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Il grande mago

Teatro Biondo – Palermo
La grande magia
di Eduardo De Filippo 

Con: Natalino Balasso (Calogero di Spelta), Michele Di Mauro (Otto Marvuglia), Veronica D’Elia (Amelia Recchia), Gennaro Di Biase (Mariano d’Albino e brigadiere), Christian di Domenico (Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta), Maria Laila Fernandez (Signora Marino e Rosa Di Spelta), Alessio Piazza (Gervasio e Oreste Intrugli), Manuel Severino (cameriere dell’albergo e Gennaro Fucecchia), Sabrina Scuccimarra (moglie di Otto Marvuglia), Alice Spisa (Marta Di Spelta), Anna Rita Vitolo (Signora Zampa e Matilde, madre di Calogero)
Scene di Roberto Crea
Regia di Gabriele Russo
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Sino al 15 dicembre 2024

I sentimenti umani, gli inquieti e tristi sentimenti umani. Tra di essi, uno dei più potenti e distruttivi è la gelosia. Marcel Proust più di ogni altro ha mostrato come e quanto la gelosia non sia soltanto potente, non sia soltanto distruttiva ma sia anche necessaria. Necessaria quando un altro umano (amante, marito, moglie, figlio, amico e così via) occupa per intero lo spazio interiore di qualcuno, quando vale a dire si è innamorati.
È tale necessità a dare a Calogero di Spelta il potere distruttivo di far sparire la sua bella moglie. Certo, non è lui direttamente a farlo ma è un illusionista miserabile eppure abilissimo, Otto Marvuglia, il quale viene pagato dall’amante della moglie per distrarre per un quarto d’ora Calogero. E però questo breve tempo diventa un abbandono. I due amanti fuggono da Napoli a Venezia e al mago non resta che far credere al marito che si trovano tutti dentro un grande gioco, una grande illusione, nella quale la moglie sparita è ora dentro una cassettina. Se Calogero aprendola avrà fede, la signora ricomparirà, in caso contrario sparirà per sempre. L’uomo non apre la cassetta, la porta sempre con sé nel trascorrere degli anni, nell’invecchiare, nella disperante speranza – che diventa ambigua certezza – di trovarsi dentro un gioco il quale tra pochi momenti avrà fine per restituire lui e la moglie al tranquillo cortile dell’albergo dove Otto Marvuglia ha iniziato la sua magia.
Pirandello, indubbiamente. Ma molto oltre Pirandello, verso la dimensione che fa dire a Marvuglia che lui è soltanto un piccolo mago, che sopra di lui c’è un mago più grande e poi ancora un altro, «fino alla perfezione». «Il mondo è un’illusione» afferma il trattato gnostico Sulla resurrezione (NHC I,4, 48) a organizzare la quale è il grande mago che assume vari nomi, tutti malvagi, tutti immersi nel non sapere, tutti fatti di tristezza. La tristezza profonda di una commedia/dramma che il regista Gabriele Russo riesce a rendere plausibile e leggera ma mai superficiale, mai ovvia.
La grande magia è infatti un testo che va oltre, molto oltre, la gelosia e altri sentimenti umani, dai quali pure sono partito. Le scene colorate, quotidiane e insieme esotiche, di Roberto Crea suggeriscono che questa magia è la nostra vita di tutti i giorni, intrisa di certezze e di illusioni, di speranze e di abbandoni, di cassette dentro le quali racchiudiamo i nostri slanci.

Contro l’autorità

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia Fausto Russo Alesi
con: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo
scene Marco Rossi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Elledieffe
Sino al 5 novembre 2023

«Venga a teatro, Sig. Prefetto! A Teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione…». Un invito decisamente pirandelliano, tanto più che i Sei personaggi in cerca d’autore vengono esplicitamente citati. E tuttavia, subito dopo aver ricordato il titolo di Pirandello, il capocomico Oreste Campese aggiunge «Ma qui Pirandello non c’entra nulla. Non sono i personaggi in cerca d’autore ma gli attori in cerca di autorità».
Campese chiede infatti udienza al prefetto da poco arrivato in città; il capannone della sua Compagnia è andato distrutto da un incendio e la presenza del prefetto alla rappresentazione nel Teatro Comunale sarebbe di lustro e di richiamo. Il prefetto si aspettava una divertente conversazione con un guitto e invece si trova davanti un uomo di teatro dalle sfumature complesse e per il prefetto «sofistiche», che si permette di arruolarlo come «specchietto per le allodole». Rifiuta quindi con sdegno il suo invito. Ma Campese gli promette che presto capirà che cosa siano teatro, finzione, verità.
E infatti le persone che il funzionario riceve nel pomeriggio dello stesso giorno non si comprende se siano reali – il medico, il parroco, la maestra elementare, il farmacista – o se siano gli attori inviati da Campese a recitare le storie che avevano coralmente scritto per il nuovo spettacolo. Storie di inquietudine, di aspirazioni frustrate, di matrimoni divorzi e aborti, di licenze negate e di suicidi, di figli illegittimi e di bambini morti. Il profluvio del dolore umano, della sua ambiguità, della sua inestirpabilità, travolge il prefetto, il suo segretario, il militare a guardia dell’istituzione. E vince il disvelamento che la finzione teatrale sa attuare dell’autorità sanitaria, di quella religiosa ed educativa, del potere politico e burocratico.
Un metateatro messo in scena da Fausto Russo Alesi in modo da estrarre dal testo di Eduardo gli accenti e le forme più dolenti, persino cupe nell’ambientazione oscura delle scene, e nel quale gli attori toccano e fanno suonare l’intera tastiera del recitare: dimesso, allucinato, struggente, grottesco, folle, caricaturale, dignitoso, solitario.
«Un atto poetico e politico per il Teatro» scrive Russo Alesi, «una istintiva risata liberatoria» (Programma di sala, pp. 8 e 10) nella quale De Filippo si coniuga a Kafka e a una delle formule dell’anarchismo: «Una risata vi seppellirà», dove a essere sepolta è l’autorità cadaverica che in questi anni Venti del XXI secolo va mostrando sempre più e in vari ambiti – Ministri della Sanità, Pontefici, Professori e Rettori Universitari, Medici, Presidenti di Repubbliche e Confederazioni – la propria sostanza di morte.

Metafore

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Ditegli sempre di sì
di Eduardo De Filippo
con Carolina Rosi, Tony Laudadio, Andrea Cioffi, Antonio D’Avino, Federica Altamura, Vincenzo Castellone, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola
regia Roberto Andò
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, Fondazione Teatro della Toscana

Eduardo De Filippo innesta sulla greve serietà dell’umorismo pirandelliano la dirompente forza del comico partenopeo, ereditato dal padre, dal teatro dell’arte, dalla inesauribile vita napoletana fatta di un linguaggio che è impastato con l’assurdo e con la pienezza del sole.
Di questo innesto che lo ha reso grande, Ditegli sempre di sì è paradigmatico. Si tratta infatti di una tipica situazione ‘pirandelliana’ nella quale il protagonista, Michele Murri, torna a casa dopo un anno di cure in manicomio. I medici garantiscono alla sorella Teresa che Michele è guarito, anche se «non del tutto». E infatti quest’uomo tende a prendere ogni parola e ogni situazione alla lettera, crede a ogni enunciato, pensiero, figura, scherzo, iperbole che gli si comunica. Gli effetti di tale atteggiamento non possono che essere travolgenti e generano una serie assai divertente, e plausibile, di equivoci. Sino a che, e qui si svela il dispositivo profondo del testo, Michele prende per pazzo un giovane aspirante attore, sentendogli dire – pirandellianamente – che la vita è più teatrale del teatro e il teatro più vivo della vita.
Come tutti i testi, anche questo può essere messo in scena in molti modi. La regia di Roberto Andò mostra ancora una volta i suoi limiti scegliendo una tonalità farsesca che in realtà nuoce al comico che intrama l’opera. La quale è, alla fine, una riflessione dolorosa e ironica sulla comunicazione. Prendendo ogni parola alla lettera, Michele Murri annulla gli strati profondi, molteplici e sfavillanti del linguaggio umano. La sua ossessione per la precisione, per la certezza, è la stessa follia del metodo galileiano che innalza il linguaggio della matematica a unico idioma del mondo.
Il linguaggio, invece, come l’esistenza, è fatto di ambiguità, sfumature, polisemanticità, immersione nelle situazioni e nei contesti. In ciò che Morris ha chiamato «pragmatica», al di là della sintassi e della stessa semantica. Della comunicazione va compreso il non detto, che ne costituisce la condizione stessa, assai più che l’esplicitamente pronunciato. Chi invece vuole ricondurre ogni formulazione, frase, espressione, parola, soltanto al suo significato letterale è davvero un folle. Anche per questo è così difficile comunicare. E anche per questo è così meraviglioso parlare e scrivere. «La lingua degli uomini è sciolta, ne sgorgano tante parole (μῦθοι) / diverse, ricca pastura di frasi da entrambe le parti. / Ogni cosa che dici, ne senti un’altra appropriata» (Iliade, XX, 248-250, trad. di Giovanni Cerri) e in modo appropriato devi rispondere, consapevole che dall’altro non arrivano dei suoni ma l’intero suo mondo, alla fine inattingibile nella sua trasparenza, e splendente invece di metafore.

Erinni partenopee

Eduardo De Filippo. Il sindaco del rione Sanità
di Mario Martone
Con: Francesco Di Leva (Antonio Barracano), Roberto De Francesco (Dottor Fabio Della Ragione), Massimiliano Gallo (Arturo Santaniello), Adriano Pantaleo (Catiello), Daniela Ioia (Armida), Salvatore Presutto (Rafiluccio Santaniello)
Italia, 2019
Trailer del film

Martone ha voluto che il nome di Eduardo De Filippo comparisse anche nel titolo. Come è giusto. Perché il film è assai fedele al testo di Eduardo, che dall’ambientazione nel presente (e non negli anni Cinquanta del Novecento) riceve ulteriore significato. Universale è infatti questa storia di ‘ignoranti’ che si rivolgono a un uomo ritenuto da tutti più saggio, allo scopo di appianare i loro conflitti, le violenze, il rancore. Un uomo che ha ucciso una volta sola, per sopravvivere all’angoscia, al tumulto e alla sofferenza anche fisica generati da una violenza subita senza ragione: «So’ passate cinquanta-sett’anne: don Artu’, l’ultima l’ultima coltellata a Giacchino nun nce l’aggio data ancora».
Don Antonio Barracano si muove come il popolo del suo rione napoletano; parla con la lingua meravigliosa, espressiva e potente della sua città; ne condivide codici, scetticismi, delusioni. E tuttavia quest’uomo è un’astrazione. È troppo saggio, infatti. Molto più saggio dell’umanità «fetente» che lo circonda, come gli ricorda il suo alter ego ‘laureato’, il medico Fabio Della Ragione (nome dal trasparente significato). Umanità fetente a cominciare dai suoi familiari per arrivare sino a chi non nutre alcuna gratitudine per la salvezza che da Don Antonio ha ottenuto. Una saggezza talmente profonda da pervenire alla rinuncia.
Tutto il grande teatro, tutto il teatro del mondo e dei secoli -Marlowe, Shakespeare, Molière, Beckett, De Filippo, e tanti altri– è tale perché riprende, traduce e reinventa ogni volta il nucleo del dialogo dell’Europa con il senso e con le Erinni, perché riprende, traduce e reinventa ogni volta la tragedia greca. Il sindaco del rione Sanità è evidentemente greco, anche in questa versione di Martone, alla quale attori tutti napoletani -e dunque duri, musicali e profondi– offrono il dono della vita che scorre, che va, che si perde.
«C’è un’altra cosa che non dice mai bugie: ‘a morte. L’uomo che appartiene alla streppegna [razza] schifosa e falsa dell’umanità, per commettere ingiustizie si può fingere sordo, muto, cecato, malato ‘e core, paralitico, tisico, pazzo… se po’ fa credere in punto di morte… e i medici, compreso voi professo’, devono fare prove e controprove per assodare se l’infortunio o la malattia sono veraci o no; ma quanno è morto, ‘o core dice ‘a verità: se ferma».

[Tre anni fa vidi un’altra messa in scena dell’opera e ne parlai qui: Antropologia napoletana]

Questi fantasmi

Personal Shopper
di Olivier Assayas
Francia, 2016
Con: Kristen Stewart (Maureen), Nora von Waldstätten (Kyra), Lars Eidinger (Ingo), Sigrid Bouaziz (Lara)
Trailer del film

Prendo a prestito il titolo di una delle più belle e profonde commedie di Eduardo De Filippo. Un prestito ironico perché il film non lo merita, risultando tanto ambizioso nelle intenzioni quanto fallito nei risultati. Narra infatti di Maureen, una ragazza che da tre mesi ha perso il fratello gemello. Maureen è una medium come lo era il fratello e ora cerca un contatto con ciò che di lui sopravvive. Nel frattempo, per vivere compra vestiti per conto di una miliardaria modaiola (fa la personal shopper, appunto). La sua datrice di lavoro ha da poco lasciato il proprio amante e ciò provoca una serie di gravi conseguenze. Il compagno di  Maureen lavora in Marocco, si vedono su Skype e lui la invita più volte ad andare a trovarlo. Quando Maureen lo fa, forse è troppo tardi.
Come si vede, qui si intrecciano storie, livelli, generi cinematografici diversi -thriller, horror, psicologia, costume- che non riescono a coniugarsi. Volendo essere un poco comprensivi, si potrebbe supporre che l’idea consista in un progressivo processo di disvelamento/dissoluzione della personalità di Maureen, ma proprio l’obiettivo del caos interiore richiederebbe una chiarezza narrativa (non è un paradosso, tutt’altro) che al film manca. Si insiste poi su un numero spropositato di sms anonimi, inviati e ricevuti, che risultano alla lunga noiosi, anche perché del tutto prevedibili.
Nel passare dall’immaginazione sessantottina a quella interiore, Assayas ha perso slancio e arte. L’interpretazione di Kristen Stewart non aiuta l’operazione, fatta com’è di una tristezza piatta e costante dall’inizio alla fine. Un film fantasma.

Antropologia napoletana

Teatro Elfo Puccini – Milano
Il sindaco del rione Sanità
di Eduardo De Filippo
Con Eros Pagni, Federico Vanni, Maria Basile Scarpetta, Gennaro Apicella, Massimo Cagnina, Angela Ciaburri, Orlando Cinque, Gino De Luca, Federica Granata, Cecilia Lupoli, Rosario Giglio, Luca Iervolino, Marco Montecatino, Gennaro Piccirillo, Pietro Tammaro
Produzione Teatro Stabile di Genova – Teatro Stabile di Napoli
Regia di Marco Sciaccaluga
Trailer dello spettacolo
Sino al 14 febbraio 2016

sindaco_2Finito lo spettacolo appare una frase dal Riccardo II di Shakespeare: «La morte è poca cosa ma risana la ferita della vita». La stessa affermazione viene pronunciata all’inizio da Don Antonio Barracano: «La morte non tene crianza ma un merito ce l’ha: chiude una ferita mortale, la ferita della vita». Nel testo di Eduardo queste parole non ci sono ma bene ha fatto Sciaccaluga a inserirle, poiché delineano in modo limpido l’antropologia che sta al fondo dell’opera. Un’antropologia disincantata, che non crede alla giustizia delle leggi e delle ‘autorità’ ma cerca anche di evitare le carneficine che ogni vendetta privata e ogni ingiustizia subìta scatenano.
Il guappo Antonio Barracano cerca sempre di sentire «le due campane» di ogni disputa, conflitto, odio, e di indicare o -se necessario- imporre la soluzione più equa. Al medico che collabora con lui da trentacinque anni e che è stanco di ricucire e curare i corpi di disgraziati, di canaglie che non lo meritano, Barracano risponde che costoro sono delle vittime, «sì vittime dell’ignoranza e l’autorità comanda più facilmente sugli ignoranti». Don Antonio tiene sempre aperto sulla scrivania il Codice Penale, ne conosce bene contenuto e articoli ma ritiene -come Solone- che le leggi somiglino alla ragnatele: gli insetti piccoli ne vengono catturati, quelli grossi le sfondano. In questo disinganno amaro e profondo sta, certo, la radice delle camorre e delle mafie ma abita anche l’anelito libertario. Tra ‘l’uomo lupo per l’altro uomo’ e il sogno platonico della giustizia affidata ai saggi, si declina uno dei testi più ricchi e complessi della drammaturgia di Eduardo.
La regia di Sciaccaluga è essenziale e punta tutto sulla densità del testo. Eros Pagni è un Antonio Barracano credibile sino alla commozione. Uno spettacolo molto bello, nel quale la tragedia e il comico si intrecciano e fanno pensare ancora a Platone: «Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).

Espressionismo partenopeo

Teatro Bellini – Napoli
Le voci di dentro

di Eduardo De Filippo
Con: Toni Servillo (Alberto Saporito), Peppe Servillo (Carlo Saporito), Gigio Morra (Pasquale Cimmaruta), Betti Pedrazzi (Rosa Cimmaruta), Chiara Baffi (Maria, la cameriera), Lucia Mandarini (Matilde Cimmaruta), Vincenzo Nemolato (Luigi Cimmaruta), Marianna Robustelli (Elvira Cimmaruta), Marcello Romolo (Michele, il portiere) Rocco Giordano (capa d’Angelo), Antonello Cossia (un brigadiere), Maria Angela Robustelli (Teresa Amitrano), Francesco Paglino (Aniello Amitrano), Daghi Rondanini (Zi’ Nicola)
Regia di Toni Servillo
Coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatri Uniti di Napoli, Teatro di Roma
Sino al 18 gennaio 2015

voci_di_dentroAlberto Saporito non sa che ciò che ha visto con tanta nettezza -l’assassinio del suo amico Aniello da parte della famiglia sua dirimpettaia, i Cimmaruta- lo ha in realtà soltanto sognato. ‘Soltanto’? Quando cerca nella casa dei vicini le prove, le carte, il sangue che ha pensato di avere visto, non trova niente. E lo ammette davanti al brigadiere, lo ammette davanti ai Cimmaruta. Ma questi ultimi non credono alla versione del ‘sogno’ e cominciano a chiedergli di tirar fuori le prove che inchiodano gli altri membri della famiglia.
Tutti contro tutti. Anche il fratello di Alberto non aspetta altro che di vederlo in galera -per calunnia- in modo da appropriarsi della povera e sgangherata azienda di famiglia. Soltanto il vecchio zi’ Nicola sembra stare dalla sua parte ma lui è uno che da tanto ha smesso di parlare perché «se il mondo è sordo, lui ha diritto di essere muto». Il riapparire di Aniello Amitrano, ben vivo, non assolve nessuno. Anzi. Alberto Saporito ha compreso e ha snidato «ciò che vi è di mostruoso nell’ovvio» (Toni Servillo, p. 11 del Programma di sala), lo stare conficcato di ciascuno nel proprio delirio, nei propri sogni, nel proprio dormire, nell’odio profondo che riversiamo sui nostri simili, nel desiderio di saperli colpevoli, di vederli morti.
C’è davvero «una forza oscura nel testo» di Eduardo, una forza che «lo distanzia nettamente dai manichini dechirichiani di Pirandello» (Servillo, pp. 9-10), anche se allo scrittore siciliano deve certamente la rottura di ogni realismo a favore del linguaggio e della mente, della parola che produce il mondo. Questo linguaggio diventa in Eduardo De Filippo la musica dolorosa e potente della parlata di Napoli, si fa segno universale, canto, capacità di esprimere con ironia, con sdegno, con lucidità, l’universale ferocia degli umani. È questo espressionismo partenopeo, questo assurdo napoletano, che Eduardo aveva in mente «come spettacolo completo messo in scena e recitato nei minimi particolari, esattamente come io l’ho voluto, visto e sentito e come, purtroppo, non lo sentirò mai più quando sarà diventato realtà teatrale» (E. De Filippo, Il teatro e il mio lavoro, «Programma di sala», p. 21).
Il rigore e la profondità dell’interpretazione e della regia di Toni Servillo restituiscono alla scena lo spettacolo umano, le sue voci, il sogno.

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