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Un ego sovietico

Limonov
di Kirill Serebrennikov
Italia, 2024
Con: Ben Whishaw (Limonov), Viktoria Miroshnichenko (Elena), Emmanuel Carrère
Trailer del film

Uno scrittore affermato che fa la parte di un perdente o un perdente che interpreta uno scrittore affermato? Questo l’interrogativo che percorre un film che vuole essere un itinerario anche didascalico nella storia contemporanea. Compaiono infatti sempre evidenti sulla scena le date degli avvenimenti, a partire dagli anni Sessanta del Novecento sino al 2020. Quest’ultima è la data di morte di Ėduard Veniaminovič Savenko, nato nel 1943 e che fece il poeta, l’operaio, il teppista, l’agitatore politico, il teorico, il maggiordomo e appunto lo scrittore. Savenko è diventato noto in Occidente soprattutto per la biografia narrativa dedicatagli da Emmanuel Carrère. Lo pseudonimo Limonov deriva da limonka, denominazione familiare della bomba a mano.
Savenko/Limonov fu certamente un uomo assai eccentrico ma la cui parabola esistenziale e politica è anche coerente. La critica al regime sovietico non lo rese un dissidente, come Solženicyn da lui profondamente disprezzato, ma (in questo caso in modo analogo a Solženicyn) si accompagnò a una critica altrettanto aperta e profonda anche al regime liberista dell’Occidente anglosassone. Tanto da combattere nella guerra di resistenza della Serbia e nelle vicende della Jugoslavia contro l’aggressione subita da quel Paese da parte della NATO (con in Italia presidente del Consiglio Massimo D’Alema e Ministro della Difesa Sergio Mattarella). Successivamente contribuì a fondare insieme ad Aleksandr Dugin il Partito Nazional Bolscevico (dal quale Dugin successivamente è uscito).

Non so nel romanzo di Carrère (che qui appare proprio mentre incontra Limonov) ma certamente nel film di Serebrennikov la dimensione politica dell’esistenza di Limonov è sostanzialmente secondaria e appaiono invece in primo piano la sua vita sentimentale, le sue aspirazioni lirico-letterarie, l’assoluto disordine degli anni trascorsi a New York, una città che appare per quello che probabilmente è, una sentina di profondo degrado. La sezione descrittiva di questi anni americani sta al centro del film, è troppo lunga e disegna un Limonov totalmente innamorato, pronto a rovinarsi per una donna. Atteggiamento non soltanto improbabile ma anche contraddittorio con la natura e le ambizioni del personaggio.
Molto più interessanti sono gli anni di lavoro e apprendistato politico-letterario in Ucraina (terra che per secoli è stata parte della Russia e che venne ‘inventata’ come nazione da Lenin) e poi nell’Unione Sovietica al suo vivace tramonto, durante e dopo Gorbačëv. È qui che si intravvede quello che liricamente e letterariamente è il cliché dell’animo russo e della sua follia e che tuttavia risulta nondimeno qualcosa di realmente esistente. Quest’anima slava è appunto raccontata per cenni mentre il primato è offerto a un ego strabordante che fa di Limonov un narciso assoluto, un banale ripetitore in salsa russa della decadenza esistenziale che è propria invece degli abitatori del capitalismo.
E questo è un peccato, visto il talento di Kirill Serebrennikov come emerge dalla tecnica narrativa didascalico-visionaria, che utilizza il tradizionale metodo del teatro nel teatro ma con una freschezza e vivacità che rendono Limonov un’opera tutto sommato godibile.

[Quello nella foto è il vero Limonov]

Dugin e Platone

Aleksandr Dugin
Platonismo politico
(Political Platonism: The Philosophy of Politics, Arktos Media Ltd., Londra 2019)
Traduzione di Donato Mancuso
Edizioni AGA, Milano 2020
Pagine 190

[Questa recensione è in gran parte descrittiva di uno degli elementi più significativi del pensiero di Aleksandr Dugin, la conclusione del testo è invece critica.
La pubblico come gesto di solidarietà nei confronti della tragedia che Dugin sta subendo, dell’attentato che ha ucciso sua figlia Darya – ricercatrice universitaria che si stava occupando della falsificazione sistematica che l’informazione finanziata dalla NATO produce nelle nostre menti ‘occidentali’ – e che certamente avrebbe dovuto uccidere anche lui.
Il terrorismo ucraino e statunitense è probabilmente il responsabile di questo gesto di intimidazione politica e filosofica, nei confronti del quale ribadisco – per quello che posso e che conto – la mia totale, completa e convinta difesa della libertà di pensiero, di parola, di interpretazione del mondo, contro ogni imposizione di un’identità unica e universale perseguita dal cosiddetto “globalismo“]

La radice filosofica di ogni opzione politica emerge con chiarezza da questa raccolta di interventi, analisi, interviste di Aleksandr Dugin, per il quale «considerare la politica come un fenomeno separato, scollegato dalla filosofia, è completamente estraneo alle origini della tradizione filosofica» (p. 35). La politica nella sua essenza e struttura non ha alcuna autonomia dalla filosofia e piuttosto ne costituisce una parte. Ogni prospettiva filosofica, infatti, «anche la più astratta, ha una dimensione politica, in alcuni casi espressa esplicitamente» (37).
Uno di questi casi, il più importante, il caso che ha fondato l’Europa, è Platone. Anche per Dugin, come per Whitehead ed Emerson, «Platone rappresenta tutta la filosofia – la filosofia nella sua interezza, la filosofia in toto» (42) anche se, naturalmente, la filosofia non rimane nei limiti di Platone e non finisce certo con lui, come con lui non comincia. Ma «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (81).
Dugin attinge soprattutto al Parmenide per delineare una articolata struttura di opzioni politiche, esattamente otto, tutte basate sullo statuto dell’Uno e sulla sua relazione con la molteplicità. Nella sua forma più pura e più compiuta, nella sua forma ideale, «il potere nel platonismo è sacrale, razionale, trasparente e ideale. Rappresenta la cristallizzazione del mondo dei paradigmi (57).
Platone rappresenta per Dugin l’emblema della filosofia apollinea, sempre in feconda identità/differenza con quella dionisiaca. A entrambi si contrappone un elemento/modello che a Platone risulta lontano sino all’indifferenza e che tuttavia pesa, pesa molto, nei destini politici dell’Europa. Questo elemento è la Grande Madre, è Cibele, e con lei i Titani. È Cibele, sono i Titani, ad aver preso il potere nella modernità, che proprio per questo è modernità; ad aver preso il potere nell’Europa contemporanea, che proprio per questo è la nemica dell’Europa e della sua Tradizione, parola e concetto fondamentali nella filosofia di Dugin.
Con uno scarto e arricchimento notevoli, a questi paradigmi teoretico-politici qui si coniugano delle analisi che riguardano lo gnosticismo antico e moderno, analisi complesse che riguardano la natura femminile del Demiurgo, il Padre, il Pleroma, gli eoni, in particolare nelle elaborazioni di Valentino. Dugin richiama l’attenzione sulla complessità intrinseca allo gnosticismo, sulla natura dello gnostico come «un portatore della coscienza infelice, ma secondo Hegel solo la coscienza infelice è capace di filosofare» (110), sullo gnostico quale prigioniero della Grande Madre e della sua potenza materica, sullo gnostico il quale «porta in sé l’abisso» (111).
Anche sul fondamento di tutto questo, si accenna alla Quarta Teoria Politica, tema per il quale Dugin è particolarmente noto, come superamento delle tre teorie politiche del liberalismo, del comunismo del fascismo/nazionalsocialismo, forme tutte alienate perché fondate su diverse interpretazioni ed effetti del soggettivismo moderno: «Nelle tre teorie politiche moderne abbiamo a che fare con tre interpretazioni più ristrette del soggetto. Il liberalismo interpreta il soggetto come individuo: i comunisti come classe; i fascisti come Stato, nazione o razza (nel nazionalsocialismo). Heidegger mostra che il soggetto è un costrutto della Modernità, edificato sul Dasein, obliato e sepolto sotto di esso. Questo è il motivo per cui la distruzione filosofica inizia con uno smantellamento del soggetto e una breccia che porta a ricongiungersi al Dasein» (130).
Come si vede, elemento ispiratore della Quarta Teoria Politica è Heidegger, cosa esplicitamente riconosciuta da Dugin, il quale intreccia le questioni heideggeriane della metafisica e dello statuto del soggetto con quelle relative alla tecnica, sino a dare alla sua teoria e prassi politica un compito quasi anarchico e forse nella tradizione del populismo russo: «La distruzione dello Stato, come apparato, come Machenschaft» (133) per far emergere al suo posto la centralità del popolo, inteso non come somma di individui, classi, interessi ma come unità organica.
L’elemento più metafisicamente interessante, e per certi versi sorprendente, di tali prospettive – per quello che è possibile capirne da una antologia piuttosto eterogenea di scritti – è la vicinanza costitutiva della filosofia alla morte come tensione verso il nulla. Il legame tra filosofia e morire è certo classico, antico e decisamente socratico-platonico ma sorprendenti sono le conseguenze che Dugin ne trae in relazione al Niente e al Caos.
Il Niente appare infatti costitutivo del mondo, un oceano che circonda la piccola isola dell’Essere, la quale appare a noi così vasta soltanto perché «guardiamo il niente attraverso gli occhi del Logos» (141). E invece ciò che Heidegger chiama der andere Anfang, l’altro inizio della filosofia, è una prospettiva che abbia il coraggio del Caos, di rivolgersi al Caos contro il primato del Logos, il quale è solo «un pesce che nuota nelle acque del Caos» (149). Il Logos può dunque respirare e sopravvivere soltanto dentro le acque caotiche del Nulla e quindi -è l’invito conclusivo del testo – «il nostro compito è costruire la filosofia del Caos» (151).
Questi i contenuti principali che ho cercato di portare a chiarezza e unità di un libro che solo a tratti è unitario e chiaro, che presenta molte suggestioni ma che appare anche radicato in modo convinto e forte dentro non la Tradizione in generale ma la Tradizione del cristianesimo ortodosso quale elemento di identità slava. Un cristianesimo che Dugin intende innervare di platonismo per salvarlo dalla sterilità epistemologica e da una sostanziale perifericità. Intento che comporta un rifiuto quasi totale non soltanto della scienza moderna ma anche e soprattutto delle grandi metafisiche che pongono in qualche modo al centro la struttura e la dimensione materica del cosmo, pur essendo niente affatto riduzionistiche: da Aristotele a Spinoza, dall’atomismo alla termodinamica.
E questo sembra un esito piuttosto deludente anche perché molto confessionale.

Platone e la morale

«Di morale si muore» afferma giustamente Alain de Benoist (Diorama Letterario, n. 365, gennaio-febbraio 2022, p. 4). La sfrenata moralizzazione di ogni situazione ed evento -rapporti sociali, passioni amorose, guerre, commerci, religioni, cultura- sta conducendo la vita individuale e collettiva a sprofondare nella censura, nella superficialità, nella violenza.
Sì, la violenza dei moralisti, che è sempre stata tra le peggiori sue forme. Un’aggressività che trova nel politicamente corretto il proprio luogo di elezione. Sino a instillare e instaurare l’obbligo di credere alle più fantasiose, astratte, superstiziose e grottesche «verità morali».
Tra queste, singolare e insieme emblematico è il rifiuto pressoché assoluto della corporeità, della sua forza, del suo fondamento per ogni ulteriore elaborazione dell’umano. Si nega, in poche parole, che il maschio abbia un pene e la femmina una vulva. ‘Costruzioni culturali’ vengono definiti questi truismi, queste evidenze che nessuna percezione sensata dell’umano può mai negare. I corpi vanno sostituiti con un fantasma; anche i corpi come tutto il resto, in modo da «prendere congedo dalla realtà, giocare col proprio corpo e vivere in un mondo di simulacri, di apparenze» (Giuseppe Giaccio, ivi, p. 16).
Per chi coltiva tali prospettive, il radicamento dell’Europa nell’ontologia greca deve essere dissolto. In modo che una cultura del tutto iconica come quella nordamericana possa sostituirsi allo spessore materiale e tangibile della cultura europea. Poiché ancora oggi è vero che «chi controlla l’Europa controlla il mondo intero», ancora oggi è questo uno dei principi di fondo della geopolitica (Marco Iacona, ivi, p. 39). Un continente le cui radici stanno nella grande sintesi platonica dell’esperire e del pensare. Sintesi talmente pervasiva e fondante da aver generato i saperi e le esperienze estetiche, politiche, religiose, scientifiche. Ha ragione Aleksandr Dugin (per altri versi filosofo un poco bizzarro) a ritenere che «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (Platonismo politico, trad. di D. Mancuso, Edizioni AGA, 2020, p. 81) e ha ragione Carlo Galli a pensare che sia necessario «fare irrompere nuovamente Platone nel moderno, proprio perché critico della demagogia imperante nella città» (Eduardo Zarelli, DL 365, p. 36).
Perché con Platone la morale sta al posto che le spetta, senza allagare l’intero territorio della vita che è molto più vasto, profondo, ricco e labirintico rispetto a ogni norma, regola, imposizione, censura, valore.

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