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Età

Manlio Sgalambro
Trattato dell’età
Una lezione di metafisica 
Adelphi, 1999
Pagine 130

Il fondamento metafisico di questo trattato è il fatto che la realtà, tutta la realtà, è distruzione. Esattamente «una distruzione continuata. […] È come se alla realtà corrispondesse (o qualcosa facesse corrispondere) quel minimo indispensabile affinché la ‘distruzione’ possa compiersi. L’individuo vive quel tanto che è necessario per morire. […] Le cose hanno quel tanto di realtà che consente loro di essere distrutte» (pp. 10-11). Un’affermazione del tutto corretta e lontana da ogni ‘pessimismo’ o atteggiamento ‘apocalittico’, come con chiarezza Sgalambro scrive nelle pagine finali: «‘Io non sono un apocalittico, ma un termodinamico’, afferma l’esponente della conoscenza tarda, lo spirito freddo, colui che abbiamo chiamato il ‘vecchio’; ‘La vecchiaia sopravviene per perdita di calore’, Stoicorum veterum fragmenta, B, f, 769» (106).
L’errore di Sgalambro sta nel rifiutare per questa dinamica fisica e metafisica il nome di divenire. Che «la realtà si disgreghi, non ‘diviene’. Non c’è divenire» (12) significa semplicemente chiamare in un modo diverso –disgregazione– la potenza della materia: la termodinamica appunto, l’entropia, il fatto che niente sia e tutto divenga.
Chiarita e rimossa questa opzione lessicale, il trattato va al nucleo reale del tempo e dell’età, che del tempo è un altro nome. Il tempo reale è per Sgalambro non il tempo vissuto, la durata interiore, il flusso di una coscienza, tutte forme queste di un tempo antropocentrico e come tale infimo e inferiore, ma il tempo «esteriore e trascendente […] tempo ‘inumano’» (16), il tempo della Φύσις, dell’intero, il tempo «di una roccia, o quello che si oggettiva nella scorza rugosa di un albero» (ivi), il tempo oggettivo, il tempo del cosmo:

Il tempo non serve a niente, ma siamo noi che ‘serviamo’ il tempo quando esso, dissoltasi la durata, sopravviene come tempo immutabile. Il tempo non va avanti né indietro. Il tempo è pieno ma di se stesso. […] Il tempo è della natura delle cose, non delle coscienze (122).

L’essere, il tempo sono dunque il κόσμος , o – come si esprime Sgalambro – il ‘sistema solare’. Il cosmo la cui legge è appunto la termodinamica, l’entropia, l’incessante distruzione e trasformazione di ogni ente, evento e processo.
Dentro questa ontologia gli umani e tutti i viventi sono poco più di niente, il risultato di una mescolanza di liquidi che produce qualcosa di simile alle feci:

Adorare le proprie fetide evacuazioni o i propri parti è la stessa cosa, metafisicamente parlando. […] Una malattia, un’infermità che la specie si procura semplicemente col riprodursi, viene ritenuta in maniera fuorviante il suo scopo eterno. […] Mia cara, noi sappiamo invece – vero? -che l’amore raggiunge il suo apice allorquando è ‘sterile’ (63).

Amore sterile che viene definito come «l’estrema purezza che si astiene dalla vita, che non dà seguito a questa orrida malattia!» (85). Il filosofo afferma di detestare «quell’atto genitale da cui germina la vita, anche se vi ho ceduto tante volte»1 (64) e formula una assai chiara valutazione della nostra specie:

Devo dire che la malattia più perversa, un flagello più iniquo della peste, è quella che si trasmette col seme e, generando, riempie di ‘dannati’ la terra. Questo è il virus più nefando. Portatori di questa infezione mortale sono coloro nei quali trionfa ‘rebellio membri genitalis contra imperium voluntatis’ Baio, De peccato originis et equa remissionis, cap. III (41-42).

A questo male si contrappone «l’uomo di conoscenza» (il modo in cui Sgalambro definisce il filosofo), in particolare il vecchio e la sua possibilità di un «amore tardo», fatto di parole e di conoscenza oltre che della calma forza del corpo e delle capacità delle quali è ancora intriso. L’amore tardo è in effetti il grande tema, insieme al tempo e alla vecchiaia, di questo trattato.
Gli umani sono amortali poiché «io non muoio, ripeto. Io sono amortale. La morte, la mia morte, è una fola raccontata per impaurirmi. È solo per gli altri che muoio. Sono essi che sanciscono la mia morte nello stesso tempo in cui affermano: è morto» (83). Se questo è vero per tutti i membri della specie, lo diventa in modo peculiare per il vecchio, al quale l’età aggiunge una identità teologica, sacra: «Il ciclo riproduttivo, quello lavorativo, quello sociale sono conclusi per sempre. La ‘vita’ è finita. Ora può cominciare a vivere. Ecco perché in ogni suo atto si coglie il numinoso, come se egli stesso fosse il numen» (110).
Significativo è che la saggezza antica e schopenhaueriana di Sgalambro riconosca tra i suoi maestri non soltanto Kant e Hegel ma anche un nome che in scritture e pensieri come questi fa l’effetto straniante di una luce proveniente da altre stelle: «Le Logische Untersuchungen, quest’opera che – voi lo sapete – è la pietra di paragone di ogni mia ambizione filosofica» (111).
Evidentemente Husserl insegna la filosofia anche a chi, come Sgalambro, pensa in forme e modi così diversi da quelli che Husserl definisce strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, e così somiglianti, invece, allo sfogo di un vecchio. Una filosofia che troppo risente di tale vecchiezza non nell’indicare con fermezza che il Sole morirà e che ogni conformazione delle cose è, appunto, «una distruzione continuata» ma nel non sentire che questa è una notizia luminosa, che questa è la verità.

Nota
1. In effetti non soltanto vi ha ceduto ma ha generato anche cinque umani, a conferma della separazione – da Sgalambro teorizzata – tra la vita e l’opera del filosofo; cfr. D. Miccione, «I molti nomi del filosofo», in Manlio Sgalambro. Breve invito all’opera, LetteredaQALAT, Caltagirone 2017.

Entropia

Arthur S. Eddington
La natura del mondo fisico
(The Nature of the Physical World, 1928)
Trad. di Charis Cortese de Bosis e Lucio Gialanella
Laterza, Bari 1935
«Biblioteca di Cultura Moderna»
Pagine 385

Dopo i secoli galileiani, nei quali il metodo della nuova fisica sembrava progressivamente oscurare ogni altra prospettiva sul mondo, la riflessione teorica e la pratica empirica hanno reso assai più complesso il rapporto, il legame e la differenza tra la filosofia e la fisica, mostrando in primo luogo l’assoluta ingenuità di ogni visione empirista della natura e delle scienze che la indagano. «La fisica», scrive Eddington, «lavora su di un mondo di ombre» (15). La ripresa dell’ipotesi atomistica e la teoria dei quanti hanno infatti separato il mondo della percezione da quello delle leggi fisiche. Confondere il reale con il concreto è un gesto non scientifico e non filosofico. L’ambito delle scienze contemporanee si mostra con chiari tratti di ‘irrealtà’ se per realtà si intende la dimensione empirica della materia.
Il tempo, concetto complesso e struttura invisibile, per Eddington «rappresenta meglio la realtà fisica che non la materia» (308). E tuttavia in un’affermazione come questa, certamente sensata, si esprime una dualità tra tempo e materia che va anch’essa superata.
Il tempo, infatti, rappresenta il tessuto più intimo della materia, quello di cui gli enti sono composti, compreso l’ente umano. 

Quando chiudo gli occhi e mi ripiego nel mio io interiore, mi sento DURABILE; non mi sento ESTENSIVO. È questo il senso del tempo che ci penetra direttamente, e che non esiste semplicemente nelle relazioni tra eventi esterni: lo spazio invece è sempre percepito come qualche cosa di esterno. È per questo che il tempo ci sembra molto più misterioso dello spazio: non sappiamo nulla della natura intrinseca dello spazio, e così ci è abbastanza facile concepirlo in maniera soddisfacente; abbiamo un’intima conoscenza della natura del tempo, e così esso sfugge alla nostra comprensione (73).

Il divenire è lo sfondo, la sostanza, la dinamica sia della mente umana sia del mondo intero. L’esistenza è comprensibile soltanto perché diviene e in quanto divenire. Che qualcosa ci sia significa che una parte della materia sta mutando rimanendo ciò che è. Comprendere tale dinamica vuol dire utilizzare con lucidità il dispositivo concettuale dell’identità che permane e della differenza che trasforma. L’essere è assoluta identità ed è assoluta differenza.
È anche per questo che la legge più importante della descrizione fisico-chimica del mondo è il secondo principio della termodinamica, il quale «deve, secondo il mio parere, considerarsi come il più grande contributo del secolo decimonono al pensiero scientifico» (127). Esso, infatti, «apre una nuova porta nel dominio della conoscenza, vale a dire lo studio dell’organizzazione; ed è in relazione a questa organizzazione che appaiono per la prima volta una direzione del corso del tempo e una distinzione tra ‘fare’ e ‘disfare’» (89).
Questa legge individua nell’entropia uno degli elementi fondamentali dei quali la materia è composta e con i quali il suo divenire va compreso. Partendo da uno stato iniziale di grande ordine, e dunque di stasi, la materia si esplica in un progressivo e crescente disordine. La misura di tale divenire del disordine si chiama entropia. Essa può quindi soltanto crescere. «La legge che l’entropia aumenta sempre -secondo principio della termodinamica- occupa, io credo, il primissimo posto fra le leggi della Natura» (96).
L’entropia è dunque l’irreversibilità stessa. Anche questa caratteristica rende fondamentale tale concetto/struttura per comprendere l’essere e l’accadere. Solo l’entropia segna la discontinuità temporale e rende dunque conto dell’effettivo accadere degli eventi e dei processi.
L’entropia è una delle forme essenziali del tempo, anche perché è la struttura che segna una differenza con lo spazio, il cui movimento rimane sempre reversibile mentre il tempo è pura irreversibilità: «Vi è una curvatura di esso per la quale l’Oriente una buona volta diviene Occidente, ma nessuna curvatura per la quale Prima divenga Dopo» (105).
L’entropia è anche molto altro.
È anche misura del caso, da intendere naturalmente non come arbitrio -e quindi irrazionalità- ma come progressivo ampliarsi delle potenzialità, delle varianti, della differenza. Il caso così inteso coincide ancora una volta con il tempo, poiché «l’effetto del caso è la sola cosa che la Natura non può disfare» (86).
L’entropia è anche evento mentale, al modo stesso degli arcobaleni, dei segni, delle costellazioni: «Ciò che è ordinato è oggettivo, come sono le stelle che compongono una costellazione; ma nell’associazione di queste stelle il maggior contributo è portato dalla mente che le contempla. Se il colore è una creazione della mente, anche l’entropia è la creazione della mente dello statistico» (119).
In quanto struttura del reale e manifestazione della mente, l’entropia è dunque la stoffa stessa del mondo. La sua stretta relazione con la coscienza ne esalta la funzione conoscitiva e la struttura universale. Giustamente quindi Eddington fa della coscienza «la via che conduce alla realtà e al significato del mondo, come è la via che conduce ad ogni conoscenza scientifica di esso» (383).
Il dualismo tra mente e natura viene così superato nell’identità/differenza che il tempo è.

Realtà / Illusione

Peter Coveney – Roger Highfield
LA FRECCIA DEL TEMPO
Viaggio attraverso uno dei grandi misteri della scienza
(The Arrow of Time. A Voyage trough science to solve Time’s greatest Mystery [1990])
Trad. di Aldo Serafini
Prefazione d Ilya Prigogine
Rizzoli, 1991
Pagine 458

Tra i non pochi paradossi che attraversano la fisica contemporanea, il più profondo ed enigmatico è probabilmente quello della irreversibilità. Esso consiste nel fatto che a livello microscopico-atomico i processi sembrano reversibili mentre a livello macroscopico-fenomenico l’irreversibilità di tutti i processi ed eventi è assolutamente evidente.
La più parte dei fisici cerca di risolvere questo fondamentale paradosso ignorandone o sottovalutandone uno dei corni, mediante strategie riduzionistiche che pongono una gerarchia metafisica tra microcosmo e macrocosmo a favore del primo. Il mondo degli atomi e delle molecole sarebbe dunque la realtà e il mondo degli enti, degli eventi e dei processi sarebbe una mera illusione soggettivistica. Salta subito agli occhi che si tratta di un dispositivo platonico, che distingue due livelli di realtà contrapponendoli in modo irriducibile e optando per il meno visibile, il più astratto, il più lontano dall’esperienza.
Gli antichi platonici e i fisici contemporanei utilizzano a questo scopo il medesimo strumento concettuale: il formalismo matematico. Tra i tanti linguaggi possibili nella descrizione dei fenomeni, essi ne assolutizzano uno soltanto, quello dei numeri. Ciò che non è riconducibile a tale linguaggio non ha valore. E tuttavia «se facciamo ricorso a dei modelli ultrasemplificati che cedono alle forti seduzioni della matematica, rischiamo di trascurare tutta la ricchezza del mondo reale; in particolare, se spogliamo le cose di certi loro aspetti esteriori, che si suppongono opachi, per mettere in luce i lineamenti “fondamentali” sottostanti, ci esponiamo al pericolo di smarrire l’essenza stessa del tempo» (pp. 315-316).

A mostrare l’errore di quanti negano il tempo è una delle leggi fondamentali della fisica contemporanea: il Secondo Principio della termodinamica. Esso descrive il comportamento degli aggregati di molecole e mostra quanto sia fallace ogni tentativo di spiegare il mondo a partire dalle sue componenti microscopiche: 

Anziché affermare che la freccia del tempo è un’illusione, dovremmo chiederci se non siano proprio le leggi ‘fondamentali’, simmetriche rispetto al tempo, a costituire delle approssimazioni o delle illusioni. In fin dei conti, sembra che esse siano applicabili soltanto a sistemi estremamente semplici (349).

L’eleganza di alcune formule matematiche è spesso un fatto estetico e non epistemologico; la semplicità delle strutture microscopiche non garantisce nulla sulla reale dinamica dei più vasti aggregati che le comprendono. Una prospettiva volta all’invisibile e che a partire da quest’ultimo definisce illusorio il divenire e il morire costituisce un pericolo assai grave per la scienza stessa, poiché la allontana dall’esperienza concreta, quotidiana, fenomenica del mondo. La realtà è incomparabilmente più complessa rispetto a qualsiasi formalismo matematico. L’irreversibilità è la più importante e pervasiva struttura della materiamondo e questo fa sì che noi umani e ogni altro ente 

viviamo in un mondo nel quale il futuro promette infinite possibilità e il passato sta irrimediabilmente alle nostre spalle. La freccia del tempo ha un’importanza essenziale per mantenere l’integrità della scienza. È il concetto creativo che ci permette di capire la vita. Solo riconoscendo tutto questo possiamo cominciare a riavvicinare intellettualmente la nostra umana esperienza e le nostre conoscenze scientifiche (350).

Se dunque la meccanica classica, la relatività e la meccanica quantistica descrivono il mondo attraverso equazioni indifferenti al segno temporale -le quali non distinguono tra la direzione verso il passato e quella verso il futuro- il Secondo Principio dimostra che in qualsiasi processo una parte dell’energia si disperde per sempre e non può più essere recuperata. Questa perdita sta alla base della freccia temporale che intride tutti i fenomeni ed essa può essere misurata con precisione mediante una grandezza definita entropia, la quale stabilisce la capacità di cambiamento di un sistema macroscopico isolato. Il Secondo Principio afferma che tale grandezza aumenta sempre e che quindi «lo stato futuro di un qualsiasi sistema isolato ha un’entropia superiore a quella del suo stato presente o del suo stato passato» (379).
Finché un sistema è in una condizione di non equilibrio dinamico l’entropia cresce. Quando essa non può più aumentare, il sistema ha raggiunto il suo stato di equilibrio termodinamico e di immutabilità, vale a dire di massimo disordine. Esso non può più mutare. Tale condizione coincide con la fine di ogni mutamento e dunque, per gli enti che sono vivi, con la morte, «quando il cadavere in decomposizione alla fine diventa polvere. La vita consiste in una molteplicità di processi (dalla divisione cellulare al battito cardiaco, dalla digestione al pensiero), ognuno dei quali può svilupparsi perché è lontano da uno stato di equilibrio» (184).

Auto-organizzazione, caos e divenire sono le condizioni stesse del mondo, dato che esso non costituisce una struttura piatta e sempre uguale a se stessa ma coincide con il divenire e il mutare di tutti gli enti dentro i processi che li comprendono e che gli enti contribuiscono a formare. In fisica il caos non significa confusione ma un diverso modo di dare ordine al divenire mediante l’imprevedibilità e la casualità, e dunque mediante una maggiore ricchezza di eventi.
L’intrecciarsi di ripetizione e imprevedibilità, di reversibilità e irreversibilità, di identità e differenza produce strutture temporali che sono insieme lineari e cicliche; dimensioni entrambe fondamentali nella struttura del tempo. Il Secondo Principio non implica nessuna ‘morte termica’ ma consente quella vera e propria ‘evoluzione creatrice’ della quale ha parlato anche Bergson. Il ‘perfetto stato di equilibrio termodinamico’ è bilanciato infatti dagli effetti gravitazionali, i quali implicano -dopo un tempo molto lungo- l’innescarsi di nuovi processi di non-equilibrio, i quali allontanano il sistema da ogni uniformità/identità per distendersi invece nella molteplicità/differenza.
Perché tutto questo ha a che fare con la termodinamica, vale a dire con la scienza che studia i rapporti tra calore e lavoro? Perché a causa dei processi dissipativi «quando il calore si riconverte in lavoro, esiste sempre uno spreco di energia. Una parte di esso si disperde» e questo «implica che tutte le trasformazioni dell’energia sono irreversibili» (174) e che dunque i processi naturali sono temporali. La crescita dell’entropia coincide con la stessa struttura temporale che intesse la materia, con il suo movimento in avanti, con la netta ed evidente differenza tra il passato e il futuro degli oggetti, dei fatti, della coscienza intrisa di ricordi di quanto è già accaduto e di attesa di quanto deve ancora accadere.
Il Secondo Principio afferma dunque la piena realtà dell’esistenza di tutte le cose, che coincide con la loro struttura temporale, poiché senza l’irreversibilità gli enti non potrebbero neppure esserci ed essere concepiti; il Secondo Principio garantisce anche la plausibilità di uno dei fondamenti dell’intera fisica, compresa quella relativistica, vale a dire il principio di causalità. «Solo in un mondo irreversibile», infatti, «le cause sono diverse dagli effetti, in modo da rendere possibile una narrazione logica degli avvenimenti» (346).
Al di là della matematizzazione relativistica e della meccanica quantistica, la quale nega la realtà oggettiva di tutto ciò che non può essere misurato -rischiando così di cadere in una forma di solipsismo matematizzante-, la realtà esiste come tessuto spaziotemporale del quale i singoli enti sono forma ed espressione. «L’esistenza obbiettiva della freccia del tempo non può essere negata. Se quest’idea esige una revisione di alcune nozioni scientifiche tradizionali, ben venga questa revisione» (307). In effetti, prendere sul serio una tesi che nega l’esistenza del tempo sarebbe come prendere sul serio una tesi che nega che io esisto.
Il contributo più importante del Secondo Principio alla comprensione del mondo e della materia è il superamento di uno dei dualismi che impediscono di cogliere la radice unitaria della realtà, il dualismo tra reversibilità e irreversibilità. La prima appartiene alla dinamica, la seconda alla termodinamica ma esse 

sono due facce della stessa medaglia. […] La struttura generale del mondo è assai più ricca di quanto il nostro linguaggio sappia esprimere e il nostro cervello sia in grado di comprendere. […] Il paradiso è retto da equazioni dinamiche reversibili e ‘atemporali’: il loro carattere semplice ne garantisce l’eterna stabilità. L’inferno è più vicino al mondo reale, nel quale regnano le fluttuazioni, l’incertezza e il caos. È un mondo instabile, che degrada verso l’equilibrio e la morte (332-333). 

Un equilibrio e un morire che si aprono sempre a nuove rinascite, poiché la materia è eterna; la materia è incomparabilmente più complessa di quanto le nostre ipotesi, equazioni, principi possano intendere; la materia è senza un inizio e una fine; la materia è l’Intero.

[L’immagine rappresenta una zona della nostra galassia a 25.000 anni luce dalla Terra]

Termodinamica

Ilya Prigogine
Dall’essere al divenire

Tempo e complessità nelle scienze fisiche
(From Being to Becoming. Time and Complexity in the Physical Sciences [1978])
Traduzione di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti
Einaudi, 1986
Pagine XIII-276

La potenza del pensiero matematico e idealizzante della tradizione platonica è stata interamente acquisita  e riverberata dalla fisica galileiana e newtoniana e pervade di sé anche i paradigmi -opposti a quello di Newton pur se incompatibili tra di loro- della fisica dei quanti e della relatività. L’ideale di un universo statico e senza tempo è tuttora un modello condiviso da molti fisici, sia che esso riguardi la struttura infinitesimale della materia sia che si riferisca alla struttura illimitata del cosmo. «Quando ci si avvicina alle scale relative ad oggetti molto piccoli (atomi, particelle ‘elementari’) o ad oggetti iperdensi (come le stelle di neutroni o i buchi neri), avvengono dei nuovi fenomeni. Allora la dinamica newtoniana viene sostituita dalla meccanica quantistica (che prende in considerazione il valore finito di h [costante di Planck]) e dalla dinamica relativistica (che comprende c). Tuttavia queste nuove forme di dinamica, in sé estremamente rivoluzionarie, hanno ereditato dalla fisica newtoniana il suo ideale di un universo statico, un universo di essere senza divenire» (p. 15).
Meccanica classica e meccanica quantistica non sono errate ma parziali. Esse costituiscono infatti forme e formule idealizzate rispetto sia all’effettivo divenire della natura sia ai processi termodinamici che la intessono. Nel mondo che osserviamo, nel mondo empirico, nel mondo naturale che possiamo indagare e che indaghiamo con una varietà molto complessa di strumenti, la natura è asimmetrica rispetto al tempo. L’irreversibilità è la regola, la reversibilità è l’eccezione. La termodinamica ipotizza e mostra che tale stato di cose non è frutto soltanto delle modalità con le quali una mente consapevole guarda e misura la materia ma è anche intrinseca alla materia stessa e dunque che «l’esistenza di leggi orientate rispetto al tempo, quali l’aumento di entropia verso il futuro, implica per questi sistemi l’esistenza di stati orientati rispetto al tempo» (224). L’irreversibilità è una legge della termodinamica poiché il tempo è una condizione stessa della materia.
Secondo Eddington le leggi primarie controllano il comportamento di singole particelle elementari, le leggi secondarie si applicano invece a insiemi di atomi e di molecole. Ma questa distinzione è corretta se viene intesa nel senso che «la struttura delle equazioni del moto, con la ‘casualità’ al livello microscopico, emerge allora come irreversibilità al livello macroscopico» (183) e non nel senso che l’entropia sia da limitare soltanto alla dimensione macroscopica. Non è dunque vero che l’irreversibilità emerge a livello macroscopico da dinamiche del livello fondamentale della natura che sarebbero invece reversibili. La seconda legge della termodinamica costituisce piuttosto una delle più efficaci e potenti manifestazioni dell’unità della natura, la quale produce grandi differenze ma sempre sul fondamento di alcune strutture profondamente unitarie. Le cosiddette ‘particelle elementari’ sono in realtà oggetti complessi, nei quali il tempo svolge un ruolo molto significativo e «profondamente radicato nelle fluttuazioni del livello microscopico, dinamico» (8). E questo anche perché il tempo non è un semplice parametro, come presupposto dalla dinamica, ma è anche un operatore, esattamente al modo di quelli che nell’ambito della meccanica quantistica descrivono le quantità. La distinzione tra la natura non umana -caratterizzata da processi reversibili- e quella umana, fatta di irreversibilità, è l’ennesima espressione di un antico dualismo, che una comprensione più ampia e unitaria cancella.
L’unità della natura e l’unità della scienza che la studia coincidono in gran parte con l’unità dei processi temporali che pervadono sia la materia, sia la parte di materia che indaga se stessa: noi. «La seconda legge della termodinamica esprime la nostra appartenenza a un universo in evoluzione» (XIII). Il tempo spiega le dinamiche psicologiche come quelle cosmologiche, le strutture sociali e le strutture molecolari. Tutti i sistemi viventi, anche i più semplici, possiedono una direzione del tempo. Essi si sviluppano, decadono e muoiono. La teoria delle strutture dissipative contribuisce a indagare le diverse modalità con cui questo avviene. Ma questo avviene, appunto. La direzione del tempo si trova «nelle stesse basi della fisica e della chimica. A sua volta questo risultato giustifica in maniera autoconsistente il senso del tempo che noi possediamo. Il concetto di tempo è molto più complesso di quanto pensassimo» (7), per meglio dire di quanto metafisici atemporali e fisici sia classici sia relativistici abbiano immaginato.
La seconda legge della termodinamica mostra la realtà del mutamento, distingue il passato dal futuro, fa del tempo una variabile intrinseca dei sistemi fisici. Si tratta di una legge molto complessa, scoperta in ambito chimico (da Boltzmann) come misura del disordine molecolare e quindi  come crescita della disorganizzazione nei sistemi. In ambito biologico e sociale -dove il ruolo dei processi irreversibili è fondamentale e palese- la seconda legge conduce invece a un aumento della complessità e quindi dell’ordine. L’attività degli enzimi nei composti non è un’evoluzione verso il disordine molecolare ma il contrario. L’esistenza di collettività umane -di qualunque misura- non sarebbe possibile senza un aumento di complessità associato alla crescita dell’organizzazione. Se siamo in grado di attribuire un’età -approssimativa, certo, ma non implausibile- agli individui come ai luoghi è perché non nei singoli elementi di un corpo o di una città ma dal loro insieme unitario emerge l’elemento temporale. E questo è possibile soltanto perché la struttura interna della nostra percezione e del nostro essere e la struttura esterna della materia naturale e artificiale condividono alcuni processi fondamentali, che sono processi  temporali.
Biologia e geografia sono espressioni di una temporalità che è insieme sia corporea sia coscienzialistica, sia naturale sia culturale. Ecco il problema, la cui stessa formulazione è densa di implicazioni metafisiche:

L’interpretazione classica della seconda legge era che essa esprimesse l’aumento del disordine molecolare. Nella formulazione di Boltzmann, l’equilibrio termodinamico corrisponde allo stato di massima ‘probabilità’. In biologia e in sociologia, però, il significato fondamentale dell’evoluzione era esattamente l’opposto: essa descriveva delle trasformazioni che portavano a livelli di complessità sempre maggiore. Come si possono mettere in relazione questi vari livelli del tempo? Il tempo moto usato in dinamica, il tempo connesso all’irreversibilità della termodinamica, il tempo storia della biologia e della sociologia? Chiaramente non è cosa facile. Eppure viviamo in un unico universo. Se vogliamo ottenere una visione coerente del mondo in cui siamo inseriti, dobbiamo trovare qualche strada per passare da una descrizione all’altra (4).

Se l’irreversibilità è un dato pervasivo della materia e se la distinzione tra passato e futuro è un precategoriale, «un tipo di concetto primitivo in un certo senso antecedente all’attività scientifica» (190), allora per comprendere come è fatto il mondo e come ci appare, bisogna transitare da una fisica e una metafisica dell’essere a una fisica e una metafisica del divenire. Già Aristotele aveva ben compreso che il tempo -come l’essere- si può dire in molti modi. Il tempo è certamente kinesis, movimento reversibile formulabile nel linguaggio della dinamica, ma è anche metabolé, movimento irreversibile di trasformazione formulabile con il linguaggio della termodinamica. L’uno non esclude l’altro, che invece si impiccano reciprocamente perché la complessità della natura va molto oltre il potere formalizzante dei linguaggi scientifici e filosofici. «Il caos dà origine all’ordine» (132), la maggior parte dei sistemi sufficientemente complessi costituiscono delle strutture non soltanto statiche e non soltanto divenienti ma metastabili, nel senso che in esse convivono reversibilità e irreversibilità, determinismo e probabilità, tempo ed eternità.
La fisica e la metafisica non sono più i saperi dell’immobilità, del nunc stans, della verità logica opposta alle apparenze, ma vanno sempre più diventando i saperi capaci di coniugare il tempo come divenire -χρόνος- – e il tempo come eternità -αἰών, poiché il tempo è anche l’unità degli opposti, è il coniugare le differenze mantenendole come differenze. La questione cosmologica è il luogo -alla lettera- nel quale la complessità del tempo si manifesta in tutta la sua ricchezza anche come durata del presente, che non è affatto il non-luogo della tradizione agostiniana e neppure soltanto il pur importante Specious Present di Clay e James ma è anche e soprattutto la materia densa di strutture molecolari della termodinamica:

Vediamo come è mutata drasticamente la descrizione del tempo se la si paragona con la rappresentazione tradizionale in cui si riteneva che il tempo fosse isomorfo a una linea retta (cfr. figura 10.8) precedente dal lontano passato (t → -∞) al lontano futuro (t → +∞). Il presente corrisponde allora a un unico punto che separa il passato dal futuro. Il presente viene fuori, per così dire, dal nulla e scompare nel nulla. Inoltre, essendo ridotto a un punto, esso è infinitamente contiguo al passato e al futuro. In questa rappresentazione non v’è distanza fra passato, presente e futuro. Al contrario, nella nostra rappresentazione, il passato è separato dal futuro da un intervallo misurato dal tempo caratteristico tc : possiamo parlare della durata del presente. È interessante come molti filosofi -Bergson, Whitehead- abbiano sottolineato la necessità di attribuire al presente una durata incomprimibile di tal genere. L’uso della seconda legge come principio dinamico porta precisamente a questa conclusione, e porta pure a una nuova non-località dello spazio. (213-214).

Prigogine riconosce in modo esplicito il contributo che alcuni filosofi -Bergson, Whitehead e Heidegger- hanno dato alla descrizione del cosmo e della materia come strutture in divenire, intrise di spaziotempo che produce materia e dalla materia è generato. Una temporalizzazione dello spazio per la quale ogni ente è anche un evento, ogni struttura è anche un’attività. Al pari di molte posizioni metafisiche, anche la fisica ha abbandonato ogni ingenuo realismo e si è data il compito di indagare e descrivere la complessità della quale quale siamo parte e che ci oltrepassa. La non-commutatività che rende impossibile uno stato nel quale la coordinata q e la quantità di moto p posseggano valori contemporaneamente ben definiti ha contribuito «a scuotere i fondamenti galileiani della fisica. Essa ha distrutto la convinzione che la descrizione fisica sia realistica in un senso ingenuo» (53).
Il mondo è diventato ai nostri occhi molto più incerto, fluttuante, diveniente, probabilistico, irreversibile. Il paradigma eleatico per il quale tutto è immobile nella sua perfezione, il paradigma platonico per il quale il gorgo del tempo è immagine mobile di un modello atemporale, costituiscono delle magnifiche costruzioni della mente razionale. Che però in quanto razionale deve anche misurarsi con l’esperienza empirica, biologica, sociale delle costruzioni individuali e collettive. Esperienza insieme psichica e materica, alla quale la termodinamica e il divenire offrono tutta la potenza di un mutamento inscritto nelle molecole, di un tempo che coincide con l’essere di tutte le cose possibili e pensabili. 

Materiatempo

Questo mese non presento un libro ma una voce tratta da quella fonte ricchissima di conoscenza, non sempre apprezzata come merita, che è l’Enciclopedia Einaudi. Opera pubblicata alcuni decenni fa ma dalla struttura fortemente innovativa, un’opera critica che ha ancora molto da insegnare. La voce che presento è stata redatta da Francesco Guerra e analizza due concetti -reversibilità e irreversibilità– fondamentali per ogni epistemologia e filosofia del tempo.

Francesco Guerra
Reversibilità / Irreversibilità
in Enciclopedia Einaudi
vol. 11, «Prodotti-Ricchezza»
Einaudi, 1980
Pagine 1066-1106

Un mondo «elementare» è quello nel quale è possibile la reversibilità della struttura temporale. Ed è soprattutto un mondo virtuale, formale, matematico. A questo tipo di mondo – evidentemente soltanto concettuale – si riferiscono infatti le leggi della dinamica, invarianti per inversione temporale. Appena la materia, il suo essere il suo ordinarsi il suo operare, divengono di pochissimo più complessi, tali leggi non valgono più. Questa voce dell’Enciclopedia lo dimostra in modo evidente proprio per la sua neutralità epistemologica. Basta infatti descrivere la realtà per come si dà nella materia formata e non nella materia pura delle leggi matematiche per comprendere che 

per tutti i processi fisici macroscopici irreversibili, come quelli legati ai fenomeni di attrito, di viscosità, di diffusione, di conduzione del calore, ecc., le corrispondenti leggi fenomenologiche non sono invarianti per inversione temporale. Così per esempio, l’attrito e la viscosità si oppongono sempre al moto dei corpi e al flusso dei fluidi e mai li agevolano, le sostanze in soluzione diffondono spontaneamente dalle zone a concentrazione più alta  verso quelle dove la concentrazione è più bassa e mai viceversa, se si pongono a contatto corpi a temperatura più alta verso quello a temperatura più bassa, mentre non accade mai che il corpo a temperatura più bassa si raffreddi ulteriormente cedendo spontaneamente calore a quello a temperatura più alta. Pertanto una ben definita unidirezionalità temporale può essere associata a tutti i processi macroscopici che coinvolgono fenomeni dissipativi (p. 1068).

Legata fortemente alla struttura della materiatempo è una misura che riguarda l’energia e le sue trasformazioni: l’entropia. Essa indica la misura delle trasformazioni spontanee che si verificano nella quantità di energia dentro un sistema sottoposto a un cambiamento termodinamico: temperatura, pressione, volume. L’entropia indica quindi l’aumento del disordine molecolare dentro un sistema chiuso. I cambiamenti entropici sono irreversibili (le molecole del caffè e quelle del latte una volta mescolate in un’unica tazza non torneranno mai al loro stato iniziale di separazione) e fanno del tempo non soltanto una funzione della mente ma anche e soprattutto una struttura della materia. L’unidirezionalità temporale è infatti

in ultima analisi connessa con una importante legge fisica, di validità generale, nota come legge di accrescimento dell’entropia, che può essere posta alla base del secondo principio della termodinamica. […] Anche i processi che avvengono nel nostro organismo, in particolare quello di memorizzazione, sono associati a un inevitabile incremento dell’entropia (Ibidem).

La memoria, certo, ma direi soprattutto i processi che chiamiamo invecchiamento e morire.

Si ha quindi in definitiva che la legge di accrescimento dell’entropia, in quanto legge fisica generale che traduce l’irreversibilità dei processi macroscopici, induce una differenza qualitativa tra eventi passati ed eventi futuri, che viene da noi interpretata come flusso direzionale irreversibile del tempo stesso. Si viene così a riconoscere che in ultima istanza il secondo principio della termodinamica, con la sua legge di accrescimento dell’entropia, deve essere considerato alla base della nostra concezione psicologica ed empirica del carattere irreversibile del tempo e quindi del concetto stesso generale di tempo anche nelle sue implicazioni storiche e filosofiche (Ibidem).

Se il primo principio della termodinamica afferma che in tutti i processi che avvengono in natura l’energia viene conservata, il secondo principio chiarisce e delimita il primo nelle possibilità e nella realtà delle trasformazioni. Tale principio

può essere basato o sulla trasformazione di Clausius, secondo cui non è possibile realizzare dispositivi in grado di trasferire calore da un corpo più freddo a un corpo più caldo senza che altri effetti siano prodotti, oppure dalla formulazione di Thompson (Lord Kelvin), secondo cui è impossibile costruire un perpetuum mobile di seconda specie, cioè un dispositivo che, funzionando in maniera ciclica, produca come unico effetto la trasformazione del calore estratto da una sola sorgente completamente in lavoro. Non è difficile mostrare l’equivalenza delle due formulazioni. Anche qui si osservi che, per esempio, la formulazione di Clausius, secondo cui non è possibile che il calore fluisca spontaneamente da un corpo più freddo a uno più caldo, introduce ancora una sostanziale irreversibilità nella descrizione temporale dei fenomeni (1075).

Proprio a causa della struttura dissipativa della materia e dell’energia, durante i processi di trasformazione da uno stato di equilibrio a un altro l’entropia non può diminuire ma può soltanto crescere oppure, quando non sono in atto processi, rimanere stazionaria.
Il divenire, il calore – e dunque l’energia -, l’irreversibilità sono strettamente collegati tra di loro. Si potrebbe dire che costituiscono la natura stessa, la struttura profonda del reale. Il ‘principio zero’ della termodinamica può infatti essere enunciato in questo modo: «Se due sistemi separatamente in equilibrio, isolati adiabaticamente dall’esterno (tali cioè che non possono scambiare calore con l’esterno), sono posti in contatto termico, allora i loro stati di equilibrio non sono alterati, e il sistema totale si trova in uno stato di equilibrio, solo se i sistemi iniziali hanno la stessa temperatura» (1074).
Un conflitto così grave tra le strutture reversibili delle leggi elementari microscopiche del moto e quelle irreversibili dei processi macroscopici dissipativi ha indotto molti fisici a cercare una soluzione che possa salvare entrambe le prospettive. A partire dall’opera fondamentale di Ludwig Boltzmann (1844-1906) la soluzione è stata individuata nel concetto di probabilità. Un concetto di carattere statistico per il quale i principi della termodinamica «non hanno validità assoluta e illimitata ma devono essere intesi come validi con altrettanta probabilità» (1069). In sintesi: «La reversibilità microscopica porta quindi ad un’altamente probabile irreversibilità macroscopica» (1095).
Domanda: ma che cosa c’è di così certo – e non di probabile – nel mondo come il semplicissimo fatto che un bicchiere andato in frantumi non si ricomporrà mai spontaneamente? Niente. E questo banale esempio si potrebbe naturalmente moltiplicare in una serie innumerevole di fenomeni e di eventi. Ma la legge di ricorrenza di Poincaré sostiene che basta aspettare. Vediamo: aspettare quanto? La risposta c’è e la si può formulare a partire appunto da Boltzmann e Poincaré:

È però importante notare che il tempo di ricorrenza nel caso di concreti sistemi termodinamici può essere estremamente lungo. Per esempio Boltzmann prese in considerazione un centimetro cubo di gas in condizioni normali di pressione e temperatura e valutò che il tempo che occorrerebbe attendere in media perché tutti gli atomi riprendano le loro posizioni iniziali, a meno di errori dell’ordine di un milionesimo di millimetro, e le loro velocità iniziali, a meno di errori dell’ordine di un metro al secondo, è dell’ordine di 1010 19 anni! (1093).

Il grassetto è mio e intende evidenziare l’enormità di un tempo inimmaginabile per un solo centimetro cubo di gas. E per l’intero universo, finito o infinito che lo si concepisca? Che cosa può diventare quel quel 1010 19 anni? Ecco, se la probabilità puramente matematica può diventare certezza empirica assoluta, questo è il caso.
Tali risultati confermano quanto Ilya Prigogine (Premio Nobel per la chimica nel 1977) e Isabelle Stengers scrivono nella voce «Semplice/complesso» di questa stessa Enciclopedia a proposito della questione fondamentale: il tempo.

In meccanica quantistica come in dinamica classica, il fascino della semplicità ha indotto più di uno studioso a fare dell’irreversibilità o della riduzione della funzione d’onda un’approssimazione in rapporto all’evoluzione reversibile.
La negazione del carattere fondamentalmente irreversibile delle evoluzioni fisiche si basa sull’esempio di sistemi idealmente semplici come la traiettoria dei pianeti o il pendolo perfetto, e costituisce l’esempio limite del disprezzo della fisica per l’insieme dei saperi che costituiscono la trama stessa dei saperi con i quali essa coesiste. […] Il fascino del semplice trascina al movimento assurdo del barone di Münchhausen che tenta di uscire da una palude tirandosi per i lacci dei suoi stivali. […]
Per poter porre la questione del tempo a partire da un formalismo che riconosce soltanto la possibilità di evoluzioni reversibili, è stato necessario smettere di considerare rappresentativi i sistemi semplici ai quali il formalismo è adatto, considerarli al contrario casi degeneri, casi eccezionali per i quali certe semplificazioni sono legittime – il dimenticarsi certe distinzioni che ci si permetteva ‘senza nemmeno pensarci’ – e cercare il limite di queste semplificazioni (vol. 12, pp. 725-726).

La consapevolezza che la reversibilità è soltanto un caso particolare della universale irreversibilità intrinseca alla struttura, al movimento, alla direzione della materia, è uno dei risultati fondamentali e fecondi delle scienze della complessità, tra le quali in primo luogo la termodinamica.
In conclusione: il concetto di reversibilità è valido per alcune esperienze apparentemente ricorrenti nelle stesse forme, per il resto è una pura costruzione matematica che in natura non corrisponde a nulla. La ragione è che anche le sfere (ad esempio quelle planetarie e stellari) che le leggi della dinamica immaginano reversibili nel loro moto, anch’esse si usurano per il loro andare e venire in una realtà materica e non soltanto formale, anch’esse sono soggette a processi dissipativi e quindi non torneranno mai esattamente come erano nel processo precedente ma sempre un poco modificate. Vale per le sfere del biliardo, vale per i pianeti e per le stelle, che infatti pur nel loro meraviglioso ordine matematico del moto sono destinate a spegnersi e a dissolversi.
Sostenere che l’irreversibilità è in termini matematici solo altamente probabile, e che quindi il tempo e la sua freccia non sono realtà assolute, è il più grande tributo della mente umana e di parte della fisica moderna all’ontologia matematizzante di Pitagora e di Platone. Ma è un errore.

[La foto raffigura il cosiddetto triangolo estivo, formato da tre magnifiche stelle: Vega in alto, Deneb a sinistra e Altair a destra; sullo sfondo alcune nebulose della Via Lattea]

Sapienza hegeliana

Non è soltanto alla trascurabile componente biologica del mondo che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, dell’entropia, della metamorfosi, del divenire.
La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel tentativo, destinato sempre allo scacco, che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte: 

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»
«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»
(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, Milano 2008, p. 363).

Il fondamento di questo tentativo, insieme biologico e metafisico, abita nella necessità del negativo.
Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:
«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»
«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»
(Die Phänomenologie des Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27; trad. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26).
Questa è la struttura dell’essere, questa è la struttura del tempo.

Androidi

Philip K. Dick
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
(Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
Traduzione di Riccardo Duranti
Introduzione e cura di Carlo Pagetti
Postfazione di Gabriele Frasca
Fanucci, 2003
Pagine 286

Nel suo ancora barocco e già postmoderno e visionario romanzo, Dick ha attinto alla propria lucida capacità di comprendere le tensioni della contemporaneità radicandole nel presente antichissimo dei simboli e dei miti gnostici. In Do Androids Dream of Electric Sheep? l’abominio della desolazione di cui parlava il profeta antico assume tutta la fisicità della “palta” (kipple, nell’originale), l’inarrestabile avanzare della polvere, dei rifiuti, del disordine.
La vittoria da sempre stabilita dell’entropia che si estende su tutte le cose, che diventa tutte le cose perché implicita nella «dispotica forza del tempo» (pag. 88) trasforma gli esseri viventi, gli oggetti, le città, la terra «nell’abietto abisso del mondo della tomba» (96) dal quale spira «il fetore della morte» (32) e un silenzio che si riverbera come un bagliore, che percuote il mondo «con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un’immensa turbina» (44). Una desolazione che «era sulla scia di tutte le cose» (238) perché fondamento di ogni cosa creata, generata dalla stessa sostanza dell’ombra difettosa, assurda, atroce da cui un funesto demiurgo ha tratto ogni entità apparentemente reale.
Tale è il fondamento metafisico -coerente sino al dolore- di questo libro. Ma, appunto, Do Androids oltrepassa la grande tradizione gnostica rendendola ancora una volta uno sguardo della mente teso a comprendere il presente e –rispetto all’epoca in cui il romanzo venne scritto, il 1968- a capire ciò che presente sarebbe diventato, ciò che ora è divenuto reale: l’ibridazione, la trasformazione degli umani in parti e strutture dei computer e della Rete. Umani, noi, che lavorano, insegnano, apprendono, dialogano, fingono di incontrarsi rimanendo per intere giornate fermi davanti a un monitor (si chiama digital labor; espressioni come ‘lavoro agile’ e ‘smart working’ sono degli eufemismi ideologici), abitatori di un mondo privo di spessore, carne, calore, fatto di algoritmi e non di corpi; un mondo alienato alla radice, i cui effetti sulla salute e sulla relazionalità vanno diventando pericolosamente chiari.
Nel romanzo di Dick l’ibridazione assume la tonalità anche ironica dell’assenza di un criterio che consenta davvero di distinguere chi fra i vari personaggi è un umano e chi un androide. Buster Friendly e i suoi inesauribili amici televisivi sono chiaramente delle macchine mediatiche; l’ispettore Garland si rivela ben presto anch’egli un droide; il divino Wilber Mercer è un invecchiato fotogramma che si ripete all’infinito; gli animali abitano sempre al confine tra naturalità ed elettronica –soprattutto il gatto del capitolo 7 che Isidore non riesce a salvare-; Rachel è una macchina colma d’amore e d’inganni, di quell’inganno che l’amore è sempre, e gli stessi cacciatori di taglie, Rick Deckard compreso, non sono sicuri della propria identità. «E così la distinzione tra esseri umani autentici vivi e strutture umanoidi andava a farsi benedire» (164), come ammette il protagonista in un momento cruciale della sua giornata da Ulisse joyciano, quel 3 gennaio 1992 in cui accadono tutte le vicende del racconto. E nel penultimo atto che precede il ritorno dalla sua Penelope, nel mare della desolata tranquillità in cui il pianeta è stato trasformato, Deckard afferma «sono diventato io stesso un essere innaturale» (257).
E i veri androidi? Che cosa sentono, provano, vivono queste macchine quasi perfette, i robot così avanzati della serie Nexus-6? Essi sembrano rivelare la propria natura d’artificio nella facilità con cui si fanno rintracciare e uccidere, nella rassegnazione con la quale cedono ancor prima di combattere, nella consapevole tristezza con la quale sanno che il loro ciclo vitale non va oltre i quattro anni, nella freddezza inquietante e rigida del loro essere, nonostante la forza del loro intelletto: «era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali» (179), privandoli della «consapevolezza emotiva», di quella «percezione sensibile del vero significato […] Solo la vuota definizione formale e intellettuale dei singoli termini» (213). Intelligenze puramente sintattiche, prive della profondità semantica e incapaci, pertanto, di stare davvero al mondo. E tuttavia la splendida replicante che è Rachel afferma che «noi androidi non riusciamo a controllare le nostre passioni fisiche e sensuali» (219) e per definire i pensieri di queste entità ho utilizzato più sopra parole come coscienza, tristezza, rassegnazione che sono termini, appunto, umani. Il fatto è che questi androidi sono creature hegeliane, sono «il servo […] divenuto più abile e sagace del padrone» (54), sono l’altro dell’umanità in cui l’umanità si è trasformata, in una ibridazione estrema proprio perché indistinguibile, in una contaminazione che per il solo fatto di essere in Dick tutta negativa non per questo risulta meno significativa del destino di complementarietà verso cui siamo –come specie e come singoli- avviati.
La prova che l’ibridazione costituisca uno dei nuclei generatori del romanzo la si trova nell’apparente digressione che l’Autore dedica a un dipinto: «il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per esser contenuta nel proprio urlo». Questa descrizione dell’Urlo di Munch esprime certamente e sino in fondo l’angoscia di cui gli umani sono capaci, la disperazione che li attanaglia, la tenebra ancora una volta gnostica che, letteralmente, li invade. E tuttavia il commento di Phil Resch al quadro è il seguente: «secondo me è così che deve sentirsi un droide» (152). È così che deve sentirsi quell’entità protesica, inestricabilmente artificiale e naturale, che siamo noi, ora, noi immersi nel tempo perché di tempo intrisi, da sempre finiti e per sempre limitati.

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