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Spirito

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Bestie di scena
ideato e diretto da Emma Dante
Con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli
Coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d’Avignon
Sino al 19 marzo 2017 

Che cosa si vede a teatro? Delle persone che simulano di essere ciò che non sono, che parlano con parole che non hanno pensato, che esprimono sentimenti che non provano, che enunciano tesi nelle quali non necessariamente credono. Il teatro è quindi -lo sanno tutti- finzione.
Che cosa accade quando in un teatro gli attori non parlano, non dicono quasi nulla, si spogliano sino a rimanere completamente nudi? Nessun indumento e nessuna parola coprono più di significati questi corpi. Nessun segno rimanda ad altro la loro densità, età, magrezza, pinguedine, bellezza, deformità. Se non ammicca, allude, seduce, il corpo nudo non può mentire.
Quando si entra in sala i corpi di Bestie di scena sono già lì, compiono esercizi che cominciano prima dell’orario di inizio dello spettacolo -che quindi lo spettatore interpreta come delle normali azioni di riscaldamento-, che diventano via via ballo condotto dalle sette attrici e dai sette attori con ritmi sempre più serrati, sino a trasformarsi in una integrale nudità. Subito dopo arrivano dall’esterno delle esplosioni che impediscono agli attori di uscire da un palcoscenico diventato gabbia della loro caduta, prigione della loro colpa, sede della loro storia. Da un palcoscenico diventato mondo, vita.
Ricondotti alla natura primigenia del corpo, comincia e ricomincia la vicenda umana fatta di bisogni, di tecnica, di lotta, di paura, di purezza e di tenebra. A indicare eventi e processi sono pochi oggetti che provengono dalle quinte: bidoni d’acqua, spade, noccioline, bambole, scope, stracci. Il cui utilizzo trasforma i corpi tutti uguali in personaggi differenziati. Come sfondo sonoro, di tanto in tanto, Only You, il brano dei Platters.
E allora questo spettacolo che non è recitazione, che non è coreografia, che non è musica, che cosa è? È nostalgia. Nostalgia di una innocenza che i corpi possiedono per natura e che soltanto il linguaggio trasforma in complicanza. Nostalgia di una condizione animale che rimaniamo sempre ma che abbiamo stoltamente imparato a negare. Nostalgia dell’infanzia filogenetica e ontogenetica, capace di trasformare qualunque banale oggetto in un universo. Nostalgia dell’abbandono, nella ricchezza dei suoi significati e nella radice etimologica. Non soltanto come abbandono delle inibizioni ma anche come il dono di sé al mondo, che è parte della parola stessa. La locuzione tedesca abhanden kommen fa riferimento al lasciar la presa della mano (Hand), non tenere più qualcosa, lasciarlo andare. Nostalgia infine dello spirito che non è altro dal corpo ma che è il corpo.
Con Bestie di scena l’opera di Emma Dante perviene a uno dei suoi esiti più saggi. Un teatro colto e nello stesso tempo semplice, depurato di ogni superfluo, giunto all’essenzialità, al rigore, all’inesorabilità della natura.

Dialettica di Polifemo

Teatro Franco Parenti – Milano
Io, Nessuno e Polifemo
di Emma Dante
con Emma Dante, Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola, Federica Aloisio, Giusi Vicari, Viola Carinci
musiche eseguite dal vivo da Serena Ganci
regia di Emma Dante
produzione del Teatro Biondo Stabile di Palermo
Sino al 30 settembre 2014

Odisseo è la hybris che tenta coi suoi enigmi la Montagna. Di sé Polifemo dice infatti d’essere «tutt’uno con la roccia, monotono e gigantesco, un’enorme montagna senza cuore». Una forza che viveva nella sua armonia monòcola e materica, in pace con gli dèi e con gli animali, prima che arrivasse l’umano predatore, fatto di arroganza e di conquista. Odisseo è l’intera specie che finge di essere ciò che non è: signora e padrone dell’essente. E la Montagna li ha puniti, li ha mangiati, li ha ricondotti al vento effimero che siamo. Uno solo è riuscito a volgere la forza della terra in violenza contro se stessa. E quest’uno adesso racconta spavaldo la sua impresa, l’energia della sua mente e delle braccia. Balla persino, al ritmo della memoria che lo ha reso immortale e che insieme a lui ha indurato Polifemo.
Emma Dante parla dunque dell’antichissimo mito illuminista che Horkheimer e Adorno hanno saputo così bene illustrare nell’Excursus I della loro opera maggiore: «Il lungo errare da Troia ad Itaca è l’itinerario del soggetto -infinitamente debole, dal punto di vista fisico, rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza-, l’itinerario del Sé attraverso i miti». Ma «il soggetto ricade nello stesso circolo vizioso della necessità naturale a cui cerca di sfuggire assimilandosi. Chi, per salvarsi, si chiama Nessuno e adopera l’assimilazione allo stato di natura come mezzo del dominio della natura, cade in preda alla hybris. L’astuto Odisseo non può fare diversamente: in fuga, ancora a portata di tiro delle mani del gigante, non si limita a schernirlo, ma gli rivela il suo vero nome e la sua origine, come se la preistoria avesse ancora tanto potere su di lui, scampato ogni volta per un pelo, da fargli temere, dopo essersi chiamato Nessuno, di poter ritornare nuovamente nessuno, se non provvede a restaurare la propria identità per mezzo della parola magica di cui l’identità razionale ha preso il posto» (Dialettica dell’illuminismo, trad. di R. Solmi, Einaudi 1982, pp. 54 e 75).
Questo testo e la sua messinscena costituiscono dunque una riflessione attenta e acuta sull’umano e la sua natura ma sono anche danza e musica, sono umorismo e spiazzamento rispetto all’ovvio -il parlar partenopeo dei due nemici coniuga, appunto, musica e divertimento-, sono una diversione leggera e danzante rispetto alla consueta drammaturgia affilata e dura della Dante. Ma Io, Nessuno e Polifemo è soprattutto un’esplicita dichiarazione di poetica teatrale. Vi vengono citati gli autori che hanno fatto delle parlate dialettali il mezzo e la sostanza di un teatro che non è spettacolo ma è un itinerario dentro il linguaggio che non obbedisce: Viviani, Eduardo, Dario Fo. E poi un altro nome. Viene enunciato all’inizio, rispondendo alla domanda del ciclope sul perché la «signò» si occupi ancora di questo racconto truce e sanguinario, innumerevoli volte raccontato. «Perché», risponde Emma, «un teatro che non sia violenza e crudeltà è spettacolo e non teatro, come sapeva Carmelo Bene». All’ulteriore domanda di Polifemo sul perché, dunque, non si occupi di quest’altro invece che di lui, Emma risponde che «Bene è un morto fresco, non si è abituato all’eterno».
La fisicità estrema -tratto della drammaturgia dantesca- qui sembra molto stemperarsi in un testo persino didascalico ma ricompare intensa nei movimenti delle tre danzatrici -marionette della Necessità, ballerine di dance, astute penelopi- e nella voce/percussione di Serena Ganci.
Le parole con cui si chiude l’incontro con la Montagna sacra e antropofaga alludono alla polvere alla quale tutto sarà ridotto, polvere che nessuno può scansare.

Strade

Via Castellana Bandiera
di Emma Dante
Con: Elena Cotta (Samira), Emma Dante (Rosa), Alba Rohrwacher (Clara), Renato Malfatti (Saro Calafiore)
Italia, 2013
Trailer del film

Due automobili si fronteggiano nella stradina di un quartiere popolare di Palermo. Nella prima c’è alla guida una vecchia signora che ha accanto a sé il genero e altri parenti. Stanno per arrivare a casa. Nell’altra ci sono due donne che si trovano lì di passaggio. Una delle due automobili deve fare retromarcia per consentire all’altra di transitare. Ma né l’anziana Samira né Rosa sembrano avere intenzione di lasciare il passo. Rimarranno lì, ferme, tutto il giorno e tutta la notte, osservate, incitate, accusate, sostenute dalla gente del quartiere. Sarà un western, sarà un confronto della donna più giovane con l’immagine della madre detestata, sarà una scommessa sulla quale punta il quartiere, sarà una sfida all’ostinazione più irrazionale eppure sensatissima. Sino alla morte.
Emma Dante conferma la fisicità estrema del suo teatro e della sua opera. In questo suo primo film -dopo tanti capolavori teatrali- la cinepresa sta addosso ai corpi, al sudore, alle mani, ai capelli, agli sguardi, alle spalle. Ritornano l’ossessione della madre e la famiglia come luogo di morte. Un film denso, scabro, espressionista, che raggiunge il suo acme nella scena in cui le due donne urinano confondendo i loro liquidi e nella magnifica corsa finale di tutto il quartiere verso l’auto di Samira. La cinepresa rimane fissa mentre gli umani giungono, la superano, scompaiono, lasciando sulla strada- improvvisamente larga- soltanto il volo e i suoni di alcuni uccelli.

 

Artemisia, la carne

Artemisia Gentileschi. Storia di una passione
Palazzo Reale – Milano
Sino al 29 gennaio 2012

Muse e ninfe maliziose e seducenti; monache orgogliose e temibili; dame altere e potenti; antiche regine -Cleopatra- e peccatrici -Maddalena-; allegorie della pittura, della musica, della pace, della retorica, della fama; Betsabee al bagno; guerriere bibliche, tra le quali domina Giuditta che con meticolosa calma trancia la testa a Oloferne, alla quale si aggiungono Giaele che conficca con un martello un chiodo nella tempia di Sisara e Dalila che toglie ogni forza a Sansone. La più straordinaria tra queste donne è forse una samaritana dalla posa e dallo sguardo assolutamente scettici che discute con un Gesù chiaramente in difficoltà. Ma sono tutti i maschi a subire inganno e vendetta nei dipinti di Artemisia Gentileschi.
Che cosa rovina questi uomini? L’eros? L’intelligenza? La menzogna? Certamente la corporeità, che dalle opere di Artemisia tracima col suo splendore e con la sua potenza. L’Allegoria della pittura è una coscia femminile che riempie il quadro e che si allarga a un corpo adagiato, lucido, sognante.
L’allestimento di Emma Dante regala ulteriore fascino a questa “pittora” ammirata nelle corti di tutta Italia e che a Napoli trovò forse il luogo più congeniale alla sua passione, oltre che la morte. Tra fulgenti lapislazzuli, fiotti di sangue e caravaggesche lame di luce, è la carne che trionfa in Artemisia.

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