ratio potest, se di ogni verità possiamo e dobbiamo rendere ragione, istituire e spiegare il fondamento, la ragione dell’essere non sta in altro ma abita nella sua struttura più fonda, costante ed eterna: il suo stesso divenire.
L’essere si dà come αἰών, χρόνος e καιρός, come filigrana del tempo in ogni molecola della materia.

Persecuzioni

Sul numero 18 (Febbraio 2019) di Vita pensata è stato pubblicato un mio saggio breve dal titolo Le persecuzioni contro i pagani (pagine 5-12).

Nel tentativo di evitare la rimozione dell’Ara della Vittoria dalla curia del Senato romano, il prefetto Simmaco rivolse nel 384 al vescovo cristiano Ambrogio queste parole: «Eadem spectamus astra, commune caelum est, idem nos mundus involvit. Quid interest, qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum», ‘Contempliamo tutti gli stessi astri, il cielo è a tutti comune, un solo mondo ci circonda e contiene. Che importanza può avere per quale strada ciascuno cerca la verità? A svelare un così grande enigma non si giunge da un itinerario soltanto’.
I cristiani respinsero la richiesta e l’Ara venne tolta dal Senato. Pierre Hadot afferma che «queste stupende parole, che varrebbe la pena riportare a caratteri d’oro su ogni chiesa, sinagoga, moschea, tempio, in questo inizio di terzo millennio oscurato già dall’ombra di tremende dispute religiose, traggono probabilmente ispirazione -anch’esse- dall’aforisma di Eraclito», φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, l’essere abita nell’enigma. Una calma, una sapienza, una distanza che i testi ebraico-cristiani ignorano completamente e che costituì una delle ragioni delle spietate persecuzioni che i pagani e le loro opere subirono da parte dei Nazareni. Il paganesimo offre infatti la serenità dell’inevitabile e relativizza le pretese di assoluto. La grandezza del paganesimo sta nel sapere e non nello sperare. Anche per questo una rappresentazione adeguata del divino pagano sono i κοροι arcaici, il loro enigmatico sorriso.

Amleto

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Concerto per Amleto
da The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark (1600-1601)
di William Shakespeare
Drammaturgia Fabrizio Gifuni, con la consulenza musicale di Rino Marrone
Voce Fabrizio Gifuni
Direttore dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano: Rino Marrone
Musiche di Dmitrij Šostakovič: da Op. 32,  musiche di scena per l’Amleto di Nikolai Akimov e Op. 116, musiche per il film Hamlet di Grigori Kozintsev

La voce di Fabrizio Gifuni si fa anch’essa strumento, diventa solista che si staglia dentro le note ilari e tragiche di Šostakovič. Una voce capace di essere i personaggi della tragedia paradigma, dell’Orestiade rivisitata da Shakespeare con tutta l’interiorità e l’autocoscienza che i Greci per loro fortuna non avevano.
Il nichilismo che pervade Amleto non è infatti soltanto la sapienza che ben sa come «ogni cosa vivente è dovuta alla morte» (trad. di Luigi Squarzina, atto I scena II) ma è anche l’incertezza su cosa sia meglio, se l’esserci o il suo contrario, è il bisogno di una «felicità» capace di affrancarsi dal doloroso respiro «di questo mondo acre» (V, II).
Acre è infatti la vita. E non l’addolciscono né la vendetta né il perdono. La consola, alla fine, soltanto il silenzio sul quale Amleto si chiude senza potersi chiudere, rimanendo aperto al tempo fuori dai cardini, all’imprevedibile che sempre scompagina i piani degli umani, li ferma, li capovolge, li nega e li compie.
Ma c’è una potenza che tutta attraversa la vita, anche per Shakespeare, la potenza «capace di annientare se stessa e di condurre la volontà ad atti disperati, come nessun’altra passione umana» (II, I); la potenza che è la stessa in Medea come in Proust, al di là dell’abisso dei secoli; la potenza dell’amore e del desiderio dell’Altro che appare come promessa di luce e però come ombra svanisce nei sentieri del divenire.
Il concerto di Gifuni comincia premettendo qualcosa che nel testo shakespeariano non c’è ma che ben contribuisce a spiegarlo. Comincia con le parole di Eraclito sul tempo come αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη (detto 52), sull’umano come un giocattolo in mano al tempo/bambino, il quale si trastulla sulla scacchiera del mondo, dandogli ordine, senso, divenire e disfatta.
L’umano, «questa quintessenza di polvere», non piace al Principe di Danimarca (II, II). Se a ciascuno si desse secondo il suo valore, le frustate sarebbero secondo Amleto la ricompensa da ognuno meritata. Soltanto chi è in grado di porsi l’enigma e di non cercare illusioni, soltanto questi -forse- merita qualche luce. Il «dolce principe» (V, II), sin dall’inizio morente, ci ricorda ciò che siamo, ci canta la musica disumana del mondo.

Eraclito

Recensione a:
Eraclito: la luce dell’oscuro
a cura di Giuseppe Fornari
Olschki Editore 2017, pp. 294

in Giornale di Metafisica
Numero 1/2018
Pagine 363-365

Restituire a Eraclito la sua unità. L’unità di un poema che dalla descrizione del Tutto fa emergere la Città, il Divino, la Natura. È questo il tentativo che Serge Mouraviev conduce da decenni con rigore filologico e cura filosofica. Andando al di là del frammentismo, la sapienza dello σκοτεινός, dell’Oscuro, risulta ancora più evidente, integra, feconda. Mouraviev ricompone il trattato scritto da Eraclito, che ora è tradotto in italiano da Giuseppe Fornari con particolare attenzione a rendere nella nostra lingua la complessità teoretica e il vortice stilistico del testo eracliteo.
Uno dei libri di storia della filosofia più importanti e più belli che abbia letto.

Delphi

 

<E> la sibilla,
che con bocca delirante
proferisce cose non risibili,
privi di ornamenti e di aromi,
travalica con la sua voce i millenni,
per forza del dio.
(Eraclito, DK 92, trad. di  G. Fornari, Eraclito: la luce dell’oscuro, p. 28)

 

Consapevole della «Moira invincibile» (Iliade, XIX, 410), della forza di Ἀνάγκη, ma fiduciosa che un ordine razionale possa essere dato al mondo, Delfi onora Zeus Moiragetus, il dio signore del fato. E pone suo figlio al centro del tempio più grande, al centro dell’intero santuario, al centro dell’oracolo il cui Signore «οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει» (Eraclito, F 93), «non parla né nasconde, bensì suggerisce»1. Questo figlio, questo ἄναξ, questo signore di Delfi è Apollo, dio della conoscenza e dell’ordine ma anche della luce che acceca e del rancore che non perdona, la μῆνις. «Questa dualità di ordine e violenza nel carattere di Apollo Pizio a Delfi, come viene espressa attraverso le fonti relative alle origini del santuario, è una caratteristica importante del modo in cui i Greci concettualizzavano il ruolo di Delfi e di Apollo Pizio nel loro mondo, e rispecchia la dualità di centralità e conflitto che è il perno della vicenda di questa città nella storia antica»2 .
Apollo risiedeva a Delfi per nove mesi, poi si trasferiva in inverno presso gli Iperborei, lasciando il luogo sacro a Dioniso, suo fratello, in onore del quale venivano praticati riti segreti. Con un apparato di conoscenze storico-filologiche di gran lunga inferiori a quelle che possediamo oggi, Nietzsche aveva già compreso la natura dionisiaca di questo luogo, tanto da affermare che nel mondo greco «alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso»3.

L’oracolo di Apollo fu attivo per millecinquecento anni ma fu una soltanto delle varie e numerose attività che si svolgevano a Delfi: giochi, feste, incontri politici. Ciò che sappiamo di certo sull’oracolo e sulle altre attività si deve soprattutto a Plutarco, che nel I secolo d.e.v fu sacerdote nel santuario e scrisse molto su quanto in esso accadeva e sul significato di tale accadere. In ogni caso, però, «non ci è rimasto nessun resoconto chiaro e completo di come si svolgesse di preciso una consultazione dell’oracolo di Delfi, o di come giungesse alla sacerdotessa pizia l’ispirazione divina» (12). Sappiamo invece, tra le tante altre informazioni, che all’oracolo non venivano poste quasi mai delle domande su specifici fatti futuri ma degli interrogativi su come interpretare tali eventi e sul modo in cui viverli. Si trattava di un oracolo semantico e sociale: «Nel complesso, dobbiamo intendere la Pizia delfica non come un ‘servizio di predizione del futuro’, ma piuttosto come un ‘meccanismo per la creazione di senso’ ad uso di individui, città e comunità dell’antica Grecia» (28).
E questo fu possibile perché «il mondo greco era colmo di un ‘brusio costante’ di comunicazione divina» (23), un dialogo con le forze profonde -ctonie e celesti- talmente potente che, osserva giustamente Michael Scott, ancora oggi chi visita Delfi sente che «c’è una magia nell’aria, diversa da qualsiasi altro luogo io abbia visitato» (4).
Una potenza che fece di Delfi, specialmente dopo il felice esito delle Guerre persiane, il centro del mondo greco e che però la trasformò in uno spazio paradossale. Era infatti «un oracolo che godeva del rispetto di tutti, aveva secoli di autorità alle spalle ed era sede di un santuario sfarzoso, colmo di centinaia di monumenti offerti da tutto il mondo mediterraneo; ospitava gare atletiche e musicali apprezzate in tutta la Grecia; ed era gestito da un’associazione interregionale di città e Stati. Ma allo stesso tempo era una piccola comunità che viveva di espedienti, aggrappata sul fianco di una montagna della Grecia centrale» (128).
Una comunità che conservò sempre il rispetto costante e profondo della dominatrice del mondo, Roma. La quale non soltanto lasciò al santuario la sua autonomia ma lo arricchì di opere, ne finanziò l’attività, ne ammirò la sapienza e l’enigma. Tra gli imperatori che visitarono e amarono Delfi, il più immerso nel suo significato fu Adriano (in carica tra il 117 e il 138), il cui attaccamento alla città e le cui cure «rappresentano senza dubbio uno dei momenti culminanti della storia di Delfi» (203).

Cristianizzata e poi inabissata durante il Medioevo, Delfi rinacque a partire dall’Umanesimo, per diventare un sito fondamentale della ricerca archeologica internazionale. A distanza di millenni, Delfi riceve oggi ogni anno più di due milioni di visitatori ed è un luogo sul quale c’è ancora molto da indagare e da scoprire. «È un lavoro senza fine» (247) poiché Delfi è uno spazio di «accesso alla conoscenza, nonché di pensiero filosofico» (253), è un enigma che non smette di dire -al suo consueto modo- parole essenziali e segni/bagliori. Nel suo museo guarda ancora il mondo la sfinge dei Nassi (che vedete qui a sinistra), una scultura del VI secolo a.e.v.che raffigura un’entità che è «in parte essere umano, in parte mammifero e in parte uccello, che a sua volta rispecchia il mistero di Delfi stessa» (262).
«Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci […] ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro»4. Per toglierselo di torno la sacerdotessa Pannychis XI profetizzò a Edipo l’esito più inverosimile: che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. E tuttavia quell’oracolo si rivelò vero. Perché Apollo Pizio sorride. Sorride sempre.
È tale sorriso che ho percepito nello spazio e dentro di me quando ho visitato questo luogo senza pari.

Note

1. Così ben traduce Giuseppe Fornari a partire dall’esegesi di Serge Mouraviev, in Eraclito: la luce dell’oscuro, Olschki 2017, p. 28.

2. Michael Scott, Delfi. Il centro del mondo antico (Delphi. A History of the Center of the Ancient World, Princeton University Press, 2014), trad. di D.A. Gewurz, Laterza 2015, p. 38. I riferimenti delle successive citazioni da questo libro sono indicati tra parentesi nel testo.

3. F.W. Nietzsche, La nascita della tragedia, in «Opere» III 1, Adelphi, p. 145.

4 F. Dürrenmatt, La morte della Pizia, trad. di Renata Colorni, Adelphi, p. 9

Tenebrae responsoria

The Place
di Paolo Genovese
Italia, 2017
Con: Valerio Mastandrea (l’uomo), Giulia Lazzarini (la signora Marcella), Sabina Ferilli (Angela), Marco Giallini (Ettore), Rocco Papaleo (Odoacre), Alba Rohrwacher (Suor Chiara), Vinicio Marchioni (Luigi), Silvia D’Amico (Martina), Vittoria Puccini (Azzurra), Alessandro Borghi (Fulvio), Silvio Muccino (Alex)
Trailer del film

Dico subito che The Place è uno dei film più coinvolgenti ed esatti che abbia visto negli ultimi anni. Non vi succede nulla al di là della parola, del narrare che costituisce da sempre una delle ragioni di identità della nostra specie. Qui c’è un uomo che ascolta. Lo fa nell’angolo di un bar, prende appunti su un’agenda mentre persone gli manifestano i propri desideri. Lui è in grado di soddisfarli, purché gli obbediscano. Un patto faustiano che coinvolge un’anziana signora che vorrebbe veder guarire il marito dalla devastazione dell’Alzheimer, un poliziotto recuperare la refurtiva di una rapina, una ragazza diventare più bella, una moglie essere di nuovo voluta dal marito, un cieco riacquistare la vista, una suora ritrovare la fede perduta, un padre salvare il proprio bambino da morte imminente, un meccanico trascorrere la notte con la modella che sorride dai manifesti dell’officina, un figlio liberarsi del padre. A tutti l’uomo garantisce la realizzazione delle loro aspirazioni purché facciano ciò che loro chiede. Che è quasi sempre malvagio o inconsueto o estremo.
Non è lui, naturalmente, a decidere. Sono loro a farlo, in un continuo alternarsi del solista che suggerisce e del coro che risponde. E lo fanno sul crinale della necessità e della pietà, della passione e del calcolo, di un libero arbitrio sempre illusorio e di un demone interiore che li guida, li spinge, li fa volere, li determina. Infatti poiché «ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων» (Eraclito, fr. 119),  «l’uomo fa sempre soltanto ciò che vuole e pure lo fa necessariamente» (Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza 1988, p. 147) perché noi siamo sì in molte azioni liberi di fare ciò che abbiamo voluto ma non di volere proprio ciò che stiamo volendo.
Siamo dispositivi desideranti e sempre lo rimarremo finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore. Il desiderio, infatti, «ci pervade in ogni momento e nelle forme più diverse. Dalla brama verso gli oggetti alle ambizioni sociali, dalla conquista dei corpi altrui al possesso del loro tempo, dall’aspirazione a vivere ancora alla passione del vivere nella pienezza delle nostre soddisfazioni, il desiderio costituisce il motore sempre acceso della vita che pulsa e non si arresta mai. Essere corpo e vivere nel desiderio sono la medesima espressione della Zoé che ci impregna al di là del bìos delle nostre vite individuali, delle nostre specifiche volontà, della particolare modalità in cui il flusso di aspirazioni che siamo si colloca in un luogo e in un istante particolari» (La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, p. 260).
La radice di tale struttura è anche ambientale, psichica, relazionale, neuronale ma va oltre, molto oltre. E tocca la condizione di gettatezza del corpomente di ciascuno in un mondo labirintico e ferreo, nel quale le spranghe della necessità ci consegnano a un fantasma di libertà, allo spettro del bene, all’inganno della morale.
Ma il demiurgo malinconico, implacabile e potente di questo film si mostra anch’egli rinchiuso nei confini dell’oscuro, dai quali soltanto un angelo arriva a liberarlo quando tutto sembra essersi compiuto. «Credo nei dettagli» risponde quest’uomo a chi gli chiede in che cosa riponga la sua fede. Il dettaglio di uno spazio incomprensibile e geometrico. The Place è il luogo della Geworfenheit, dell’essere gettati in un mondo costituito di tenebra.

L’ascolto del II mottetto della terza giornata («Sabbato Sancto ad Matutinum») di Tenebrae Responsories di Tomás Luis de Victoria (1585) trasmette la malinconia di ciò che abbiamo perduto, della luce che intravediamo.

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