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«Pensieri da Quarantena»

Pensieri da Quarantena è il titolo di una mail che ho ricevuto da un mio allievo. L’ho ricevuta con lo stupore che ogni docente prova quando vede che le proprie parole sono diventate vita di un essere umano.
Nelle riflessioni che Ivan D’Urso mi ha rivolto c’è una saggezza antica, la saggezza di chi è stato forgiato dalla sofferenza, dal rischio, dalla differenza. Unite all’intelligenza, queste forme contribuiscono a fare di Ivan una persona libera, nonostante una situazione esistenziale non facile. Lo ringrazio per aver autorizzato la pubblicazione della sua testimonianza insieme filosofica e civile.
Ho scelto come immagine una tra le più famose e potenti incisioni di Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo (1513). Nietzsche si riferì a quest’opera nella Nascita della tragedia, dove scrisse: «Ein solcher Dürerscher Ritter war unser Schopenhauer: ihm fehlte jede Hoffnung, aber er wollte die Wahrheit. Es giebt nicht Seinesgleichen», ‘Un tale cavaliere di Dürer fu il nostro Schopenhauer; gli mancò ogni speranza, ma volle la verità. Non esiste il suo pari’ (trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. III/1, Adelphi 1972, § 20, p. 136). Anche Husserl teneva nel suo studio una riproduzione dell’incisione, vedendo nel cavaliere un simbolo della fenomenologia e quindi della filosofia.
Mi sembra dunque che questa immagine possa ben sintetizzare il senso delle parole di Ivan e aiutarci ad attraversare il tempo che siamo

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Gentile Professore,
tra qualche giorno i miei account social mi ricorderanno del giorno della mia laurea, dei festeggiamenti, del traguardo ed inevitabilmente di ciò che è cambiato da allora.
Le scrivo perché, anche se a livello formale non sono più un suo studente, mi sento nel profondo ancora un suo allievo.
Oggi, come succede dal mio ventiduesimo mese di vita, ho ricevuto la terapia che mi tiene in vita.
Quella che fa di me un Cyborg-Freak come ho avuto modo di scrivere altrove.
Ho ricevuto tre sacche di sangue, e tanto basterà se il cielo lo desidera, per tenere la mia “batteria” carica per altri venti giorni.
[…]
Le confesso che è un periodo incerto ed anche un po’ pauroso per essere un malato cronico, forse, avendo dentro le mie vene centinaia di vite mescolate insieme, avverto in modo più acuto il timore collettivo.
Eppure non mi riesce proprio di comprendere la rassegnazione.
Una volta lei disse che la Filosofia:
 “è ciò che ci permette di affrontare lo sguardo di Medusa: PER RENDERE LEI una statua di pietra”
Di affrontare dunque le nostre paure con determinazione, curiosità, amore per la conoscenza.
Gentile Professore, temo che nei prossimi mesi vedremo compiere delle scelte che ci faranno sperimentare in modo diretto “La banalità del male” ed i limiti (aimè) della democrazia.
Allo stesso tempo sento che fino a quando potrò scegliere di capire, sino a quando avrò la forza di porre delle domande, non importa in quale condizione: sarò vivo.
Sarò tempo pulsante che si interroga sulla propria natura.
Questo momento storico ha mietuto molte più vittime di quelle che risultano nei conteggi ufficiali.
Poiché ho visto brillanti studenti, aspiranti ribelli, cedere con tanta, troppa, velocità al loro diritto di libertà e di porre domande.
Ed essi  vivono il tempo subendolo, come se la vita si limitasse a una serie di azioni da apprendere nei decreti mentre i libri di Filosofia e di Sociologia prendono polvere su di un comodino.
La mia parte logica comprende. Il mio lato umano in questo si dispera.
Solo nella Filosofia trovo conforto.
Soltanto in essa (e nei visi dei miei cari) trovo un senso.
Ed è in questi giorni di grande incertezza che l’Essere Per La Morte del maestro Heidegger assume un significato sublime.
E sento il dovere di vivere pienamente, sento che posso farlo davvero.
Perché ho visto la Medusa divenire di pietra.
E questo grazie anche a lei, caro Professore, e mi sembrava il minimo condividere queste righe e questi pensieri perché, nonostante tutto, ci siamo ancora.
E siamo liberi.
Con affetto e devozione
Ivan D’Urso

Rinascimento

Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia
Milano – Palazzo Reale
A cura di Bernard Aikema, con la collaborazione di Andrew John Martin
Sino al 24 giugno 2018

Il Rinascimento è un’invenzione di Jacob Burckhardt, collega e maestro di Nietzsche a Basilea, ed è anche un ritorno degli dèi, contro il quale si scaglia il monaco Lutero. Il Rinascimento è la scoperta della profondità dello spaziotempo che si mostra nella prospettiva, nelle distanze, nella storia. Il Rinascimento è benedizione dell’immanenza, è gloria del qui e dell’ora, è bellezza posseduta. Il Rinascimento è Albrecht Dürer.
Una mostra dedicata al Maestro di Norimberga non può quindi essere monodica ma diventa polifonia che si apre a un’epoca intera. Anche per questo il taglio non è cronologico ma tematico e diviso in sei sezioni:
Dürer, l’arte tedesca, Venezia, l’Italia
Geometria, misura, architettura
La natura
La scoperta dell’individuo
Albrecht Dürer incisore: Apocalisse e cicli cristologici
Il Classicismo e le sue alternative.

Non dunque una storia dell’arte ma una geografia dell’arte, come afferma il curatore Bernard Aikema.
Attraversando i territori dell’Europa e della sua arte nell’epoca di Dürer (1471-1538) si incontrano regioni di una fisicità pura e insieme metaforica. I corpi hanno tutta la potenza di Leonardo, Bosch, Mantegna. Nei volti, nei gesti, nei movimenti c’è una saggezza pagana. Le forme di Dürer sono scolpite, prima che dipinte. La sua arte è plastica, non è solo pittura.
Si prova poi la gioia -non soltanto il piacere, proprio la gioia– di vedere opere da tanto e profondamente ammirate come le due magnifiche incisioni Il Cavaliere, la morte e il diavolo e Melancholia I. Osservandola da vicino e con attenzione, si nota in quest’ultima una fortissima luce che investe da destra in basso la figura umano/angelica e la proietta verso l’arcobaleno in alto. Nonostante ogni malinconia, vi sono davvero tante aurore che devono ancora splendere (Rigveda).

Coinvolgenti -direi magiche- sono opere quali il piccolo e luminosissimo San Gerolamo penitente e l’enigmatica, solenne, ironica, elegante e feroce Nemesis che vedete qui sopra.
Nelle incisioni, negli acquerelli, nei dipinti, l’arte di Dürer è quasi fotografica, e però nel fotografare ricrea la realtà, non la riproduce. La strada del Brennero nella valle dell’Isarco (qui sotto) è un acquerello del 1494. Perfetta immagine di uno snodo dentro i luoghi, tra rocce, strade, muri, boschi. Potenza della materia, luce che proviene, che promana e che si scioglie. Senso dello spazio e significato del tempo, καιρός che scivola dentro il χρόνος facendosi αἰών della mente. Rinascimento.


Etologia / Paradiso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Visita al padre. Scene e bozzetti
di Ronald Schimmelpfennig
Traduzione di Roberto Menin
Con: Massimo Popolizio (Heinrich), Marco Foschi (Peter), Anna Bonaiuto (Edith), Mariangela Granelli (Marietta), Alice Torriani (Sonja), Sara Putignano (Isabel), Paola Bigatto (la professoressa), Caterina Carpio (Nadia)
Scene: Guido Buganza
Regia di Carmelo Rifici
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 16 febbraio 2014

 

Durer-Adamo-ed-EvaSulla parete dello studio di Heinrich è appesa una sola immagine, la riproduzione dell’Adamo ed Eva di Albrecht Dürer. Heinrich è un anglista che da molti anni tenta di tradurre in tedesco il Paradise Lost di John Milton. Tra lo studio, il salone e il cortile innevato che li separa va svolgendosi l’incontro tra quest’uomo e il figlio sconosciuto, avuto ventisette anni prima da una breve relazione e che adesso gli si presenta davanti dopo essere arrivato da molto lontano. Con Heinrich vivono la moglie Edith, la figlia Isabel, l’altra figlia della moglie Marietta. In visita c’è anche Sonja, la nipote di Edith. Tutte femmine, per le quali comincia una lotta silenziosa ma consapevole e implacabile tra il maschio sino ad allora dominante e il «Fremder mit einem Anspruch auf Nähe», l’estraneo che vorrebbe farsi familiare. E naturalmente i due competitori non potranno permanere entrambi nel medesimo territorio.
La struttura etologica del testo di Schimmelpfennig è evidente sin dal fatto che Besuch bei dem Vater è la prima parte di un’opera che ha per titolo Trilogia degli animali. Un’animalità profondamente legata alla conoscenza, all’indagine, al sapere, quasi come se la metafisica fosse anch’essa un impulso animale nell’umano. Un’erudizione lieve e vitale pervade l’intera pièce, i libri citati, allusi o utilizzati sono molti -la Bibbia, i narratori russi, Ibsen, Čechov, Nietzsche, Botho Strauss, Brecht- ma tutto è sciolto e trasformato in una scrittura che procede per blocchi di testo, per frammenti, per tentativi, per «scene e bozzetti», come recita il sottotitolo. Mantenendo tuttavia una profonda e ormai inconsueta unità di tempo, di luogo e di azione.
Una drammaturgia complessa e sfaccettata, come si vede, e ben supportata dagli interpreti, bravi a districarsi tra l’eccesso e la misura; da una regia così dinamica da quasi inseguire il testo e fermarlo per costringerlo a parlare; dalle scenografie sulle quali gli attori scrivono i nomi degli ambienti, disegnano simboli, segnano interrogativi.
Uno spettacolo che mi ha ricordato Teorema di Pasolini. Anche in quel film l’arrivo di un giovane Estraneo sconvolge gli equilibri apparenti e già infranti, scatena il desiderio, trasmuta le identità. Ma se Pasolini volle disegnare una figura cristologica che spinge ciascuno verso la propria metanoia, il Peter di Schimmelpfennig sembra rimanere per intero nel perimetro animale dell’umano, quello dal quale tutto sgorga.

 

Tempo / Conoscenza

Dürer. L’opera incisa dalla collezione di  Novara
Museo della Permanente – Milano
Sino all‘8 settembre 2013

Le incisioni di Albrecht Dürer vengono da un mondo dove la materia sembra trascendersi non per allontanarsi da sé ma per stare nella propria più piena potenza. Tutta la superficie è densa di segni e i segni rinviano -com’è nella loro natura- ad altro: apocalissi, miti, storie bibliche, tormenti, resurrezioni. Su tutto si stagliano i simboli del tempo e della conoscenza. La clessidra che la morte tiene in mano in Il cavaliere, la morte e il diavolo è ciò verso cui il cavaliere va ma non c’è affanno né disperazione né distrazione. Lo sguardo concentrato e l’andamento senza titubanze fanno di lui la pienezza dell’istante che nella sua forza ha già sconfitto ogni grottesca pretesa di negare il divenire.
I libri e la luce che riempiono San Girolamo nella cella costituiscono una plastica rappresentazione di come la conoscenza possa riempire la vita.
Tempo e conoscenza convergono in Melancholia I. Quella figura, circondata dagli strumenti e dai segni del sapere e tuttavia così intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero, è l’espressione più efficace del limite nel quale il pensatore si sente avvolto, della sua consapevolezza del confine oltre il quale non è possibile spingersi. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce»1 , così scrisse Dürer nella lucida e disincantata coscienza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ma è tale consapevolezza il carattere più proprio della filosofia, la fonte della razionalità e della ricerca.

Nota

1. In R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341

Melancholia

di Lars Von Trier
Con: Kirsten Dunst (Justine), Charlotte Gainsbourg (Claire), Kiefer Sutherland (John), Charlotte Rampling (Gaby), Alexander Skarsgård (Michael), Stellan Skarsgård (Jack), John Hurt (Dexter)
Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011
Trailer del film

La Melencolia I di Albrecht Dürer è una figura circondata dagli strumenti e dai segni della conoscenza e tuttavia intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce» scrisse Dürer1 nella lucida e disincantata consapevolezza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ignoranza del senso delle cose e anche, con più modestia, del destino del nostro pianeta. Al quale sempre più si sta avvicinando un corpo celeste molto più grande, il suo nome è Melancholia, pronto ad assorbire dentro la propria energia tutto ciò che la Terra è stata.

Il preludio dal Tristano e Isotta di Richard Wagner è la malinconia fatta musica. Possiede tutta la forza paradossale e struggente di questo sentimento. Le sue note intessono il Prologo del film. Una sequenza onirica nella quale una sposa emerge dalla terra e non riesce a liberarsi dal suo viluppo, i pianeti danzano l‘uno intorno all’altro, dal cielo piovono grandine e uccelli, una madre con il figlio in braccio affonda in prati troppo morbidi, dalle dita di una donna si espandono lampi.
E poi Justine, la sposa. Che insieme al marito arriva in ritardo alla festa preparata per loro dalla sorella Claire e dal cognato John nel bellissimo castello in riva al mare che è la loro dimora. Eleganza, misura, fasto e sorrisi si sbriciolano poco a poco di fronte alla profonda ferocia sociale che riposa dietro i riti e le convenzioni, pronta a svegliarsi, a sbranare, a distruggere. La madre di Justine e Claire esprime con pubblico sarcasmo il proprio disprezzo verso la farsa che tutti in quel momento vede protagonisti, verso la finzione collettiva. La sposa si allontana lungamente lasciando nell’imbarazzo gli invitati. Con l’inevitabilità di un piano inclinato, è la catastrofe.
Infine Claire, che ospita di nuovo la sorella, la sua malattia -tristezza la chiamavano gli antichi, depressione è il suo nome attuale-, la sua distanza da ogni evento, emozione, paura. Invece Claire è terrorizzata da Melancholia, che sempre più si avvicina inesorabile a noi. Il marito cerca di tranquillizzarla, prepara l’emergenza, scruta continuamente il cielo. Ma infine non reggerà. Le due sorelle e il bambino di Claire costruiscono una capanna trasparente nel prato. E attendono. Dopo l’ultima scena è il silenzio. Non più una parola né un’immagine. E neppure una nota.

Risuona invece in chi ha guardato questo film qualcosa di antico che si chiama catarsi. Lars von Trier è riuscito a trasformare in immagini ciò che probabilmente prova chi sta sentendo avvicinarsi la fine. Quel pianeta è infatti come il monolito di 2001. Odissea nello spazio. È figura di Ananke, della Necessità che ci supera infinitamente e tutto avvolge. È figura della morte e della vita intrecciate e dominatrici del cosmo. Anche tra i minerali, tra i pianeti, tra le stelle. Anch’essi nascono, durano e si dissolvono. Ma nel volgersi della materia e della sua energia, «la vita è qualcosa di negativo» -questo sostiene von Trier-, una breve parentesi di sofferenza destinata a tornare nel grande fuoco.
«Perittoì mén eisi pántes oi melacholikoí ou dià nóson, allà dià physin; i “melanconici” sono persone eccezionali non per malattia ma per natura» è l’affermazione conclusiva dell’aristotelico Problemata 30,12. Il genio malinconico e gnostico di questo regista ha costruito un capolavoro che offre all’arte cinematografica l’estrema tensione della totalità e della verità ultima delle cose -la verità del mondo è la morte– e a chi guarda dona lo stupore di aver visto millenni di pensiero sull’umano e sul cosmo diventare una sola immagine.

1. Cit. in R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341
2. Trad. di C. Angelino e E. Salvaneschi, il melangolo 1981, p. 27

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