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Tra Omero e Bocca di Rosa

EtnaMusa Festival – Bronte/Difesa
Odissea un racconto mediterraneo
Il Ciclope /
Canto IX
Con Mario Incudine
Arrangiamenti, musiche e tastiere: Antonio Vasta
Progetto e regia: Sergio Maifredi
Produzione: Teatro Pubblico Ligure

Nell’ampia e panoramica sede dell’EtnaMusa Festival – da un lato il vulcano, dall’altro il tramonto sui Nebrodi – (e pur con ritardo sull’orario di inizio) sono risuonate ancora una volta le parole fondatrici dell’Europa, le parole del mito, le parole di Omero. Il canto IX dell’Odissea è stato interpretato, riscritto, reinventato dalle musiche e dalla recitazione di Mario Incudine e dalle traduzioni di Ettore Romagnoli, di Luigi Pirandello, di Camillo Sbarbaro. Traduzioni così diverse confermano l’universalità del poema, la sua natura aperta e sempre odierna, nel trascorrere dei millenni. Il limpido classicismo di Romagnoli, il turpiloquio che Pirandello mette in bocca a Polifemo, la musicalità di Sbarbaro si sono alternate alle note di Incudine e Vasta.
Conclusa la lettura del poema, il musicante Incudine e il musicista Vasta (questa la definizione che hanno dato di se stessi) sono passati a un repertorio di canzoni, tra le quali la più coinvolgente è stata la traduzione in siciliano di Bocca di Rosa diventata Vuccuzza di ciuri. 

Più sotto il testo della versione di Incudine e questi i link al brano su:

E qui la canzone di De André nell’esecuzione con la Premiata Forneria Marconi:

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Era chiamata vuccuzza di ciuri
faceva l’amuri, faceva l’amuri
e lu faceva di tutti i maneri
di ‘ncapu, di sutta, davanti e darreri.

Quannu scinniu a la stazioni
Di un paesiddu cca vicinu
Si n’addunarunu vecchi e carusi
Ca ugn’era un monicu né un parrinu

C’e cu lu fa picchì  ‘cci siddia
C’e cu ‘nveci si cci ni preja
Vuccuzza di ciuri ne l’unu ne l’autru
Ppi didda l’amuri è na puisia.

Ma la passioni unni ti fa ghiri
A fari li cosi ca fannu piaciri
Senza capiri su ‘u disgraziatu
È zitu, schettu o maritatu.

Ed accussì ca di oggi a dumani
Vuccuzza di ciuri unn’avi cchiu spassu,
mentri ca tutti ddi cani arraggiati
ci iettanu ‘u Sali a chiuirci ‘u passu.

Ma li cummari d’un paiseddu
Talianu ‘ntunnu e unn’hanu cchi fari
E mentri ca perdunu a corda e lu sceccu
Su rusicanu sulu l’ossa cc’o sali.

Si sapi ca ‘a genti duna cunsigliu
Sintennusi cumu Dominneddiu
Grapunu a’a vucca ma all ‘occurrenza,
un sanu diri mancu piu.

Accussi ‘na vecchia schittusa e acita,
senza né figli e senza cchi’u vogli,
si piglia’u culu a puzzuluna
e ghiva dittannu la so dottrina.

Si la pigghiava ccu li cornuti,
dicennuci a tutti mali paroli:
cu rubba l’amuri avrà punizioni
di carrabbunera e guardi riali.

Currerru tutti a parlari ch’à guardi
Ci dissiru senza menzi paroli
dda tappinara avi troppi clienti
Chiossà  di chidda ca vinni pani
E arrivarru quattru gendarmi
Ccu li cappedda e ccu li pennacchi
Arrivarunu ‘ncapu e cavaddi
ccu li pistoli e li scupetti

ma puru i sbirri e i carrabbunera
un fanu mai u propriu duviri,
ma quannu si misiru l’alta uniformi
l’accumpagnarunu alla stazioni.

Alla stazioni c’eranu tutti
dai guardi riali o sagristanu
Alla stazioni c’eranu tutti
Ccu l’occhi vagnati e ‘u cori in manu
A salutari cu ppi tanticchia
Senza pritenniri e senza aviri
A salutari cu ppi du jorna
Purtà l’amuri ne ddu quarteri

c’era un cartellu ranni
e l’occhi chini ‘i pena
dicivunu addiu vuccuzza di ciuri
ccu ti si ni và la primavera.

Ma na notizia di sta purtata
Un’avi bisugnu di carta stampata
Cumu lu metri e lu pisari
Fici lu giru di lu quartieri.
Alla stazioni ca veni d’appressu
C’è chiossà  genti di chidda ca lassu
C’e cu s’asciuca l’occhi di chiantu
Cu si prenota p’un momentu.

E puru u parrinu ca murmuriava
Si dici mutu ‘na santa orazioni
E sta Madonna china ‘i biddizzi
a voli accanto pp’a procissioni.
E cu la Vergini in prima fila
Vuccuzza di ciuri manu ccu manu
Si porta appressu ppi lu paisi
L’amuri sacru e chiddu buttanu!

Epica

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Misericordia
Scritto e diretto da Emma Dante
Con: Italia Carroccio (Bettina), Manuela Lo Sicco (Nuzza), Leonarda Saffi (Anna), Simone Zambelli (Arturo)
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo
Sino al 16 febbraio 2020

Qualunque sia l’ambiente, il tema, la vicenda -se una vicenda e un tema si danno– Emma Dante è il puro teatro dei corpi, della crudeltà, della misericordia, della lucidità, del riscatto, dello strazio, del «peccato originale dell’esistenza» (Elena Stancanelli, Programma di sala, p. 12).
Tre donne, tre puttane, tre fate si prendono cura di un ragazzino partorito da un’altra prostituta mentre lei moriva a causa delle botte inferte dal padre del bambino. Arturo è incapace di capire, ipercinetico, sorridente e spaurito, brutto. Poche sono le parole che si muovono tra questi corpi. Poche ma forti, intrecciate alla carne, ai capelli, alle calze, alle gonne, alla pelle, alla munnizza, ai canti, alla rassegnazione, al capire, all’eros, alla ferocia, alla morte, all’indecenza, all’altrove.
È teatro perché è danza. È teatro ed è danza perché è musica. È teatro danza e musica perché è uno sguardo sull’abisso della condizione umana. Il degrado è una metafora, la miseria è un segno, gli oggetti sono movimento.
Misericordia è puro langage, oltre ogni specifica langue e nella declinazione peculiare della parole che ciascuno riesce a dire muovendo nello spazio il corpo in cui consiste. Misericordia inizia infatti con il battere ritmico dei ferri delle donne che lavorano a maglia, continua con un parlottare di due di loro che è un puro significante senza significato ma proprio per questo di totale espressività, si declina poi nel palermitano, nel pugliese, nel somatico di Arturo. Si conclude con la parola dalla quale per gli umani tutto scaturisce e che invocano quando muoiono: «Mamma». Le tre puttane sono parche, moire, divinità che danno la vita e che precipitano ciascuno nella solitudine irrimediabile che è l’esserci.
Pura epica mediterranea. Meraviglioso.

[La foto di scena è di Masiar Pasquali]

Omero

Teatro Musco – Catania
Iliade
da Omero
Progetto, regia e interpretazione di Corrado d’Elia

Sulla scena del Teatro Musco abbiamo ascoltato Omero, il suo canto tradotto nella prosodia contemporanea, le urla dei guerrieri, il pianto e la notte. Il ritmo ripetuto e potente dell’Iliade è diventato voce, musica, percussione e slancio nel corpo di Corrado d’Elia.
Agamennone è sprezzante verso Achille perché, se questi è l’eroe, Agamennone è il sovrano. La risposta di Achille è colma di risentimento e di odio. Per i Greci la guerra volge verso l’oscuro, la distruzione e la catastrofe. Neppure il discorso suadente e razionale di Odisseo riesce a smuovere la determinazione di Achille a vedere puniti gli Achei. Sino a quando però l’amicizia perde i troiani, li perde l’amore di Achille per Patroclo, li perde l’urlo straziato alla notizia della sua morte, li perde Ἀνάγκη che aveva deciso da sempre, li perde la forza divina di Achille, il solo a poter colpire l’invincibile Ettore, li perde la stoltezza che fa entrare il cavallo tra le mura che nessun esercito per decreto di Apollo avrebbe mai potuto atterrare. L’urlo di Achille si placa soltanto al gesto di Priamo che non si vergogna di baciare la mano che gli ha spento il figlio pur di riavere il corpo di Ettore ancora da onorare.
Questi i momenti che d’Elia ha scelto di raccontare al modo degli aedi elleni, con la sua voce inframmezzata da ritmi musicali tribali e ossessivi, antichi. A ogni svolta decisiva del racconto il flusso delle parole si ferma, si sofferma e si installa in una parola soltanto, che emerge come uno scoglio nel mare impetuoso: male. «Questo è male». Male è il dolore d’esistere, che sia la passione per Briseide, il pianto senza luce di Achille, la furia verso il corpo ormai morto di Ettore.
Narrare senza sentimentalismi, compassioni e salvezze questo gorgo dell’umana esistenza è la gloria dei Greci. Nell’Iliade non c’è neppure un briciolo della decadenza nazarena e coranica. Per questo l’esistenza che vi si narra è epica, per questo il suo canto è così vero e d’Elia lo ha concluso ricordando quanto miserabili siano le stirpi degli umani «che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, / altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466).
Sino a quando cadrà l’ultima foglia, il canto di Omero sarà ancora un’eco di questo destino, sarà la sua luce.

Iliade

Le passioni che conducono gli Achei nella piana di Troia, a vendicare l’offesa recata da un figlio di Priamo a Menelao sovrano, saranno «anche in futuro, / per la gente di là da venire, materia di canto» (Iliade, trad. di Giovanni Cerri, VI, 358).

Che cosa narra tale canto? Narra degli umani che sono incapaci «di vedere insieme il prima e il dopo» (II, 343) mentre sapienza e saggezza consistono anche nel sapere «le cose che furono, sono e saranno (I, 70). Gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce (VI, 147-149). Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466). Ciò accade perché «gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, / vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni» (XXIV, 525-526). E dunque «non c’è niente di più miserevole di tutti gli uomini fra tutti gli esseri / quanti respirano e arrancano sulla faccia della terra» (XVII, 446-447).
Di tale condizione affannata, effimera e miserabile, l’Iliade mostra forme, ragioni e struttura. Esse si condensano nel  πόλεμος, nel conflitto che -afferma Eraclito- è padre di tutte le cose, di tutte è signore (fr. 53). La guerra intride qui tutto. È uno dei due archetipi che fondano la letteratura europea, l’altro è il viaggio, è l’Odissea.

La guerra. Rovinosa (κακοιο, II, 284). Terribile (κακόν, XIII, 225). Che fa ribollire il fiume Xanto «di spuma, di sangue e di morti» (XXI, 325), che eleva al cielo e ovunque «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (IV, 450-451 e VIII, 64-65). In questo poema i guerrieri muoiono a frotte, con estrema facilità, in poco tempo colpiti e annientati da chi è più abile di loro, vale a dire da coloro la cui mano è guidata dalla volontà di qualche dio. Guerrieri che non vorrebbero morire, che arrivano a temere la fine sino a fuggire, mandando in malora onori e obiettivi, «a tutti un tremore prese le membra, / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (XIV, 506-507). Morire, infatti, vuol dire andare nell’Ade, «dimora umida, spaventosa, di cui pure gli dei hanno orrore» (XX, 65)
Guerrieri la cui psyche facilmente li abbandona, uscendo dalle ferite aperte dal bronzo, lasciando soltanto una tenebra. Perché qui psyche non vuol dire per nulla anima o qualcosa di simile ma significa, semplicemente, la vita, l’indistinta unità del corpomente che esiste nello spazio e nel tempo. Guerrieri che piangono spesso, con voluttà, senza alcuna vergogna, come accade anche nel conclusivo dialogo tra Priamo e Achille: «Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore / piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, / mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa» (XXIV, 509-512). Un pianto che tutti accomuna e dopo il quale l’uccisore del figlio e il padre dell’ucciso gustano infine «il piacere di guardarsi l’un l’altro» (XXIV, 633).
Il conflitto è ovunque. Non soltanto tra nemici di stirpe e di terre ma anche all’interno delle stesse comunità, famiglie, tribù. Il risentimento e l’ira di Achille verso Agamennone sono ben noti. Meno lo è quanto Ettore dice a proposito del fratello Alessandro Paride, fonte per Ilio di tante sciagure: «Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore» (VI, 284-285). Odio e vendetta sono per queste culture realtà del tutto ovvie e naturali. E questo vale per l’intera Grecità, da Omero ad Aristotele, secondo il quale «vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi» (Retorica A, 9, 1367 a, 20).

Nell’Iliade la ferocia è continua. Non è davvero possibile definire i Greci ‘umanisti’ quando qui si descrivono come del tutto comuni i sacrifici umani -Achille sgozza sulla tomba di Patroclo dodici ragazzini troiani fatti da lui prigionieri a tale scopo: «Con me rallegrati, Patroclo, sia pure in casa di Ade: / perché manterrò tutto quello che poco fa t’ho promesso, / di trascinare Ettore qui e darlo crudo in pasto ai cani, / di sgozzare davanti al tuo rogo dodici figli scelti / dei Troiani, perché sono adirato che t’abbiano ucciso» (XXIII, 19-23)-, quando non c’è nessun rispetto per il cadavere di Ettore, che non soltanto viene trascinato ogni giorno da Achille nella polvere ma che gli altri guerrieri colpiscono ridendo -«eppure nessuno s’accostò senza colpirlo. / E così ciascuno diceva rivolto al vicino: ‘Ehilà, adesso a toccarlo è molto più morbido Ettore, di quando applicava alle navi il fuoco vorace!’» (XXII, 371-374; 1133), Ettore che da parte sua vorrebbe di Patroclo ucciso «issarne / la testa mozzata dal tenero collo sulla punta d’un palo» (XVIII, 176-177).

Non si può comprendere nulla di questo mondo distante e disumano se non si ricorda a ogni istante che tutti i personaggi dell’Iliade sono in mano al volere degli dèi. Tutti. La presenza e il potere dei Numi sono pervasivi e assoluti. A loro vengono ascritti meriti, colpe, esiti. Della sua ingiustizia verso Achille Agamennone afferma di non essere colpevole, poiché i responsabili sono «Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nel buio» (XIX, 87). Presaghi della fine del loro padrone, i cavalli di Achille dicono al loro signore che «certo, ti salveremo anche stavolta, Achille potente / ma t’è vicino il giorno fatale; e non siamo noi / i colpevoli, ma un grande dio e la Moira invincibile» (XIX, 408-410).
Moira ed Erinni, θάνατος καί μοῖρα κραταιή (XXIV, 132), ‘la morte e il duro destino’, sono i veri signori del poema. Più di Zeus, più di tutti gli altri immortali. Più di «Afrodite che ama il sorriso» (III, 424 e XXI, 40). Più di «Dioniso, gioia dei mortali» (XIV, 325). Più di tutti «gli dei che vivono lieti» (θεοί ῥεῖα ζῶοντες, VI, 138), «gli dei beati che vivono eterni» (θεοί ἀιεν ἐοντες, XXIV, 99). Signore della materia, della psyche e del mondo sono la Moira e «l’Erinni che vaga nel buio / […]  col suo cuore spietato» (IX, 571-572).

Chi combatte, domina e trionfa nella pianura sconfinata di Ilio? I guerrieri troiani e gli achei certo. Ma «erano in campo con loro la Furia, il Tumulto, la Morte funesta» (XVIII, 535).

Cunto / Musica

MI-TO Settembre Musica 2012
Piccolo Teatro Grassi – Milano – 12 settembre 2012
Carlo Magno.
Musiche per una leggenda


Interpreti

Mimmo Cuticchio, cunto

laReverdie
Claudia Caffagni, voce e liuto
Livia Caffagni, voce, flauti e viella
Elisabetta de Mircovich, voce, viella e symphonia

Mimmo Cuticchio è forse il più importante cantastorie del nostro tempo. La sua voce non racconta, la sua voce fa vedere. L’interminabile cunto di Pipino e della principessa Berta, della nascita di Carlo Magno, dei tradimenti dei magonzesi, delle fughe, dei nascondimenti, delle disfide, della gloria, assume in Cuticchio il sapore della meraviglia, poiché nel Medioevo «la nostra età riconosce la propria infanzia, il vero inizio dell’Occidente attuale» (J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi 1983, p. XIV). In questo cantastorie l’ironia della parlata palermitana si coniuga a momenti di tenerezza e soprattutto a una cadenza ritmica che trasforma i suoni verbali nella musica della battaglia.
La voce di Cuticchio è stata accompagnata dalle composizioni medioevali eseguite dall’ensemble laReverdie. Un viaggio vocale e sonoro non in altre epoche ma in quella favola per adulti che si chiama leggenda.

Baarìa

di Giuseppe Tornatore
Italia, 2009
Con: Francesco Scianna (Peppino Torrenuova), Margaret Madè (Mannina)
Trailer del film

baarìa

Mezzi imponenti, scenografie reali e digitali che descrivono Bagheria e la sua piana nell’arco di decenni, una folla di attori assai famosi ma disposti ad apparire solo per qualche minuto o anche meno, l’intenzione di raccontare con la stessa forza epica con la quale il pastore Ciccio Torrenuova declama i poemi cavallereschi e Ignazio Buttitta canta le proprie poesie, il giallo del latifondo come colore dominante, il sogno, il volo sullo spazio e sul tempo…

E tuttavia il film rimane inesorabilmente in superficie, nella frammentazione concitata di un racconto che enuncia in una scena chiave la propria poetica, quando un ragazzo scambia le figurine dei calciatori con pochi fotogrammi sottratti alla pellicola di celebri film. Non basta però citare da Leone, Rosi, Visconti, Fellini, se il narrare si limita a una serie -appunto- di scene e scenette che vanno dal sentimentale al grottesco. Un solo esempio: l’accenno alle cose viste e «da rizzari i carni» pronunciato da Peppino al suo ritorno da un viaggio in Unione Sovietica. Si ferma lì, come ogni argomento o tema toccato dal film.
Un momento davvero riuscito è verso la fine, quando i due bambini si incrociano nella corsa di ciascuno verso il futuro e il passato. Per il resto, Baarìa vorrebbe essere un’opera visionaria che risulta invece manieristica.

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