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Anime morte

Nikolaj Vasil’evic Gogol’
Le anime morte
(Мёртвые души, 1842)
Trad. di Natalia Bavastro
Introd. di Serena Vitale
Garzanti 1989
Pagine XX-360

Leggere gli scrittori russi è un’esperienza affascinante. Tolstoj è un’epopea della pienezza. Dostoevskij insegna sugli uomini delle verità essenziali. Solo Proust e Thomas Mann possono stargli accanto.
Accanto a Dostoevskij e in modo assai diverso da lui, sta anche Nikolaj Gogol’, le cui Anime morte parlano della Russia profonda e ci aiutano a penetrare gli enigmi di un popolo così decisivo nella storia dell’Europa. In questo romanzo il flusso narrativo, la profondità psicologica, la consapevolezza della tragedia e dell’enigma che è il vivere si compongono a delineare una compiuta antropologia.

Del romanzo Gogol’ portò a termine, e conservò, solo la prima parte; della seconda rimangono i primi capitoli e alcuni frammenti  con molte lacune. Il resto non si sottrasse al rogo decretato dallo stesso Autore mentre la terza parte – una sorta di inutile poema del riscatto – non venne mai scritta.
Quello che rimane è un capolavoro. Ci troviamo a viaggiare per la vasta Russia insieme a Pavel Ivanovic Čičikov. Nulla sappiamo all’inizio di questo personaggio, se non qualcosa delle sue fattezze rotonde e banali e dei suoi modi cortesi e affettati. Neanche i luoghi hanno un nome ma in essi Čičikov cerca, tratta, acquista delle anime morte, vale a dire quei servi della gleba deceduti fra un censimento e l’altro ma sui quali i possidenti pagano ancora le tasse. Perché Pavel Ivanovic le vuole? Per dimostrare di essere anche lui un possidente e ottenere il prestigio e le agevolazioni governative che tale condizione comporta.
Solo alla fine della prima parte si viene a sapere qualcosa di più sul protagonista, sulla sua infanzia triste, sui pessimi educatori, sulla tenacia da lui dedicata alla carriera nell’Amministrazione dello stato e sui frutti della corruzione esercitata nei vari uffici in cui si era trovato a lavorare. Prima però Čičikov ha modo di farsi amare, stimare e poi calunniare dai funzionari – e dalle rispettive mogli – della città, portando comunque a termine la sua impresa. Nella seconda parte (ripeto, frammentaria) crescono l’ambizione e le disgrazie fino a un arresto ignominioso e a una rocambolesca liberazione…
Gogol’ definì il proprio romanzo «un poema» e della Divina Commedia quest’opera non ha solo il progetto iniziale in tre parti ma anche una vera e propria discesa nei gironi della volgarità umana, di quella che in russo si chiama poölost. Compito dello scrittore è infatti descrivere 

tutto ciò che ogni minuto si trova davanti agli occhi di tutti e che gli occhi indifferenti non vedono affatto -tutta la terribile e irritante melma delle meschinità che impastoiano la nostra vita, tutta la bassezza dei caratteri freddi, invertebrati, quotidiani, che brulicano sul nostro cammino terreno, talvolta amaro e tedioso… (p. 125).

Le forme che la volgarità assume nel mondo possono essere tante, alcune tipiche di un luogo e di un tempo, altre eterne. La maldicenza, ad esempio, il pettegolezzo del quale nel IX capitolo viene delineato un magnifico ritratto; oppure la corruzione, le tangenti, il denaro chiesto per svolgere semplicemente il proprio dovere.
La giustificazione che viene data del malaffare è davvero quella di sempre: «ho approfittato del superfluo; ho preso là dove ognuno avrebbe preso; se non avessi approfittato io avrebbero approfittato gli altri» (230). È la giustificazione di tutti i ladri della cosa pubblica. Al di là delle proprie posizioni ideologiche e delle idiosincrasie Gogol’ offre un quadro efficace, reale della situazione della Russia alla metà dell’Ottocento, prima che il servaggio venisse abolito e dopo la guerra napoleonica. Ma è insieme un quadro talmente originale e complesso da far sì che il romanzo sia stato rivendicato sia dagli slavofili sia dagli occidentalisti. E in effetti la Russia dei servi della gleba appare qui in mano a possidenti o inetti o corrotti o del tutto idioti ma è una Russia in ogni caso più ricca e produttiva di quella comunista e del Novecento:  i beni ci sono, le terre offrono grano e tanti altri generi, le potenzialità sono enormi. Gogol’ sembra diffidare delle proposte innovative che venivano dai liberali e spesso le loro idee subiscono la satira più feroce, mentre – nella seconda parte – uno dei personaggi migliori è un possidente tradizionalista e però estremamente efficiente.
Ciò che sempre traspare è comunque un grande amore verso la nazione e la civiltà russe. L’immagine che conclude la prima parte è fra le più belle. La Russia vi viene descritta come una troika lanciata a folle velocità nella storia mentre «gli altri popoli e gli altri paesi si fanno da parte e liberano la via» (240).

C’è qualcosa che va oltre Čičikov e il suo commercio di anime, che va oltre la terra russa e il suo destino, ciò che fa di Gogol’ un autore universale. È la riflessione quasi ossessiva sugli umani. L’Autore osserva e descrive con minuzia non soltanto gli oggetti, gli ambienti, i paesaggi ma soprattutto i caratteri, non disdegnandone nessuno «e fissandogli addosso il suo occhio indagatore», come egli stesso afferma in una dichiarazione di poetica (234).
Il risultato di tale indagine è analogo a quello di Dostoevskij: l’umano come enigma impossibile da sciogliere, l’uomo come un ente capace di qualunque cosa, pensiero, azione: «È forse verosimile?…Tutto è verosimile, tutto può avvenire in un uomo» (120) e come un refrain ricorre spesso l’esclamazione «va’ a capire qualcosa dell’uomo!» (198).
Diversamente da Dostoevskij, però, il tono dominante in Gogol’ è l’ironia, il grottesco, il divertimento. Certe pagine, così come alcuni personaggi o battute, sono irresistibili. Finché, procedendo, tutto diventa più serio e drammatico e il libro si conclude con un severo e appassionato discorso del governatore generale ai suoi funzionari, discorso inquietante nella sua attualità per alcune nazioni e alcuni governi: «È giunta l’ora di salvare la nostra terra…ormai accanto all’ordine di cose legittimo se ne è formato un altro, molto più forte di quello legittimo» (360).
Ma la grandezza, la lucidità, di Gogol non è politica, non è morale. È piuttosto uno sguardo talmente plastico, verosimile e ironico sull’umano da poter dire, con Cioran, che «noi amiamo in lui la ferocia, il disprezzo degli uomini, la visione di un mondo condannato» (La tentazione di esistere, Adelphi 2022, p. 177). Noi amiamo in lui lo gnostico.

Karamazov, il tempo, la Russia

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Le memorie di Ivan Karamazov
dal romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Michajlovič Dostoevskij
drammaturgia Umberto Orsini e Luca Micheletti
con Umberto Orsini
regia di Luca Micheletti
produzione Compagnia Umberto Orsini
Sino al 16 ottobre 2022

«Prigioniero di quell’aula, di un finale mai scritto, di una sentenza sbagliata, il nostro Ivan continua ad aggirarsi tra i frammenti della sua esistenza, osservati come prove materiali di fatti e memorie che riemergono a strappi, negli spazi di lucidità che gli concedono le febbri cerebrali, nel circolare affastellarsi di teorie e ricordi» (Programma di sala, p. 9).
Così il regista sintetizza il senso di questa presenza sulla scena di Ivan Karamazov e del suo alter ego Umberto Orsini. Terza presenza, dopo lo sceneggiato Rai del 1969 e dopo la Leggenda del grande inquisitore di quasi dieci anni fa al Teatro Elfo-Puccini di Milano, una leggenda che mi sembrò troppo discontinua, claustrofobica, priva del respiro epico del romanzo e del suo protagonista (qui la mia recensione).
Ora invece Orsini occupa da solo la scena, lo spazio, il tempo. In questo modo fa sentire la propria consustanzialità con un personaggio dall’apparenza fredda e che invece possiede tutta l’energia, la logica e la follia della grande cultura russa, così come splende ad esempio in Tolstòj.
L’attore svela che già all’epoca di uno sceneggiato tra i più riusciti della Rai dovette difendere Ivan «da una sceneggiatura che lo penalizzava, battendomi per dare lo spazio adeguato all’importanza del suo “Grande Inquisitore”, inizialmente dato per troppo cerebrale e dunque probabilmente indigesto al grande pubblico»  (Programma di sala, p. 6).
Le poche pagine che Fëdor Dostoevskij dedicò al febbrile e lucido racconto del grande inquisitore sono diventate un emblema della contemporaneità, dell’enigma del sacro, della propensione dell’umano alla schiavitù.
Ricordo ancora una volta le parole di pietra con le quali l’inquisitore condanna il ritorno di Cristo tra gli umani: «Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici. […] Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienze di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza. […] Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle» (I fratelli Karamazov, trad. di  Agostino Villa, Einaudi 1981, vol. I, pp. 334-341).
Dopo questo vertice di antropologia sacra e dopo la sentenza che condanna il fratello Dmitri per l’assassinio del padre, Dostoevskij non parla più di Ivan. Da qui parte invece Orsini, riprendendo il non finito, ritrovandolo «tra le mani oggi, come “in-finito” e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico» (Programma di sala, p. 7).
Classico è infatti l’antiumanesimo greco che fa dire a Ivan: «Sono un uomo cattivo, come tutti gli uomini», parole con le quali queste Memorie hanno inizio. Costante è la domanda sul male del mondo. Perenne è la lotta con le illusioni etiche, religiose, politiche, oltre le quali Dostoevskij sempre si pone. Classica è la domanda sul tempo, interrogativo sul quale lo spettacolo si chiude. Ivan accenna al «tempo nemico», a questa concezione ingenua e distorta che ogni volta dimentica che il tempo siamo noi, il nostro transitare nell’essere che precede la nostra piccolezza e per sempre la segue. Nichilismo è esattamente questo: l’incomprensione del tempo benedetto.

[La foto di scena è di Fabrizio Sansoni]

Дылда

Giraffa
(ДЫЛДА; titolo italiano La ragazza d’autunno)
di Kantemir Balagov
Con: Viktoria Miroshnichenko (Iya Sergueeva), Vasilisa Perelygina (Masha), Andrey Bykov (Nikolay Ivanovich), Igor Shirokov (Sasha), Konstantin Balakirev (Stepan)
Fotografia: Kseniya Sereda
Russia, 2019
Trailer del film

Il titolo italiano è tanto banale quanto significativo della difficoltà che i distributori del film hanno incontrato nel decifrare un’opera estrema. Che è tale non per quello che racconta ma per come lo fa e per ciò che emerge dalla profondità della storia umana.
La vicenda è infatti ambientata a Leningrado nell’inverno successivo alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Le ferite della città e quelle inferte alle vite dei suoi abitanti appaiono terribili. Tutti hanno subìto dei lutti, delle menomazioni, la miseria.
Iya prestava la sua opera al fronte ma è stata congedata perché un trauma di tanto in tanto la blocca, la incanta, non le fa percepire più nulla intorno a sé. Ora svolge mansioni di infermiera in un ospedale. La ragazza ha portato a Leningrado Pashka, figlio di Masha, una sua amica anch’essa al fronte. Ma quando a guerra finita Masha torna in città, il bambino non c’è più. La madre ne vuole a tutti i costi un altro. Da tale volontà emergono l’ambiguità delle relazioni, la costanza dell’ingiustizia, la tristezza profonda. E su tutto aleggia come un senso di rassegnazione rispetto al dolore.
Una rassegnazione atavica, certo, profondamente russa. Come russa è l’imprevedibilità delle azioni, delle volontà, delle passioni. «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia»1.
«Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: ‘Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…’»; «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra»2 .
Una storia così antica –la guerra, due madri, un futuro che sembra chiuso– viene narrata in modo ellittico, spostando di continuo sia la narrazione sia lo sguardo là dove lo spettatore non si aspetta che vada. I colori sono accesi, quasi fatti d’oro e di trionfo, persino il bianco della neve si trasfigura nella pienezza dell’iride. Ma sono colori che cadono sul divenire dolente dei corpi, che sembrano avere quasi nostalgia del morire e che quando sorridono mostrano lo struggente e insieme inquietante desiderio di ciò che non è stato e non sarà.
I corpi, infatti, sono qui tutto. A partire da quello altissimo di Iya, che per questo viene chiamata Дылда, ‘giraffa’ nel senso di spilungona. Ma non è l’altezza la prima caratteristica di questo corpo bensì la distanza, la lontananza, la stranezza, il gelo. Corpi che mostrano la propria desolazione quando fanno l’amore senza trarre alcun piacere. Corpi coperti da abiti troppo grandi, corpi abbaglianti di amarezza quando sono nudi.
Il film si chiude sull’abbraccio tra due di questi corpi. Uno stringersi sincero ma il cui sorriso è consapevole che quanto quei corpi si stanno dicendo non è auspicio ma è una condivisa illusione.

Note
1. L.N. Tolstòj, Guerra e pace, trad. di E. Carafa d’Andria, Einaudi 1990, p. 1259.
2 F.M. Dostoevskij, L’idiota, trad. di A. Polledro, Einaudi 1981, pp. 361 e 227.

[Photo by Daria Gorbacheva on Unsplash]

Sed intelligere

Ho inserito su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi; la durata è di 32 minuti) della lezione dal titolo Filosofia è libertà svolta il 14 novembre 2017 nell’ambito della Giornata Mondiale della Filosofia, indetta dall’UNESCO e organizzata a Catania da Nuova Acropoli.
Libertà è una delle parole più dense, complesse e polisemantiche. «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Vangelo di Giovanni, 8,32) ma il Grande Inquisitore di Dostoevskij rimprovera al Cristo il fatto che «anche qui Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle» (I Fratelli Karamazov, parte II, libro V, cap. V, trad. di A. Villa, Einaudi 1981, p. 341).
Gli umani abitano infatti dentro precisi confini, entro limiti senza i quali non potrebbero neppure esistere:
-i limiti della pelle, del corpo, dello sguardo
-il condizionamento del carattere che la natura ci ha dato
-l’ambiente nel quale siamo nati e ci siamo formati
-i genitori che ci hanno messo al mondo
-i maestri che abbiamo avuto
-i ricordi di cui siamo fatti, che ci consolano e ci perseguitano ma senza  i quali in ogni caso non avremmo identità
-le nostre aspirazioni, i sogni possibili e quelli impossibili
-le contraddizioni quotidiane e quelle di fondo
-le passioni che ci nutrono
-la certezza di dover morire.
Siamo delimitati dunque e soprattutto dai confini del tempo che noi stessi siamo.
E tuttavia da Anassimandro a Heidegger, passando per Spinoza e Schopenhauer, abbiamo saggiato una possibilità di libertà che coincide con la passione per la conoscenza, l’indagare, l’interrogare.
La libertà come rivalutazione dell’apparenza e redenzione del quotidiano; la libertà come riscatto dei torbidi della vita, dell’esserci, della morte, del nulla. «Humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari sed intelligere». Così Spinoza nel Tractatus politicus (I, 4). Nella prefazione alla terza parte dell’Ethica la formula è più complessa: «Nam ad illos revertere volo, qui hominum Affectus, & actiones detestari, vel ridere malunt, quam intelligere». Per entrambi i testi l’abito della filosofia consiste nell’evitare di deridere, compiangere o detestare i comportamenti umani e cercare invece di comprenderli, «sed intelligere». Questa comprensione è la filosofia, lo spazio della nostra libertà.

L’ inquisitore

Teatro Elfo Puccini – Milano
La leggenda del grande inquisitore
da I Fratelli Karamazov di Fëdor Michajlovič Dostoevskij
drammaturgia Pietro Babina, Leonardo Capuano, Umberto Orsini
regia Pietro Babina
con Umberto Orsini, Leonardo Capuano e Silvia Maino
Produzione Compagnia Umberto Orsini
2-7 dicembre 2014

Nel V capitolo del V libro della seconda parte del romanzo, Ivan Karamazov inventa una storia e la racconta al fratello Alëša. È la leggenda del Grande Inquisitore che imprigiona, giudica e condanna il Cristo tornato tra gli umani. Nell’imponente e fluviale romanzo sono soltanto quindici pagine ma sono pagine famose e decisive. Umberto Orsini le racconta nella parte finale dello spettacolo, dando ancora una volta voce al lucido paradosso di Dostoevskij. Prima, per due terzi della rappresentazione, il protagonista è un Ivan diventato vecchio che combatte con il suo racconto giovanile, combatte con un alter ego che è suo figlio, che è Mefistofele o il rimpianto o la malignità o il dubbio. Lo fa con una declinazione troppo psicoanalitica e in un ambiente del tutto claustrofobico, come la coscienza del protagonista. E la differenza tra la drammaturgia contemporanea e il testo dello scrittore emerge in modo impietoso.
Di Dostoevskij Nietzsche scrisse che è «l’unico psicologo da cui avrei qualcosa da imparare: egli rientra nei più bei casi fortunati della mia vita» (Crepuscolo degli idoli, trad. di F. Masini, in «Opere» vol. VI, tomo III, Adelphi 1975, § 45, p. 146). Per uno scrittore di questa grandezza non c’è bisogno di nessuna psicologia. Basta la sua scrittura, tanto radicale quanto oggettiva: «Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici. […] Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienze di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza. […] Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle» (I fratelli Karamazov, trad. di  A. Villa, Einaudi 1981, vol. I, pp. 334-341).
Schiavi con la costituzione del ribelle, sì è questo che siamo. Ed è ciò che dà forza ai tiranni, agli inquisitori di ogni chiesa, ai malvagi.

Myškin

L’idiota
(1869)
di Fëdor Dostoevskij
Trad. di Alfredo Polledro
Con un saggio introduttivo di Vittorio Strada
Einaudi 1981
Pagine XXXII-609

Una raffinata barbarie, una giovane decadenza, un segno e un’eco di antiche civiltà, una speranza. Nel principe Myškin e nei grandi e piccoli personaggi che lo circondano vive la Russia santa e tellurica. La presenza del Cristo si staglia come impossibile incarnazione dell’Ideale, nella consapevolezza che «la parola “cristianesimo” è un equivoco-, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce» (F. Nietzsche, L’anticristo, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. VI, tomo 3, Adelphi 1975, § 39, p. 214). L’immagine che forse meglio descrive il Cristo è quella di un “idiota”, un essere felice e ignaro ma anche turbato e malato, dal grande cuore e di una altrettanto grande ingenuità.
Questo idiota diventa il catalizzatore dei sentimenti di chi lo incontra. Alla sua luce si fanno chiari l’odio, l’abiezione, la stravaganza, la generosità, l’orgoglio, la vigliaccheria, la rivolta, la stupidità, l’amore degli umani.
Questo principe ingenuo e bambino viene amato con passione dalla due più contorte e potenti figure femminili del romanzo. «Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: “Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…”?» (pag. 361); «La odierai per tutto l’amore che le porti oggi, per tutte queste torture che ora provi» (212).
E però Myškin non può amare come un uomo, il suo è un sentimento che proviene da un’altra regione dell’essere, da un altro universo di significati e di azioni. La sua vita è una vicenda sentimentale e barbarica, desiderante e dolorosa, sanguinosa e vitale, religiosa e nichilistica. Una vicenda profondamente orientale. L’Occidente è troppo consapevole o forse semplicemente vive in modo diverso la sua volontà di pienezza e di nulla.
Ma L’idiota non è soltanto la testimonianza di una civiltà nichilistica. Al di là del suo svolgersi, del suo esito e della miriade di eventi che racconta, questo libro contiene una matura fierezza: l’orgoglio di un’intelligenza che sa indagare nei meandri dell’umano, che sa trasformare la morte e il sacrificio nella luce della letteratura e della poesia. «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra» (227).

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