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Progressisti

Nel corso degli anni ho criticato -su varie liste telematiche, con interventi e libri– l’atteggiamento di chi accusava di “conservatorismo” e “passatismo” quanti si opponevano alle “novità” distruttive verso la scuola e l’università che vari ministri (primo tra i quali il progressista Luigi Berlinguer) andavano imponendo. La natura del tutto retorica, ideologica e truffaldina dell’equazione “nuovo=bene; vecchio=male” emerge ora per tutti (almeno spero) dall’utilizzo che il replicante non umano Mario Monti e i suoi complici fanno delle stesse parole.
Costoro infatti accusano di conservatorismo e vecchiume quanti semplicemente intendono difendere le persone -le persone vere, non le statistiche- dai crimini che la finanza internazionale e le grandi banche vanno perpetrando in tutto il mondo, mondo che vorrebbero ridurre al desolato deserto delle borse e degli scambi monetari.
A proposito di deserto, un grande italiano e una grande mente –Giacomo Leopardi– aveva già nel 1836 (nel pieno quindi di un’altra ondata “progressista”) ironizzato nella sua Ginestra o il fiore del deserto sulle «magnifiche sorti e progressive» verso le quali ci si illudeva l’umanità stesse felicemente e inesorabilmente andando.
Al di là di questo uso infantile e disonesto di termini come “vecchio” e “nuovo”, la differenza reale passa forse tra coloro che non si fanno illusioni ma continuano a tendere a una società più giusta, a una trasformazione faticosa e tenace dello stato di cose esistente -senza mai dimenticare i limiti dell’essere e della vita-, e quanti invece promettono nuovi mondi e terre nuove, le terre e i mondi del loro dominio.

I barbari

Il governo della Goldman Sachs guidato da Monti-Napolitano sta compiendo delle scelte ben precise. Tra le più importanti c’è la detassazione delle cosiddette “Grandi Opere” -grandi per i profitti che producono a favore delle «voraci grandi imprese che assediano il governo»- come il TAV, il Ponte di Messina (se mai si farà) e altre strutture distruttive del territorio e dell’ambiente. Si conferma, inoltre, la folle spesa di 20 miliardi di euro per i cacciabombardieri F-35.
“Detassazione” significa che tali opere graveranno ancora di più sulle casse pubbliche a danno della sanità, dei trasporti, della scuola, dell’università, della ricerca. Si premiano i palazzinari, le imprese di proprietà della malavita, le aziende che avvelenano scientemente pur di moltiplicare i profitti, e si impongono tasse più alte agli studenti universitari, si accentua il peso fiscale sui lavoratori dipendenti, si costringe alla chiusura l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Invito a guardare il breve filmato nel quale il fondatore dell’Istituto -Gerardo Marotta- parla con amara commozione di quanto sta accadendo. Marotta somiglia a Céline negli ultimi suoi anni, e come Céline denuncia la guerra che il potere finanziario muove al sapere, alla cultura, alla filosofia. Perché sapere, cultura e filosofia sono espressioni di quella libertà e gratuità che “i servi di Mammona” (per dirla con i Vangeli) giudicano giustamente un pericolo gravissimo per la loro egemonia.
Non basta: si propone anche di “dismettere”, vale a dire svendere, il patrimonio pubblico costituito da palazzi, terreni, beni culturali.
Angelo Mastrandrea scrive che «È l’Italia alla rovescia di come la vorremmo, quella che ancora oggi -con Monti e Passera e non con Berlusconi- prepara un regalo inaspettato ai cementificatori e lascia chiudere le biblioteche. Un tempo l’Iva più bassa riguardava i libri e la cultura, beni di cui incoraggiare il consumo, e non la Salerno-Reggio Calabria. L’Istituto italiano di studi filosofici deve smobilitare perché, tra Tremonti e Monti, in pochi anni i contributi statali sono stati praticamente azzerati. I lanzichenecchi insediati alla Regione Campania hanno provveduto al resto, lasciando cadere nel dimenticatoio una vecchia delibera che prevedeva l’istituzione di una biblioteca per accogliere le migliaia di libri dell’Istituto e consentire a studenti e ricercatori di poterli consultare».
Chiudere le biblioteche, affamare i cittadini, distruggere il territorio, arricchire i predoni. Dietro la loro apparenza robotica i ministri dell’attuale governo italiano sono degli autentici barbari, i quali stanno realizzando i sogni del governo Berlusconi. Di peggio c’è che Berlusconi doveva almeno fronteggiare un’opposizione mentre il governo dei banchieri ha il sostegno della grande stampa e di quasi l’intero parlamento, compreso il Partito Democratico.
I senatori romani hanno aperto le porte ai barbari per spartirsi insieme il bottino.

Esotiche vecchiaie

The Best Exotic Marigold Hotel
di John Madden
Con: Judi Dench (Evelyn), Tom Wilkinson (Graham), Bill Nighy (Douglas), Penelope Wilton (Jean), Dev Patel (Sonny), Celia Imre (Madge), Ronald Pickup (Norman), Maggie Smith (Muriel), Diana Hardcastle (Carol), Tena Desae (Sunaina)
USA 2012
Trailer del film

 

«Delocalizzare la vecchiaia» è il programma con il quale un giovane indiano di Jaipur intende rivitalizzare un albergo ormai decadente. Nel mondo occidentale gli anziani non contano più nulla, qui invece potranno diventare i protagonisti assoluti. Per attirare i primi clienti Sonny ritocca un po’ le immagini dell’hotel. A cadere nel benevolo inganno è un variegato gruppo di inglesi: un giudice in pensione, una coppia in crisi, due signore sole, un attempato casanova, una governante licenziata dopo aver speso l‘intera vita al servizio di una famiglia britannica. Nonostante l’iniziale sorpresa nel trovarsi in un luogo ben diverso rispetto a quello pubblicizzato su internet, queste persone si fanno quasi tutte avvolgere e travolgere “dal fascino dell’India”, luogo dove ciascuno cerca se stesso, vecchi ricordi, nuova vita.
Il rischio che un film del genere potesse cadere nell’esotismo di maniera era altissimo e non è stato evitato. Una cultura assai complessa come quella indiana e indù viene ridotta alle solite cartoline e a luoghi comunissimi. Si respira, inoltre, una greve atmosfera british nei rapporti tra gli ex colonizzatori e gli ex colonizzati. La bravura degli interpreti -tutti caratterizzati da una misura veramente anglosassone- e alcune riuscite battute nei dialoghi non riscattano l’evidente forzatura di tutta l’operazione, confermata dal lieto fine.

Per un regista e per degli sceneggiatori europei è forse semplicemente impossibile capire l’India e restituirne con un minimo di correttezza l’antropologia. Tra i dipendenti del Marigold Hotel c’è, ad esempio, una ragazza che appartiene ai “paria”, vale a dire agli infimi fuori casta. Bene, come si fa a rendere il significato e la peculiarità del sistema indiano delle caste da un punto di vista occidentale? Gli “intoccabili”, infatti, sono sì molto spesso ma non necessariamente dei “poveri”. Anzi, numerosi paria sono piuttosto ricchi. Ed è a volte il modo in cui hanno raggiunto tale ricchezza che conferma il fatto che si tratta di intoccabili. Un appartenente alla casta dei bramini può essere, invece, poverissimo ma viene giudicato un individuo superiore. Le caste esistono anche in Occidente e sono quasi altrettanto rigide. Solo che da noi il criterio di appartenenza all’una o all’altra è dato dal possesso del danaro e dall’esercizio del potere politico. (Una notazione personale: nel conversare attribuisco a volte ad alcuni uomini politici nazionali e a degli amministratori locali che conosco la qualifica di “miserabili e intoccabili”, pur essendo costoro ricchissimi tanto che al loro confronto sono un vero poveraccio. Mi ispiro, per l’appunto, al sistema indiano delle caste).

Tra Chicago e la miseria

Capire l’economia non è facile. Un articolo di Archimede Callaioli -pubblicato sul numero 309 di Diorama letterario, pp. 1/5- aiuta a comprendere meglio gli scenari macroeconomici del presente. Non tutto in questo testo è convincente, a partire da un eccessivo apprezzamento per il modello economico tedesco e dalla distinzione tra i lavoratori cinesi che lavorerebbero dieci ore al giorno per tutta la vita mentre quelli occidentali non aspetterebbero che di diventare “rentier”, godendo per molti anni di una pensione. Liquidazioni e pensioni non sono un regalo dei governi o delle aziende ma soldi che i lavoratori -soprattutto dipendenti- sono obbligati a versare proprio in vista della cessazione dell’attività lavorativa. Non solo: alla stregua di redditieri sarebbero da considerare tutti i salariati e gli stipendiati, tesi semplicemente bizzarra.

Al di là di questi limiti, l’analisi di Callaioli si rivela molto accurata e capace di spiegare bene ciò che sta accadendo all’economia globalizzata. L’Autore riferisce che il capo della Federal Reserve, Ben Bernanke, è uno dei maggiori studiosi delle politiche rooseveltiane, che si propone di ricalcare per uscire dalla crisi attuale. Una differenza clamorosa è però che mentre il New Deal impose la separazione tra le banche commerciali e quelle di investimento, i presidenti statunitensi da Reagan in poi hanno prima depotenziato e poi ufficialmente abolito tale distinzione, lasciando campo libero al dominio della speculazione finanziaria. Ma la differenza principale rispetto agli anni Trenta consiste nel fatto che «fu l’inflazione il vero fulcro dell’azione rooseveltiana, quella che permise di minimizzare i debiti e di ripartire praticamente da zero: le politiche espansive, la guerra e la ristrutturazione industriale ebbero effetto solo in quanto la loro ricaduta fu l’inflazione», la quale azzera i debiti ma anche le rendite. Proprio per questo essa non è più praticabile, poiché la massa dei percettori di rendite -pur se minime- è ormai tale che un loro azzeramento comporterebbe una catastrofe sociale: «una ondata inflattiva getterebbe sul lastrico quasi tutti i pensionati (decine di milioni di persone), con effetti che si possono facilmente immaginare, e che dobbiamo sforzarci di tenere presenti perché questo irresolubile dilemma è un ulteriore indizio del fatto che la crisi è la crisi  definitiva di un sistema».

Importante è anche la critica che l’Autore rivolge al culto tributato al Prodotto Interno Lordo -che è «il valore monetario dei beni e dei servizi finali -consumi, investimenti fissi, variazioni sulle scorte, esportazioni- prodotte in un anno sul territorio nazionale al lordo degli ammortamenti», il quale «può forse misurare la ricchezza prodotta da un paese ma non è una rappresentazione attendibile del suo benessere. Infatti, se aumentano gli ammalati di malattie gravi che richiedono cure costose, aumenta il Pil, ma il benessere generale probabilmente diminuisce». In sistemi dove la sanità e i servizi essenziali sono a carico dei singoli, come quelli anglosassoni, il Pil risulta dunque sovrastimato e per essi «vale il noto aforisma che l’eroe del Pil americano è un malato di cancro che sta divorziando, probabilmente non l’immagine migliore di una persona felice».

Callaioli descrive due modelli assai diversi per uscire dalla crisi attraverso il cosiddetto “rigore”: quello statunitense e quello tedesco. Il primo è dogma della troika costituita dai responsabili dell’Unione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, a proposito del quale «memorabile resta l’invettiva di Hugo Chávez: “su Marte c’era vita, poi ci ha pensato il Fondo Monetario Marziano”».

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«Economic Sense» e filosofia

Per fortuna temono ancora le parole. Definiscono “governo di tecnici” il governo dei banchieri; chiamano Spending review (insopportabili anglicismi da colonizzati) la sottrazione di risorse alla sanità, ai trasporti pubblici, ai servizi per i cittadini. L’Università è riuscita per ora a evitare che 200 milioni di euro le venissero rubati a favore delle scuole private. Ma l’esercito non è stato in pratica toccato, l’acquisto di centinaia di cacciabombardieri F-35 è in bilancio, lo spreco criminale di soldi pubblici nel Treno ad Alta Velocità è diventato un dogma di fede per tutti i partiti, le spese per far guerra all’Afghanistan e all’Iraq continuano.
Il fatto è che il capitalismo ha vinto le ultime due guerre mondiali: la Seconda sui campi di battaglia e la Guerra fredda sui campi della geopolitica. Chi vince impone le proprie assurdità. Come l’ultraliberismo che il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, docente a Princeton, e Richard Layard, direttore del centro studi della London School of Economics, giudicano un errore rovinoso. Nel Manifesto for Economic Sense da loro promosso e pubblicato sul Financial Times -niente di sovversivo quindi- i due studiosi scrivono tra l’altro:

«Le cause. Molti responsabili politici insistono sul fatto che la crisi è stata causata dalla gestione irresponsabile del debito pubblico. Con pochissime eccezioni –come la Grecia– questo è falso. Invece, le condizioni per la crisi sono state create da un eccessivo indebitamento del settore privato e dai prestiti, incluse le banche sovra-indebitate. Il crollo della bolla ha portato a massicce cadute della produzione e quindi del gettito fiscale. Così i disavanzi pubblici di grandi dimensioni che vediamo oggi sono una conseguenza della crisi, non la sua causa.
[…]
Il Fondo Monetario Internazionale ha studiato 173 casi di tagli di bilancio dei singoli paesi e ha scoperto che il risultato coerente è la contrazione economica. Nella manciata di casi in cui il consolidamento fiscale è stato seguito da una crescita, i canali principali erano un deprezzamento della valuta nei confronti di un mercato mondiale forte, una possibilità non disponibile al momento. La lezione dello studio del FMI è chiara: i tagli al bilancio ritardano la ripresa. E questo è ciò che sta accadendo ora: i paesi con i maggiori tagli di bilancio hanno avuto le più pesanti cadute dell’output». [Una traduzione di questo Manifesto si può leggere su Keynes blog ]

Davvero sono delle affermazioni di buon senso economico, che però il puro ideologismo dei banchieri che governano la finanza mondiale si rifiuta di comprendere e di praticare, preferendo la catastrofe sociale e umana pur di salvare non i popoli ma le banche e le loro operazioni speculative. Banche che se vincono le loro scommesse d’azzardo -questo è di fatto “il Mercato”- incassano il danaro; se perdono, chiedono e ottengono che siano i cittadini a ripianare i loro debiti. È quello che sta succedendo a partire dal fallimento della Banca Lehman Brothers nel 2008.

Armi, guerre, speculazioni finanziarie, totale disinteresse verso le sorti del pianeta mentre la catastrofe ambientale si avvicina inesorabile. Sembra che una vera e propria pulsione autodistruttiva stia dominando i decisori politici e i popoli che ne seguono i dettami. Lo sguardo filosofico tutto questo lo sa. La filosofia è il regno della libertà, è il luogo di un potere altro, un potere senza armi, senza leggi, senza polizie, senza preti, senza banche, senza padroni. Il potere dell’entità che conoscendo se stessa apprende il nucleo dal quale si generano ogni sapienza e ogni luce. Questo senso e questa libertà accadono qui e ora ogni volta che un barlume di intelligenza spezza l’oscurità e fa vedere.

Capitalismo e capitalisti

4.782.400 euro di stipendio annuo, più di 13.102 euro al giorno. Ai quali aggiungere benefit e premi di varia natura e quantità. Questa è la retribuzione di Sergio Marchionne, Amministratore Delegato della Fiat. Il quale è il primo a denunciare il crollo di vendite di automobili in Italia, in particolare di quelle prodotte dalla sua azienda. Mi chiedo come un manager che sta portando la sua azienda al disastro possa guadagnare cifre enormi, invece che essere licenziato. Più in generale, come pensa la Fiat -e ogni altra grande azienda e pure Monti (un robot fuori dalla realtà sociale e ben dentro l’illusione delle banche)– di continuare a vendere i propri prodotti favorendo il licenziamento di coloro che dovrebbero comprarli, diminuendo stipendi e salari, portando le fabbriche all’estero, chiudendo le aziende italiane? Chi dovrebbe acquistare auto e altre merci se si toglie lavoro agli italiani?
A questa domanda Dario Sammartino -ottimo conoscitore, tra l’altro, del mercato automobilistico- mi ha così risposto: «Marchionne non è licenziato perché forse sta ottenendo risultati finanziari utili ai padroni della Fiat. Infatti ormai la Fiat è anche Chrysler, e questa va benone. La Fiat va male in Europa perché non offre prodotti all’altezza dei concorrenti, neanche se fossero costruiti da schiavi senza retribuzione. E non offre prodotti perché non sta investendo: forse Marchionne sta conservando i soldi per completare l’acquisto della Chrysler o per qualche altro intrigo finanziario internazionale: di certo l’Italia non interessa più. In generale, poi, questi grandi manager prendono retribuzioni fuori da qualsiasi legame con i loro risultati, anche se negativi: basti pensare agli amministratori delegati dell’Alitalia o delle Ferrovie»
Questa risposta conferma che la Fiat dopo aver spremuto l’Italia con i soldi elargiti dai governi e sottratti agli italiani, dopo aver contribuito a ricondurre le relazioni industriali a livelli ottocenteschi, dopo aver mentito sulle sue intenzioni, è decisa a lasciare il Paese. Una volta si diceva “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”, ora siamo alla distruzione del lavoro e all’incameramento del bottino. In questo tipo di azioni la Fiat, i suoi padroni e i suoi amministratori delegati sono sempre stati bravissimi. Forse per questo Marchionne merita tutti i soldi che la Fiat gli dà.

Al di là di uno specifico capitalista -l’uno infatti vale l’altro, essendo essi non tanto degli umani quanto delle macchine atte a generare e a incassare profitti- le peculiarità del capitalismo contemporaneo sono ben descritte in un articolo di Maurizio Lazzarato pubblicato sul numero 18 (aprile 2012, pp. 3-4) di alfabeta2:

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Macelli

Piccolo Teatro / Teatro Grassi – Milano
Santa Giovanna dei macelli
di Bertolt Brecht
Trad. di Ruth Leiser e Franco Fortini
Scene di Margherita Palli
Con: Maria Paiato (Giovanna Dark), Paolo Pierobon (Mauler), Giovanni Ludeno (Cridle), Alberto Mancioppi (Weinberg), Roberto Ciufoli (Graham), Francesco Migliaccio (Meyers), Michele Maccagno  (Lennox), Fausto Russo Alesi (Slift), Francesca Ciocchetti (Signora Luckerniddle), Massimo Odierna  (Gloomb), Michele Maccagno (Paulus Snyder), Elisabetta Scarano (Marta), Gianluigi Fogacci (Operaio).
Regia di Luca Ronconi
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa – The State Academic Maly Theatre of Russia, Mosca
Sino al 5 aprile 2012

Chicago. I grandi macelli. Macchine di sterminio a pieno regime negli anni Venti del Novecento, a pieno regime negli anni Dieci del XXI secolo. Secondo alcuni storici quei macelli furono uno dei modelli ai quali il Nazionalsocialismo si ispirò per i suoi Lager. In essi, infatti, l’obiettivo era ed è ottenere il maggior numero di cadaveri nel più breve tempo e con il minor dispendio possibile di energia e di danaro.
Le stesse procedure che massacrano gli altri animali distruggono anche le esistenze degli addetti alle fabbriche/mattatoi. I signori della carne ritengono che cinquantamila o settantamila operai e le loro famiglie possano essere lasciati a casa, licenziati, ridotti in miseria. Si tratta di «plebe senza principi morali». È tra questa plebe che Giovanna Dark cerca di diffondere la Parola del Signore attraverso i sorrisi, i tamburi e le minestre calde dell’Esercito della Salvezza.
All’inizio ingenua sino alla stupidità, Giovanna rivolge discorsi ed esortazioni melense e trascendenti a persone attanagliate dalla fame e dal bisogno. Quando le dicono che il più cinico dei commercianti di carne, Mauler, è la causa della chiusura delle fabbriche, decide di andare da lui. Nonostante Mauler cerchi di nasconderle la propria identità, Giovanna lo riconosce subito tra i mercanti e gli industriali che affollano la Borsa della carne, esattamente come Jeanne D’Arc riconobbe il Delfino di Francia pur non avendolo mai visto prima. Quale caratteristica spinge così risolutamente Giovanna verso Mauler? «Perché sei quello che ha la faccia più sanguinaria».
Il radicalismo di Giovanna giunge sino a cacciare dalla Missione gli industriali. I capi dell’Esercito della Salvezza, che dei soldi di quella gente hanno bisogno, non glielo perdonano e la costringono a lasciare l’organizzazione. Sola, senza lavoro, affamata, Giovanna si reca da Mauler, che cerca di comprare la sua collaborazione e la sua stima. Invano. Mentre l’azzardo dei mercati carnal-finanziari giunge all’estremo e sembra condurre tutti alla rovina, Giovanna si ammala di stenti e di polmonite sino a morirne. Ma ormai ha compreso i propri errori e le è chiara la complicità dei moralisti e delle chiese con il male e con l’ingiustizia: «Com’ero ben accetta agli oppressori! Oh bontà senza conseguenze! O mente ottusa! Non ho mutato nulla. Mentre velocemente scompaio da questo mondo senza paura io vi dico: pensate, per quando dovrete lasciare il mondo, non solo a essere stati buoni, ma a lasciare un mondo buono!».
In quest’ultima affermazione c’è molto del teatro didattico e politico di Brecht. La bontà personale è rispettabile ma serve a poco se essa non si fa veicolo e modo di una trasformazione collettiva, di una metamorfosi delle strutture, di giustizia sociale.
I commercianti/industriali appaiono conficcati dentro le scatolette che producono. Un’invenzione registica di grande efficacia, che così viene descritta da Ronconi: «Quelli di Beckett sono proprio bidoni di immondizia, mentre io uso delle grandi scatole di carne che portano con grande evidenza la marca: proprio quello che fabbricano al mattatoio di Chicago. Ho subito pensato di mettere gli operatori di quel mercato nel loro prodotto» (Programma di sala, p. 16). Efficaci sono anche i video che appaiono di tanto in tanto dietro gli attori e nei quali gli operai hanno tutti lo stesso viso e Giovanna assume i volti più diversi. L’uomo massa è uniforme e chi tenta di liberare le masse rischia la stessa uniformità.
Le convinzioni politiche comuniste di Brecht non gli impediscono dunque di cogliere la miseria umana in quanto tale e non soltanto quella delle strutture storiche nelle quali essa si esprime. E tuttavia uno degli elementi più preziosi di questo testo -che è del 1929- e della sua messinscena oggi è l’impressionante attualità di alcuni passaggi, in particolare del patologico dominio del mercato.
La messa in scena del Piccolo corre sul limine dell’innovazione e del rischio. Ronconi, infatti, intende esplicitamente allontanarsi dalla vulgata brechtiana, dai suoi obblighi didascalici e rituali, per andare -anche attraverso numerosi tagli, primi tra tutti quelli delle scene corali- al nucleo estetico e antropologico dell’opera. In ogni caso questo teatro rimane -chiunque lo metta in scena- epico, profondo, militante.

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