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«Impossibile che le sembri grande»

«E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’» (Genesi, 1, 26). Di fronte alla presunzione e alla tracotanza di chi si crede addirittura immagine di Dio, quanto più saggia suona l’ironia dei Greci. Con quale senso di esultanza e di liberazione Nietzsche dichiara «allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…» (Umano, troppo umano I, af. 628); il brano platonico così si conclude: «…bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).
Rispetto al regno sterminato dell’essere, al filosofo platonico la natura umana non può che apparire insignificante: «E a quella mente in cui alberga la possibilità straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto pensi che possa sembrare grande la vita di un uomo? – Impossibile che le sembri grande, disse» (Repubblica 486 a).
Sì, impossibile che le sembri grande. La vita di ciascuno e la vita della specie. Anche perché «le nostre mani, la conformazione del bacino, la posizione degli occhi, il tipo di metabolismo, la struttura del nostro apparato gastroenterico parlano di una posizionalità adattativa e non di un’immagine della divinità» (Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda, 2014, p. 61).
Anche questo è la scienza, anche questo è la filosofia: un paziente ricondurre ogni volta il bambino umano, che si crede il re del mondo, alla sua misura di ‘posizionalità adattativa’ dentro lo sconfinato splendore della materia.

Spinoza

Il problema Spinoza
(The Spinoza Problem, 2012)
di Irvin D. Yalom
Trad. di Serena Prina
Neri Pozza Editore, 2013
Pagine 444

«Il mio professore affermava che Spinoza era l’uomo più intelligente che avesse mai posato il piede sulla terra» riferisce il dottor Pfister, uno dei personaggi del romanzo (pag. 236). Affermazioni come queste sono naturalmente sempre iperboliche ma nel caso di Bento Spinoza si avvicinano molto alla realtà. La figura, l’opera, le idee di questo filosofo hanno costituito sempre “un problema” per ogni individuo e ogni comunità arrancanti dietro un dogma nell’accidentato percorso del vivere. Spinoza, infatti, fu soprattutto un uomo che pose al centro della propria esistenza la libertà dalle verità rivelate e dalle passioni, «la libertà di pensare, di analizzare, di trascrivere i pensieri poderosi che gli echeggiavano nella mente» (108). Obiettivo e modalità di vita del tutto incompatibili con ogni chiesa e ogni religione. Che si tratti di ebraismo (la concezione di vita nella quale venne educato), di cristianesimo, di islamismo o d’altro, «le autorità religiose di tutti i generi cercano di impedire lo sviluppo delle nostre facoltà razionali» pensava Bento (165). Tali autorità cercano infatti di tenere gli umani sotto controllo tramite l’alternarsi di paure e di speranze, paura delle punizioni terrene ed eterne, speranza che il singolo possa sopravvivere per sempre, al di là della sua morte. Spinoza desiderava invece vivere libero da tali emozioni e per questo auspicava «la fine di tutte le tradizioni che interferiscono con il diritto di chiunque di pensare con la sua testa» (248) e si oppose quindi non soltanto ai dogmi dell’ebraismo ma anche al culto idolatrico che gli ebrei rivolgono verso la Scrittura. Il risultato fu il cherem del 27 luglio 1656, una scomunica e una maledizione implacabili, che Yalom riporta per intero alle pagine 200-201. Ne trascrivo qui una parte, con una diversa traduzione:

«In conformità alla decisione degli angeli e al pronunciamento dei santi, secondo l’ispirazione del sommo Iddio e l’approvazione di questa comunità, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e scacciamo Baruch de Espinoza. […] Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si posa e sia maledetto quando si leva, sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Che Dio non lo perdoni mai! Che l’ira e il furore di Dio si infiammino contro quest’uomo e su di lui riversino tutti gli anatemi e le maledizioni che sono iscritti nei libri della Legge. Dio annienterà il suo nome sotto il cielo e lo separerà, per il suo male, da tutta la stirpe d’Israele con tutte le maledizioni del cielo che sono iscritte nei libri della Legge. […]  Noi ordiniamo che nessuno abbia rapporti con lui né orali né scritti, che nessuno gli presti alcun soccorso, che nessuno stia mai insieme a lui sotto un tetto o nel raggio di quattro passi, che nessuno legga mai un’opera scritta e pubblicata da lui».

«Durante la lettura di questa maledizione si sentiva di tanto in tanto cadere la nota lamentosa e protratta di un grande corno; le luci che si vedevano ardere brillanti al principio della cerimonia, vennero spente ad una ad una, a mano a mano che si procedeva, fino a che alla fine si spense anche l’ultima, simboleggiando l’estinzione della vita spirituale dello scomunicato, e l’assemblea rimase completamente al buio»1.
Che cosa scatenò una simile violenza da parte della comunità sefardita di Amsterdam? È anche a tale domanda che cerca di rispondere questo «romanzo di idee», come lo definisce il suo autore (7), strutturato in una trama che alterna l’Olanda del Seicento con la Germania del XX secolo. Yalom prende infatti spunto dall’espressione che si legge nel rapporto steso da un ufficiale nazionalsocialista in occasione della confisca attuata nel 1942 -dai reparti speciali di Alfred Rosenberg- dei 151 volumi della Biblioteca di Spinoza a Rijnsburg, presso la casa-museo dedicata al filosofo. In tale rapporto (siglato nel processo di Norimberga come “documento 17b-PS”) si accenna alla necessità della confisca anche in relazione all’«esplorazione del problema Spinoza» (426 e 439). Da questo accenno Yalom fa partire una storia che ha come protagonista, insieme a Spinoza, l’ideologo del Partito Nazionalsocialista Alfred Rosenberg, il cui totale antisemitismo razziale si immagina essere stato turbato sin dagli studi liceali dal sapere quanto e come Spinoza fosse stato venerato da alcuni dei più grandi filosofi e artisti tedeschi, tra i quali Hegel, Schopenhauer, Nietzsche e soprattutto Goethe, il quale afferma che la lettura dell’Ethica contribuì in modo determinante a restituirgli serenità e fiducia nella razionalità umana. In una pagina di Poesia e verità Goethe riconosce in tutta la sua ampiezza l’influsso esercitato da Spinoza su di lui: «Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo di foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell’Ethica di quest’uomo. Non saprei render conto di quello che ho tratto dalla lettura di quell’opera, di quel che ci ho messo di mio: basti dire che vi trovai un acquietamento delle passioni, e parve che mi si aprisse un’ampia e libera veduta sul mondo sensibile e morale. Ma quel che mi avvinse di più fu lo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni massima. Quelle parole singolari: “Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio a sua volta lo ami” con tutte le premesse su cui si basano, con tutte le conseguenze che ne derivano, riempirono tutta la mia facoltà di riflessione»2.
Yalom suppone che Rosenberg fosse stato tormentato per tutta la vita dalla profonda ammirazione e gratitudine dell’‘ariano’ Goethe verso l’‘ebreo’ Spinoza e su questo inventa una storia plausibile, affascinante e originale nell’alternarsi di epoche, di uomini, di tragedie. Il valore filosofico del romanzo sta nel suo essere intessuto e percorso da moltissime citazioni tratte dai libri di Spinoza. Tra queste ricordo soltanto due brani: nella prefazione alla terza parte dell’Ethica Spinoza afferma che «humanas actiones atque appetitus considerabo perinde ac si quæstio de lineis, planis aut de corporibus esset», vale a dire – come scrive Yalom – che intende «trattare le azioni, i pensieri e gli appetiti umani proprio come se fossero composti di linee, piani e corpi» (275); le parole con le quali si chiude l’Ethica sono queste: «Sed omnia præclara tam difficilia quam rara sunt» che qui diventano «Tutte le cose eccellenti sono difficili, poiché sono rare» (412). Ma il libro, e questo è un suo limite consistente, è anche impregnato di psicoanalisi, la quale può certamente illuminare molte delle ragioni profonde dei sentimenti e dei comportamenti umani ma che qui appare come l’unica capace di pervenire alle loro radici3.
Il pensiero e l’esistenza di Bento Spinoza non possono essere ricondotti a una psicologia del profondo bensì a una metafisica razionalistica che però è ben consapevole della natura umana, per la quale -come sintetizza correttamente Yalom- «solo un’emozione più forte può avere la meglio su un’altra emozione. Il mio compito è chiaro: devo imparare a trasformare la ragione in una passione» (285); la prop. 14 della IV parte dell’Ethica afferma infatti che «vera boni et mali cognitio quatenus vera nullum affectum coercere potest sed tantum quatenus ut affectus consideratur (la vera conoscenza del bene e del male non può impedire nessuna passione in quanto vera, ma soltanto in quanto è considerata come passione essa stessa)». Spinoza riconosce che le passioni costituiscono la potenza più grande e quindi l’uomo saggio trasforma la conoscenza nella passione suprema, l’unica in grado di sottomettere tutte le altre. Parte fondamentale di tale metafisica è la concezione della mente umana come identica alla corporeità -modi diversi della stessa sostanza-, mente la cui potenza consiste anche nel determinare «quello che è spaventoso, privo di valore, desiderabile, inestimabile, e quindi è la mente, e solo la mente, che deve essere modificata» (32).
E Rosenberg? E i nazionalsocialisti? Di fronte a uomini come Spinoza, Goethe, Nietzsche, il manipolo di sedicenti Übermenschen che si raccolsero intorno a Hitler non possono che apparire -non soltanto in questo romanzo ma in ogni ricostruzione storica e biografica- come dei soggetti del tutto ignoranti e ottusi nel loro ripetere all’infinito e in modo ossessivo il mantra della razza; gente capace di semplificare in modo rozzo ogni più complessa questione. Tra costoro Rosenberg fu l’ideologo del regime, le cui astrusità nessuno però prendeva sul serio, neppure il suo Führer, al quale rimase tuttavia fedele sino alla fine, sino a Norimberga e all’impiccagione: «A differenza degli altri imputati, Rosenberg non ritrattò mai. Alla fine rimase l’unico a crederci ancora veramente» (432-433). Esempio chiaro di come ben poco si possa fare quando un coacervo di passioni domina gli umani. Quel coacervo che l’intera filosofia di Spinoza cerca di sciogliere, illuminare, capovolgere in saggezza. È anche per questo, per il modo in cui lo ha fatto, che Spinoza è davvero uno degli uomini più intelligenti e più liberi che siano mai esistiti.

Note

1 Emilia Giancotti Boscherini, Baruch Spinoza 1632-1677, Dichiarazione rabbinica autentica datata 27 luglio 1656 e firmata da Rabbi Saul Levi Morteira ed altri, Roma, Editori Riuniti 1985, pp. 13 e sgg.

2 In F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza 1984, p. 194; testo citato in parte da Yalom a p. 58. Nietzsche così ricorda la venerazione di Goethe per Spinoza: «Spinoza, di cui Goethe diceva: “mi sento molto vicino a lui, benché il suo spirito sia molto più profondo e puro del mio”,- chiamandolo talvolta il suo santo» (Frammenti postumi 1887-1888, in «Opere», vol. III/2, 9 [176], p. 91).

3 L’Autore è psichiatra alla Stanford University e già in E Nietzsche pianse (Rizzoli 1993) ricostruiva il pensiero nietzscheano a partire da un incontro immaginario tra Nietzsche e Josef Breuer, di fatto uno dei fondatori/ispiratori della psicoanalisi.

 

Madri

La sposa promessa
(Lemale Et HàChalal)
di Rama Burshtein
Con: Hadas Yaron (Shira), Irit Sheleg (Rivka), Yiftach Klein (Yohai), Chayim Sharir (Aharon), Hila Feldman, Razia Israeli (la zia Hanna), Renana Raz (Esther)
Israele, 2012
Trailer del film

Una madre muore dando alla luce il suo primogenito. La madre della defunta è disperata alla prospettiva che il genero si risposi portando via con sé il nipotino. Chiede dunque alla propria figlia minore di sposare il cognato, fare da madre al bambino e rimanere tutti vicini. La giovane Shira aveva altri desideri ed è combattuta tra il senso del dovere verso la madre e l’aspirazione a costruirsi una propria esistenza sposando l’uomo che ama. Incerta sino allo spasimo, farà la sua scelta il cui esito rimane tuttavia radicalmente ambiguo, come mostrano gli ultimi belli e drammatici minuti del film.
Questo accade a Tel Aviv, all’interno di alcune famiglie dell’ebraismo ortodosso e chassidico (quelle, per intenderci, i cui maschi indossano ovunque cappelli e cappotti neri e si fanno crescere i peyot, i riccioli laterali). Famiglie molto chiuse, le cui usanze, credenze, valori sono estremamente formalizzate. Vite fatte di formule pronte per ogni circostanza e sempre uguali nel loro ripetersi. La cinepresa indugia a lungo e giustamente sul volto della protagonista, brava a esprimere in ogni gesto l’inquietudine, la speranza, la disperazione. I tagli e le luci sono a volte caravaggeschi.
Strumenti formali al servizio di una storia che mostra con la chiarezza della vita quotidiana come il cuore dell’ebraismo (e quindi anche del cristianesimo da esso figliato) sia la colpa e il non-amore.
Il senso di colpa per la disgrazia che ha colpito la famiglia, interpretata come il frutto evidente di un qualche peccato. Il senso di colpa di Shira verso la madre. L’egoismo totale di quest’ultima che pur di tenersi vicino il figlio della figlia maggiore non esita a sacrificare la figlia minore. Sono religioni, queste, tutte colpa e niente amore. Religioni nelle quali il terrificante paterno e la possessività materna sanciscono un’obbedienza assoluta, trascendente e infelice.

«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
[…] Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Genesi, cap. 22, 1-13).

L’ariete offerto in olocausto a una simile barbarie del timore, a tale fanatismo di obbedienza verso il principio di autorità, è stata l’intera umanità. Le religioni del Libro hanno corrotto alla radice la serenità del vivere.

Contro il monoteismo

L’ossessione di ricondurre a una monocorde identità la magnifica selva delle differenze è un crimine. Di tale ossessione i monoteismi fanatici si nutrono ogni giorno. La sofferenza e il male che ebraismo, cristianesimo e islam diffondono da millenni nel mondo sono una delle prove schiaccianti della ferocia di cui la nostra specie è capace. Un brano evangelico ne riassume perfettamente la logica abnorme e patologica, che vuole ridurre il molteplice, il politeistico, il vario, il difforme, all’uniformità più assoluta, quella di un solo principio, di un unico dio: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. […] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me».
(Vangelo di Giovanni, 17, 11-23)
A questa logica che pretende e vuole fare del diverso «una sola cosa» si oppongono le parole lucide e pacate di un grande maestro: «Infatti l’intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo: un dio unico è, per sua natura, un dio geloso, che non tollera nessun altro dio accanto a sé. Invece gli dèi politeistici, per loro natura, sono tolleranti, essi vivono e lasciano vivere. In primo luogo, tollerano volentieri i loro colleghi, gli dèi della stessa religione, e poi questa stessa tolleranza si estende anche agli dèi stranieri, che perciò vengono accolti con ospitalità, e col tempo ottengono perfino il diritto di cittadinanza, come dimostra anzitutto l’esempio dei romani, i quali accolsero volentieri gli dèi della Frigia, dell’Egitto e altri dèi stranieri. Perciò sono soltanto le religioni monoteistiche a offrirci lo spettacolo delle guerre e delle persecuzioni religiose, nonché dei processi agli eretici e della distruzione delle immagini degli dèi stranieri, della distruzione dei templi indiani e dei colossi egiziani, che per tre millenni avevano guardato il sole».
(Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Adelphi 1978, vol. II, pp. 470-471)

Sadica-Mente

Sono il padre. So che gli esseri umani soffrono ogni giorno per le ragioni più diverse. So che crudeltà, malattia e abbandono scandiscono la vita di tutti coloro che nascono. Sono anche onnipotente. Potrei trovare non una ma innumerevoli soluzioni che pongano immediatamente fine al fiume di dolore che avvolge le creature viventi. Ma invece di provvedere con un gesto autenticamente divino a cancellare il dolore dal cosmo, mando il mio figlio prediletto a patire, a essere seviziato, a morire asfissiato e sanguinante in una delle più atroci torture. Dopo lo faccio risorgere, ma l’universale sofferenza continua come se niente fosse accaduto.

È incredibile come questa orribile storia che ha per protagonista una delle più cupe divinità mai concepite -l’ebraico Jahweh- venga associata a parole quali “amore” e “misericordia”. Un padre che agisce in questa maniera se è davvero onnipotente è anche sadico; se non riesce a porre rimedio in altro modo, allora è uno di coloro che l’antica gnosi chiama “arconti”, divinità inferiori, demiurghi incapaci. Un amore onnipotente genera la gioia, non moltiplica sofferenze e crocifissi.

Il corpo di Sakineh, l'infamia del potere

Non so quale sarà il destino di Sakineh Mohammadi Shtiani, la donna iraniana frustata e condannata alla lapidazione per aver commesso adulterio. Ma so che l’essenza del potere è da sempre il controllo dei corpi e il dominio sui loro desideri. È quindi ingiustificata ogni nostra pretesa, nostra di cristiani europei o statunitensi, di essere diversi rispetto alla teocrazia che infesta l’Iran. La condanna a morte, l’isolamento sociale, l’angoscia psicologica costituiscono certo forme tra loro assai diverse di punizione e però hanno tutte a fondamento l’istituzione che più di ogni altra fa da tramite fra il potere e la persona: la famiglia. Quando essa è fondata su un contratto -civile o religioso che sia- e non sulla libera adesione di chi giorno per giorno sceglie di amare il proprio compagno o compagna, la famiglia diventa il luogo terrorizzante dell’oppressione che i maschi esercitano sulle donne. Tra tutte le religioni, i tre monoteismi del Libro sono le più maschiliste e sessuofobiche, sono delle autentiche macchine di infelicità, sono delle sadiche espressioni contro natura poiché naturale è il desiderio di cui i corpi sono fatti.

Ed è ingenuo credere che in questo il cristianesimo sia migliore del rigorismo ebraico e del fanatismo islamico. Anzi, nel Vangelo di Matteo si legge una frase che trasferisce il terrore (il cosiddetto “peccato”) dalle azioni esteriori alla psiche: «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt, 5, 27-28). Che cosa c’è di più naturale del desiderio di un bel corpo? I Greci lo sapevano e lo accettavano; ebrei, cristiani e musulmani trasformano il desiderio in peccato. Lo conferma anche un altro brano evangelico, di solito addotto a testimonianza di clemenza. È vero, l’adultera non venne lapidata ma, rimasto solo con lei, Jeshu-ha-Notzri così le si rivolge: «“Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv, 8, 10-11). Come se il desiderio e il piacere fossero peccato!

Contro la legge islamica ma anche contro quella mosaica, evangelica e civile, va detto con chiarezza che libertà è il poter disporre in modo incondizionato, sovrano e ininterrotto del proprio corpo, del corpo che si è, senza che il potere dei preti e dello stato intervenga a imporre la sua infamia.

Contro la Bibbia

«Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati!…di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto».
Così Céline in Rigodon (Einaudi, 2007, p. 14).
Concordo con lui e lascio volentieri a ebrei e cristiani, agli idolatri del “Libro”, il culto verso una divinità inetta come Jahvé. Non gli uomini soltanto, infatti, sono imperfetti ma lo è l’universo stesso poiché frutto dell’imperfezione del demiurgo che ha preteso di essere Dio. È questa evidenza ad aver convinto Marcione a rifiutare il dio biblico (accogliendo, invece, quello evangelico) in quanto, appunto, divinità incapace e funesta. Non c’è stata caduta ma il limite fa da sempre parte dell’essere, non esiste colpa se non quella di esistere, non ci sono peccati al di fuori dell’ignoranza. La conoscenza, invece, è un’esperienza disincantata, sofferta e integrale dello stare al mondo.

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