Sabato 9 novembre 2024 alle 10.00 si svolgerà al Disum di Catania, con il patrocinio dell’ASFU, un seminario di studi dal titolo Guerre costituenti e nuovo ordine economico. Vi parteciperò con un intervento sulle esperienze neocoloniali del XXI secolo.
Colonialismi e imperialismi sono esperienze costanti della storia umana in molte zone ed epoche del pianeta. Alcuni esempi:
-il conflitto tra Atene e i Meli raccontato da Tucidide: «Chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (La guerra del Peloponneso, V, 89; p. 1321). «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (V, 105; p. 1325).
-la lunga esperienza dell’Impero romano
-la spartizione dell’Africa tra le potenze europee nella Conferenza di Berlino del 1884
-l’impero britannico tra Otto e Novecento.
Una delle differenze tra le esperienze coloniali del passato e quelle del presente è naturalmente la dimensione globale che il neocolonialismo del XXI secolo tende ad avere. Il termine globalizzazione indica anche questa dinamica.
Uno degli elementi di continuità tra vecchi e nuovi colonialismi è invece la giustificazione etica che le forze colonialiste danno a se stesse in nome di una qualche morale: il diritto, la religione cristiana, la civiltà, la democrazia, l’accoglienza, l’inclusività e altri valori.
I beni comuni oltre lo stato e il mercato
Aldous, 25 settembre 2024
Pagine 1-2
In questo articolo ho cercato di mostrare come il concetto di proprietà dominante nella società e nell’economia occidentale contemporanea non sia affatto naturale ma sia ovviamente storico. In quanto tale ha delle alternative, delle quali anche la storia di molti popoli e civiltà conferma la plausibilità. I beni comuni sono infatti una delle alternative ben presenti nella storia economica. Essi hanno costituito per millenni la forma più diffusa di proprietà. Nella Roma repubblicana, ad esempio, e persino in quella imperiale, neppure il capo politico più autocratico poteva rendere la res communis una proprietà privata. E non poteva neppure vendere o acquistare le terre e i beni sacri, che erano moltissimi e appartenevano agli dèi.
Tra la cosa pubblica e la cosa privata si dà quindi la cosa comunitaria, i beni essenziali a una comunità strutturata, che nessuno può fare propri a esclusione degli altri ma che non possono neppure essere aperti a chiunque non appartenga a quella determinata comunità. Possono infatti esistere dei beni comuni soltanto là dove esistono delle comunità che si riconoscono come tali, in un perimetro fisico e concettuale ben preciso ma che può naturalmente restringersi o ampliarsi nei diversi contesti, anche nei più complessi come quelli che caratterizzano le società contemporanee. Ho poi collegato i beni comuni alla critica delle pratiche schiavistiche ben presenti nel nostro tempo e nel nostro mondo.
Che cosa Marx può dirci oggi? Rileggendo Althusser
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
16 giugno 2023
pagine 1-6
Per Marx e oltre Marx. Dopo il XX Congresso del PCUS (1956), che per il movimento comunista mondiale fu trauma ma fu anche slancio, nella complessa e aperta contingenza degli anni Sessanta, uno dei più rigorosi filosofi marxisti elabora un’interpretazione delle opere di Marx che le libera da vari miti teoretici invalidanti e restituisce significato, obiettivi e complessità a opere come i Manoscritti economico-filosofici, L’Ideologia tedesca, Il Capitale. Il risultato è l’apertura del paradigma marxiano non alle ‘scienze umane’ ma all’epistemologia e alla metafisica.
È anche la piena consapevolezza epistemologica a generare una lettura del tutto corretta e plausibile del marxismo come filosofia antiumanistica. Un antiumanesimo teorico che è condizione della conoscenza «del mondo umano stesso, e della sua trasformazione pratica. Si può conoscere qualcosa degli uomini soltanto alla condizione assoluta di ridurre in cenere il mito filosofico (teorico) dell’uomo».
Il frutto del radicale rifiuto dell’umanesimo è un’apertura alla complessità della storia e degli eventi che rimuove la dimensione psicologica, volontaristica e ‘spirituale’ a favore invece della necessità insita nei processi dei quali gli umani non sono le guide ma una semplice parte.
Per Marx di Louis Althusser è pervaso di una serietà della politica senza la quale la πόλις si riduce a puro spettacolo.
Per chi rifletta sulle imminenti elezioni politiche italiane senza ripetere quanto televisioni e giornali dicono e cercando invece di ragionare con un minimo di oggettività su quanto è accaduto nella Legislatura che si chiude, la prima decisione consiste nel non votare – non poter votare – le forze politiche che hanno sostenuto il Governo Draghi: Partito Democratico, Lega, Movimento 5 Stelle, Forza Italia e altre formazioni minori. Né è possibile votare per l’unica forza parlamentare che apparentemente non ha sostenuto tale governo, vale a dire Fratelli d’Italia, la cui opposizione è stata inconsistente e il cui programma si propone di rafforzare l’elemento centrale che ha guidato l’azione dell’ultimo Governo: la subordinazione in ogni campo alle decisioni degli Stati Uniti d’America, il rafforzamento della NATO, la continuazione della guerra contro la Russia.
Infatti la sottomissione totale agli USA e la continuazione del conflitto tra NATO e Russia in territorio ucraino costituiscono il culmine di un’azione volta a danneggiare l’Europa per eliminare un competitore economico ancora forte in un momento nel quale la potenza statunitense mostra consistenti segni di cedimento rispetto alla Cina, all’India e alla sempre più chiara insofferenza del continente latino-americano nei confronti del suo tradizionale padrone.
Anche quanto accaduto con la vicenda Sars-Cov2 si inscrive in una dinamica di progressivo asservimento del corpo collettivo; di sottrazione di autonomia rispetto alle fonti di informazione governative; di attacco alle libertà della persona; di tramonto dello spirito critico rispetto all’accadere; di trasformazione dell’atteggiamento scientifico nell’atteggiamento opposto, con la ripetizione omiletica di dogmi, prescrizioni, terrori.
Uno degli effetti di questo attacco alle libertà e alla critica è stato l’accoglimento quasi unanime di una guerra le cui motivazioni «democratiche» e di principio sono chiaramente risibili e sono invece strumentali all’impoverimento dell’Europa e dell’Italia. Un Paese in ginocchio a causa del Covid ma al quale si sottraggono risorse finanziarie, si impone l’aumento dei costi dell’energia, si infliggono chiusure di aziende, si impoveriscono scuole e università, si prospetta un inverno di fame e di freddo pur di finanziare il Governo dell’Ucraina con miliardi di euro provenienti dall’Italia sotto forma di armi, donazioni, cooperazione, prestiti a fondo perduto. Viene così inflitto alla società italiana un danno enorme, qualcosa di veramente inaudito.
In poche parole: il Governo Draghi è stato ed è un nemico dell’Italia; ogni sua continuazione sotto altri nomi e sigle – come quelli del Partito Democratico o di Fratelli d’Italia e i loro rispettivi alleati – sarebbe una sciagura che gli italiani pagheranno con l’impoverimento economico e culturale più consistente dalla Seconda guerra mondiale in avanti, mediante l’aggravarsi – ad esempio – del dissesto idrogeologico (con le relative catastrofi ‘naturali’); con la mancata manutenzione e ricostruzione delle aree compromesse e distrutte; con gli stipendi e le pensioni al limite della sopravvivenza; con la gravissima situazione sanitaria, con ospedali chiusi o ridimensionati e dove in un Pronto soccorso si può attendere per decine di ore prima di essere visitati.
Per chi intende votare, è dunque necessario rivolgersi a liste e a proposte politiche che non sono state complici del recente disastro. La più convincente tra queste formazioni a me sembra Italia sovrana e popolare. Me lo fanno pensare la partecipazione ad alcune sue manifestazioni a Milano, la modalità di comunicazione – che non attacca altre forze alternative ma si volge contro i partiti dell’attuale Governo – e soprattutto un’attenta lettura dei suoi programmi.
Pubblico dunque qui sotto il pdf del programma di questo partito, con le mie evidenziazioni e anche qualche perplessità.
–Italia Sovrana e Popolare / Programma politico
Provo comunque a riassumere le proposte più convincenti, indicando in quale dei 10 punti del documento si trovano:
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- Chiediamo il ripristino del principio di autodeterminazione al trattamento sanitario da parte del paziente e della libertà terapeutica in scienza e coscienza da parte del medico.
- Chiediamo il ritorno in ogni settore lavorativo e in ambito scolastico a condizioni normali di operatività, con l’abbandono di tutte le misure straordinarie introdotte all’insegna dell’emergenzialismo sanitario (punto 2).
Il sistema sperimentato col green pass deve restare un ammonimento a futura memoria su ciò che non deve mai più accadere.
- Chiediamo di imporre il divieto assoluto per le banche e i gestori di portafogli elettronici di chiudere i conti dei clienti o rendere indisponibili i loro fondi, se non in seguito a un’ordinanza della magistratura.
- Chiediamo un’attenta valutazione, e un freno, a tutti i processi di estensione della sorveglianza sulla popolazione attraverso l’accesso ai dati su internet e in generale nella rete delle telecomunicazioni (punto 5).
- Chiediamo la riconversione degli allevamenti intensivi perché forieri di farmacoresistenza, grave inquinamento, carni di bassa o nulla qualità, maltrattamento animale (punto 8).
La scuola non dev’essere un’azienda e non deve formare né consumatori né ingranaggi sociali, ma cittadini.
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- Chiediamo l’abbandono del modello di scuola-azienda, la fine della cosiddetta “autonomia scolastica” che ha supportato tale modello aziendale, e l’abolizione della figura del dirigente scolastico-manager.
- Chiediamo l’abbandono della “didattica per competenze” e dell’alternanza scuola-lavoro, che sottrae sterilmente (quando non pericolosamente) centinaia di ore alla didattica e allo studio.
- Chiediamo la sburocratizzazione del lavoro degli insegnanti, scolastici e universitari, chiamati sempre di più a compiti organizzativi ed amministrativi e con sempre meno risorse da dedicare a studio e didattica. Abolizione dell’Invalsi.
- Rivendichiamo fermamente la libertà d’insegnamento, come da dettato costituzionale, libera dai condizionamenti delle pressioni economiche e dai dettami del politicamente corretto (punto 9).
- Promuoviamo una cultura ancorata alla natura e alla storia, che respinga agende di ispirazione transumanista, relativistica e nichilista, che prenda le distanze da progetti di ingegneria genetica quanto di ingegneria sociale (punto 10).
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È, questa, soltanto una selezione di argomenti, quelli più vicini alla mia sensibilità e ai miei interessi. Invito a leggere il programma per intero, un testo peraltro breve e assai chiaro.
Il 25 settembre mi troverò in Sicilia e le attuali leggi non mi permettono di votare fuori dalla città di residenza. Invito dunque i miei amici e i lettori che condividono almeno in parte quanto qui ho scritto a votare anche per me. Grazie.
Il presente come dissoluzione. Questo si osserva ogni giorno e sempre di più. Forme di dissipatio del legame sociale sono il liberismo e il capitalismo. In contrasto con le società tradizionali, infatti, «dove le relazioni economiche sono incastonate in un tessuto di relazioni comunitarie (politiche, religiose, simboliche), il capitalismo si caratterizza per una quasi completa autonomia dell’economia: le interazioni sociali motivate dall’interesse individuale dominano qualunque altra forma di interazione non utilitaria o di interesse comunitario. Questa tesi, che è diventata classica a seguito della pubblicazione del lavori di Karl Polanyi e di Louis Dumont, deve costituire il punto di partenza di ogni seria analisi del capitalismo» (Guillaume Travers, Trasgressioni. Rivista quadrimestrale di cultura politica, n, 67, settembre-dicembre 2021, p. 3).
Una prova della costitutiva irresponsabilità collettiva che inerisce al capitalismo è l’invenzione, fondamentale ai suoi scopi, delle «società anonime», delle aziende a responsabilità limitata, strumento che nella sua apparente tecnicità costituisce in realtà «una causa cruciale della devastazione moderna del mondo» (ibidem). La ragione è abbastanza evidente: «se una strategia arrischiata porta i suoi frutti, tutti i profitti sono per gli azionisti; se, viceversa, fallisce, le perdite degli azionisti sono limitate all’ammontare del loro apporto iniziale. In questo caso, le perdite residue sono sostenute da terzi, dai creditori dell’impresa o dalla società nel suo insieme» (19).
Le «società a responsabilità limitata» hanno prodotto monopoli, truffe, iniquità sempre più estese, sino ad arrivare, come previsto dall’analisi marxiana, a poche aziende che decidono i destini degli stessi Stati, il cosiddetto GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Si tratta non a caso di aziende il cui cuore è costituito dal digitale. È lo spirito del tempo, certo; è lo sviluppo di tecnologie assai comode, certo. Ma è anche segno e sostanza di un altro carattere del liberismo/capitalismo: l’astrattezza.
Le società anonime sono per definizione indifferenti alla concretezza, alla realtà delle persone e dei corpimente con un nome e cognome, alle motivazioni degli investitori, alle loro storie, indifferenti alle vite e al reale. Il capitale, infatti, «vale ormai soltanto come entità astratta. Ogni centesimo ormai equivale ad un altro. Per questo l’emergere della società anonima può essere visto come l’atto di nascita, in materia di diritto economico, del capitalismo. Il capitalista è colui che si lega agli altri esclusivamente attraverso il capitale, con apporti di fondi anonimi, senza impegnarsi in alcuna relazione interpersonale» (16).
Dissipatio e astrazione sono due caratteristiche che il liberismo condivide con uno dei suoi frutti ideologici più pericolosi, il wokismo. Cosi l’analisi sociologica definisce il fenomeno di vittimizzazione sistematica, Victimhood Culture, da parte di individui e gruppi che si sentono oppressi da altri individui e gruppi senza che i gruppi e gli individui definiti oppressori se ne debbano necessariamente rendere conto, anzi tanto più vengono ritenuti ‘colpevoli’ quanto meno ne sono consapevoli. «Secondo Campbell e Manning, la cultura della vittimizzazione si differenzia tanto dalla cultura dell’onore quanto dalla cultura della dignità. Queste ultime due dominavano rispettivamente le società tradizionali e la modernità» (Pierre Valentin, p. 45). L’origine teoretica del wokismo è invece il postmoderno, esattamente una sua particolare interpretazione per la quale il fatto che ogni forma del sapere sia anche un’espressione di potere conduce all’irrazionale conseguenza che vada demolito ogni edificio di conoscenza, vada negata ogni neutralità/oggettività e il moralismo debba sostituire ogni altra forma di atteggiamento verso il mondo.
Si tratta di un fenomeno sorto naturalmente nella patria del liberismo e del capitalismo contemporanei, gli Stati Uniti d’America. Sue espressioni ormai note sono il Politically correct e la Cancel Culture, che si esprimono in forme sempre più virulente, violente, intolleranti, in particolare nell’ambito delle idee e della ricerca: «Il discorso woke che relativizza (o giustifica) il ricorso alla violenza nei confronti di tali oppositori svolge un ruolo particolarmente pernicioso nell’autocensura universitaria» (67).
Le ricerche sul fenomeno hanno evidenziato che negli USA studenti e militanti woke provengono per lo più da classi agiate: «la correlazione fra alti redditi dei genitori e comportamenti woke è innegabile» (50); provengono da famiglie iperprotettive, per le quali ogni più piccolo conflitto e osservazione critica verso i propri figli costituisce un intollerabile rischio di «trauma psicologico»; provengono dunque da ambienti nei quali c’è sempre un terzo, un adulto a risolvere il conflitto. E infatti la cultura woke produce un ramificato proliferare di comitati etici, commissioni di controllo, uffici per la protezione delle vittime, il cui scopo è la censura delle opinioni che possano apparire offensive a chiunque si proclami minoranza: «la cultura della vittimizzazione incoraggia la capacità di offendersi e di regolare i conflitti tramite gli interventi di terzi: lo status di vittima diviene oggetto di sacralizzazione» (46).
Ulteriori espressioni del wokismo sono la non scientificità delle sue asserzioni, in quanto esse sono tendenzialmente fideistiche e infalsificabili; la possibilità di costruire su di esso intere carriere accademiche e mediatiche, producendo una vera e propria corsa alla concorrenza vittimaria (competitive victimehood): «una volta che si sono tuffati in questo paradigma, poiché la loro sopravvivenza accademica dipende dalla capacità di scovare ingiustizie razziali invisibili ai comuni mortali, questi teorici sono costretti a ‘scoprirne’ molte altre. È l’ultima tappa del postmodernismo» (41); la forte componente di fanatismo, per la quale ‘o si è con me o contro di me’: «coloro che coltivano la cultura della vittimizzazione cercano generalmente di imporre un contesto binario al quale è impossibile sfuggire, il che ha l’effetto di impedire ai semplici passanti una posizione di neutralità o di indifferenza» (48).
L’atteggiamento moralistico che vede agire in ogni relazione il dispositivo vittima/oppressore costituisce dunque l’ennesima manifestazione delle tendenze più violente e oscure che sono sempre presenti nelle società umane e che diventano particolarmente aggressive quando in nome del Bene moltiplicano in realtà la violenza, l’uniformità, il controllo, la censura. In tali casi, ed è ciò che sta accadendo in molte università anglosassoni, la ricerca scientifica, sia nell’ambito delle scienze quantitative sia in quello delle scienze ermeneutiche, viene assoggettata in modo sistematico a imperativi di tipo morale, sino a pervenire a esiti come questi: «da diversi anni gli appelli a ‘decolonizzare’ le matematiche (o addirittura la luce) si moltiplicano, e nell’estate 2020 si è verificata una disputa attorno al tema ‘2+2=5’» (68).
Il piano inclinato del politicamente corretto/moralismo conduce dunque e inevitabilmente all’irrazionalismo.
Recensione a:
Eugenio Mazzarella
Europa Cristianesimo Geopolitica
Il ruolo geopolitico dello ‘spazio’ cristiano
Mimesis Edizioni, 2022
Pagine 102
in Discipline Filosofiche, 4 aprile 2022
Il filosofo, l’europeo, il cristiano Eugenio Mazzarella presenta in questo denso e agile volume un vero e proprio manifesto per l’ecumene contemporanea. Ecumene cristiana ed ecumene umana, che per l’autore sono intrecciate e inseparabili. L’analisi parte dall’esplicito riconoscimento del mysterium iniquitatis nel quale siamo immersi, dello «scempio del male» che «non cessa di farsi avanti» e che assume forme molteplici, la più pervasiva e distruttiva delle quali è una globalizzazione mediante e dentro cui l’istanza liberista si è fatta «egemonica nella finanziarizzazione dell’economia a partire dagli anni ’80 in un’ottica di pura massimizzazione del profitto come lex mercatoria, primato indiscusso ed introiettato nello spazio pubblico e dei decisori economici e politici dell’homo oeconomicus del “libero mercato”».
Le radici profondamente corporee della filosofia di Mazzarella diventano qui uno dei fondamenti di una proposta politica, antropologica e soprattutto culturale assai chiara, inattuale e anche per questo coraggiosa, che la si condivida o meno. La lucidità e l’afflato di molte pagine del libro gli danno una tonalità malinconica, realistica e utopica. Una tonalità emblematica del cammino politico e teoretico di Mazzarella.
Sulla stessa rivista è stata oggi pubblicata una recensione di Enrico Palma al libro che Andrea Pace Giannotta ha dedicato alla Fenomenologia enattiva. Mente, coscienza e natura.
Entrambi sono miei allievi e rivolgo a tutti e due i più vivi complimenti 🙂
Piccolo Teatro Strehler – Milano
Furore
Dal romanzo di John Steinbeck
Ideazione e voce Massimo Popolizio
Adattamento Emanuele Trevi
Musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio
Produzione Compagnia Umberto Orsini / Teatro di Roma-Teatro Nazionale
Sino al 20 giugno 2021
The Grapes of Wrath, è il titolo del romanzo di John Steinbeck (1939). Un titolo biblico, naturalmente: «L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio» (Apocalisse, 14,20; traduzione CEI).
I grappoli dell’ira, dell’odio e del furore maturavano come frutto acre della polvere e della siccità, delle alluvioni e della catastrofe che colpirono negli anni Trenta del Novecento il cuore degli Stati Uniti d’America, spingendo masse di contadini rovinate e miserabili verso il sogno della California. Dove trovarono «prima compassione, poi disgusto, infine odio», trovarono altra miseria. L’ira, l’odio, il furore furono tuttavia il frutto amaro non della natura ma del capitalismo. Furono infatti le banche ad accaparrarsi le terre espellendo i contadini; furono i mercati a distruggere quantità enormi di frutta e ortaggi in California proprio mentre i contadini morivano di fame; furono i proprietari terrieri e immobiliari a diffondere volantini invitando i contadini ad andare in California, in modo da abbattere i salari e trasformare i vecchi e nuovi lavoratori in schiavi. Non la polvere e le bufere ma l’esercito industriale di riserva produsse la rovina, l’odio, il furore. Una lezione marxiana che i sedicenti ‘progressisti’ non imparano mai, auspicando oggi l’arrivo in Europa di lavoratori dall’Africa e dal Vicino Oriente, disposti a qualunque salario pur di giungere e rimanere, rovinando in questo modo i lavoratori europei e moltiplicando i profitti delle piccole e grandi aziende. Il capitalismo è borderless, è senza patria, è senza confini. Come senza limiti è la rovina prodotta dai buoni sentimenti che ignorano la complessità delle strutture antropologiche e politiche delle società umane.
Nel caso dei contadini americani, poi, si vide all’opera anche la potenza della Nέμεσις contro i contadini bianchi e protestanti che avevano sterminato i pellerossa distruggendo le loro vite, cancellando le loro culture, appropriandosi delle terre che poi le banche sottrassero loro.
Il frutto di tutto questo male -del genocidio, dell’avidità, del capitalismo- fu la fame, semplicemente e orrendamente la fame. Che la vocalità, le posture, gli sguardi, le pause, i toni di Massimo Popolizio e le percussioni di Giovanni Lo Cascio restituiscono nelle sue radici antiche, nella sua immediata potenza, nella sua estensione a ogni attimo della vita e del tempo. La fame che arriva con la polvere; che arriva con i trattori delle banche che spianano le terre e persino le case dei contadini; che arriva con i falò delle masserizie abbandonate; che arriva con le automobili incolonnate lungo la Route 66 (Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona, California); che arriva con le stesse auto in panne, guaste, rabberciate, abbandonate; che arriva con i decreti (anche sanitari!) e i fucili delle autorità californiane; che arriva con la disperazione, come disperazione. La fame, la radice vera della storia umana come storia di mammiferi acculturati.
«How can you frighten a man whose hunger is not only in his own cramped stomach but in the wretched bellies of his children? You can’t scare him – he has known a fear beyond every other».
(The Grapes of Wrath, The Modern Library, New York 1939, cap. 19, p. 323)