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Theorein / Kairós

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Pornografia
(1960)
di Witold Gombrowicz
Con: Riccardo Bini (Witold), Paolo Pierobon (Federico), Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
Traduzione di Vera Verdiani
Scene di Marco Rossi
Regia di Luca Ronconi
Sino al 5 aprile 2014

 

Pornografia_3Un romanzo, Pornografia di Gombrowicz, dai molti strati, dai numerosi enigmi. Ronconi lo trasforma in un’azione teatrale nella quale gli attori raccontano i personaggi, descrivono quello che fanno mentre lo fanno. Non soltanto Witold, colui che nel romanzo dice ‘io’, ma anche tutti gli altri. Si raccontano mentre «si comportano» per «non fare altro», mentre parlano allo scopo quasi sempre «di non dire qualcos’altro», mentre sono spesso a terra, striscianti come il verme protagonista di una scena chiave dove amore e morte ancora una volta si accompagnano e si fondono.
I due protagonisti -Witold e Federico- vivono un soggiorno nella campagna polacca mentre intorno infuria la guerra. Loro sono concentrati sulla figlia dell’amico che li ospita e sul ragazzo al loro servizio. Vorrebbero che i due si amassero, si unissero, copulassero. E invece Enrichetta e Carlo mostrano reciproca indifferenza. Il parossismo del desiderio induce Federico e Witold non soltanto a guardare ma anche a costruire situazioni che favoriscano il loro obiettivo. Non li ferma l’arrivo di Venceslao, fidanzato di Enrichetta, di Amelia -madre di lui e donna «cattolica e di alti sentimenti morali»- di un partigiano in crisi, di un giovane ladro che uccide Amelia. Anzi. Ogni evento è inserito in una trama nella quale i due vivono e proiettano la loro potenziale ma evidente omosessualità. Si sentono gli echi del desiderio che muove von Aschenbach in Morte a Venezia, la frenesia che anima Bouvard e Pécuchet, la guerra antieroica e grottesca della Trilogia del Nord celiniana, il modello classico di Aminta.
Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno. In una pagina del suo Diario Gombrowicz scrisse che il vero problema della nostra specie non è la morte ma è «l’invecchiare, questa forma di morte che sperimentiamo ogni giorno. E non tanto l’invecchiare in sé, quanto il fatto di essere così completamente, così terribilmente tagliati fuori dalla bellezza. Quello che ci disturba non è che stiamo morendo, ma che il fascino della vita ci diventi inaccessibile. Al cimitero ho visto un ragazzo che camminava fra le tombe come una creatura di un altro mondo, misteriosa, rigogliosamente in fiore, mentre noi sembravano dei mendicanti» (1953; cit. nel Programma di sala, p. 23). Creatura intessuta di un tempo che appare infinito ma che può anche di botto sparire non nella morte ma nella trasformazione del desiderio in vita, in generazione, in figli. Gombrowicz lo dice con chiarezza: «La bellezza e la gioventù non dovrebbero essere qualcosa di gratuito e di fine a se stesso, un meraviglioso dono della natura, una specie di coronamento? E invece, nella donna, il fascino serve a generare, è foderato di gravidanze e pannolini e la sua massima realizzazione comporta un figlio che segna la fine del poema. Un ragazzo, incantato da una ragazza e da se stesso con lei, non fa in tempo a toccarla che è già padre e lei -madre; quindi la ragazza è una creatura che sembra praticare la gioventù, ma in realtà serve solo a liquidarla» (1954; ivi, p. 25). È la verità. È la negazione del presente in vista di un futuro altrui. È la «liquidazione» della bellezza a favore della generazione di qualcosa che a sua volta diventerà funzionale ad altra carne senza senso.
La corporeità metafisica che intesse Pornografia è anche un modo di affrancamento dal ciclo del nascere e del morire, per diventare il presente nel quale converge il tempo/ora, il Καιρός.

 

Corpo teatro

Amiche da morire
di Giorgia Farina
Con: Claudia Gerini (Gilda), Sabrina Impacciatore (Crocetta), Cristiana Capotondi (Olivia), Vinicio Marchioni (Malachia)
Italia, 2013
Trailer del film

amiche_da_morireUna prostituta alla Bocca di Rosa, che suscita l’entusiasmo dei maschi e il risentimento delle «comari di quel paese»; una mogliettina assai tonta, divisa tra il credere a tutto ciò che il marito le racconta e una gelosia che la inquieta; un’operaia con la fama di iettatrice e soprattutto condizionata da una madre che più mediterranea non si può. Il tutto in una non meglio precisata isola del Sud. Queste tre donne si trovano a dover condividere intimità e segreti quando una di loro spara e uccide. E non spara soltanto una volta. Tra poliziotti cecati, banditi che finiscono in scatolette, santi buttati a mare, trionfa una femminilità insieme sensuale e sacra, luogocomune e assassina, gastronomica e colorata. Amiche da morire è un noir caricaturale e divertente, recitato con gigioneria e seduzione. La donna è un teatro che cammina, insomma.

 

Sullo Stretto

Il Sud è niente
di Fabio Mollo
Italia, 2013
Con: Miriam Karlkvist (Grazia), Vinicio Marchioni (Cristiano), Andrea Bellisario (Carmelo), Alessandra Costanza (La nonna), Valentina Lodovino (Bianca), Giorgio Musumeci (Pietro)
Trailer del film

Il_Sud_è_niente

 

Grazia vive a Reggio Calabria con il padre, che aiuta nella pescheria. Della madre nulla si sa. La nonna viene di tanto in tanto a dare una mano. Su tutto la presenza e l’ombra del fratello maggiore, morto qualche anno prima. Grazia si veste e si comporta come un maschio. Non ha amici, tranne un coetaneo che lavora nelle giostre. Spesso vede il fratello, come se fosse vivo.
Il Sud è niente vuole essere troppi film insieme: analisi delle dinamiche familiari; cronaca della malavita estorsiva che sottrae al padre negozio e casa; descrizione delle feste religiose del Sud; fotografia metafisica del silenzio e dei morti; racconto di una iniziazione all’essere donna. Molti film che non convergono tra di loro ma lasciano anzi troppo spazio al non detto e al non saputo. Di riuscita c’è l’atmosfera di profondo squallore di molti quartieri della città sullo Stretto, di un Sud che qui è davvero niente.

 

Lo sventurato rispose

Venere in pelliccia
(La Vénus à la fourrure)
di Roman Polanski
Francia-Polonia, 2013
Con: Emmanuelle Seigner (Vanda), Mathieu Amalric (Thomas)
Trailer del film
Trailer in francese (molto più intrigante)

Un viale di Parigi, in soggettiva. Lo sguardo entra in un vecchio teatro dove è rimasto soltanto il regista, alla fine di una giornata di audizioni per trovare la protagonista di un adattamento del romanzo di Leopold von Sacher-Masoch. Lo sguardo è quello di Vanda, attrice molto ignorante e assai volgare, che aspira però alla parte del personaggio omonimo. Thomas, il regista, non ne vuol sapere ma lei insiste. E improvvisamente la donna si trasforma in Vanda, la padrona la dominatrice la Venere in pelliccia. La contaminazione tra i personaggi e gli interpreti diventa inestricabile, l’ambiguità si fa ironica e crudele.

Teatro e cinema al quadrato, attori -magnifica Seigner- che riescono a far capire quando fanno finta di essere un personaggio e quando lo sono per davvero. Sappiamo bene che l’esistenza collettiva è un grande gioco di finzioni ripetute e intricate. Lo è soprattutto la seduzione. L’innamorato non conosce che il suo desiderio di essere tormentato. Non può che aprire e chiudere le branchie e diventare una sola cosa con l’elemento, con il sale. Si prepara da sé il cartoccio in modo che all’Altro basta prenderlo e buttarlo sulla graticola. Bello saporito fresco e con l’occhio ancora vivo. Non è colpa di lei o di lui se il suo dolore diventa così appetitoso. È l’amante che si fa divorare. Qualunque cosa ne pensino romantici e sognatori, il mondo è fatto di una sottile ma tenace geometria. L’amore non è soltanto chimica allo stato puro, desiderio che attraversa cellule e molecole, è anche il luogo nel quale cause ed effetti, premesse e conseguenze, condizioni e risultati, accadono nel modo che una buona intelligenza artificiale saprebbe ben descrivere e prevedere, se fornita di una sufficiente quantità di dati. Gran parte dei nostri mali arrivano senza che possiamo fare nulla. Altri, invece, sono evitabili. Un amore appartiene ai secondi. Come scrisse una volta Alessandro Manzoni: «La sventurata rispose». O, nei termini biblici ricordati dal film, «Il Signore lo colpì e lo mise nelle mani di una Donna».

 

 

 

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

Don Giovanni, l’antidoto

Teatro Franco Parenti – Milano
Il Don Giovanni
Vivere è un abuso, mai un diritto

di Filippo Timi
Con Filippo Timi, Umberto Petranca, Alexandre Styker, Roberta Rovelli, Marina Rocco, Elena Lietti, Roberto Laureri, Matteo De Blasio, Fulvio Accogli
Costumi: Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele
Luci: Gigi Saccomandi
Scene e regia: Filippo Timi
Sino al 24 marzo 2013

«Dio è un virus e la vita è un’infezione». Così parla Don Giovanni.
La fica. Il doppio. Il Crocifisso. Alien. Il padre, l’incesto. Le bambine ginnaste alle Olimpiadi. La musica pop. Youtube. Arancia meccanica. Discoteche. Bare. Una magnifica Zerlina candida e svampita. Donna Elvira è un enorme ragno rosso appassionato. Leporello innamorato del suo padrone. Donna Anna odia il padre e punisce Don Ottavio. Il Commendatore intubato, con la bombola d’ossigeno. Hegel, il servo e il signore. Baci. Fisicità straripante ovunque. Don Giovanni vestito di plastica, di gonne, di fiori e degli scalpi delle sue donne. L’amore suprema illusione e inganno. Colori accesi e cangianti. Un flusso di battute al quale il pubblico risponde con risate clamorose e sincere. Trionfo finale. Blasfemia. Un pastiche linguistico di italiano, inglese, romanesco, tedesco.
La madre. La morte. Satana. La cacca. La crudeltà. Il mistico. La Gnosi.
Geniale. Visionario e geniale.

À l’ombre des jeunes filles en fleurs

All’ombra delle fanciulle in fiore
di Marcel Proust
(À l’ombre des jeunes filles en fleurs, 1919)
Trad. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XX- 604

L’adolescenza, «quell’adolescenza che –come scrive Proust in una variante- pur restringendosi, riducendosi ad un esile filo d’acqua spesso asciutto, si prolunga tuttavia talvolta per tutto il corso della vita» (pag. 563), è uno dei temi che percorre il secondo volume della Recherche.
Il Narratore adolescente si introduce alla vita di società, ai salotti mondani, ai “bagni di mare”, ai primi amori, alla solitudine profonda della sua natura, una solitudine tanto naturale quanto necessaria:

Nello stare in sua compagnia, nel conversare con lui non provavo –e, certo, sarebbe stato lo stesso con chiunque altro- nulla di quella felicità che mi era invece possibile raggiungere quando ero senza compagno (336) 1

Ma, in mancanza di una compagnia sopportabile, [Elstir] viveva nell’isolamento, con una selvatichezza che le persone della società chiamavano posa e cattiva educazione, i poteri pubblici spirito di contraddizione, i suoi vicini follia, la sua famiglia egoismo ed orgoglio (431) 2

Noi non siamo simili a costruzioni cui si possano aggiungere pietre dall’esterno, ma a piante che traggono dalla loro propria linfa il nodo successivo del loro fusto, il piano superiore del loro fogliame (512) 3

E, sempre a proposito del pittore Elstir, «la pratica della solitudine gliene aveva dato l’amore» (431) 4 . Anche l’apertura al mondo misterioso, dolce e terribile dei sentimenti è pervasa di un profondo costruzionismo gnoseologico ed esistenziale: «Quell’Albertine era soltanto una sagoma; tutto quel che vi si era sovrapposto era opera mia» (462) 5 ; «Certamente pochi capiscono il carattere puramente soggettivo di quel fenomeno che è l’amore, e com’esso sia una specie di creazione d’una persona supplementare, distinta da quella che porta lo stesso nome in società, una persona di cui la maggior parte degli elementi sono opera nostra» (45) 6

Quando siamo innamorati di una donna proiettiamo semplicemente in lei uno stato della nostra anima; di conseguenza, l’importante non è il valore della donna, ma la profondità dello stato d’animo; e le emozioni che una ragazza mediocre ci dà possono permetterci di far risalire alla nostra coscienza parti più intime di noi stessi, più personali, più lontane, più essenziali, di quanto non farebbe il piacere che ci dà la conversazione di un uomo superiore o anche la contemplazione ammirata delle sue opere (436) 7

Quando si ama, l’amore è troppo grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la persona amata, incontra in lei una superficie che lo arresta, lo costringe a tornare verso il punto di partenza, e questo rimbalzo della nostra stessa tenerezza noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo tanto più dolce di quanto fosse all’andata, perché non sappiamo che proviene da noi (196) 8

In Proust una saggezza immensa svela gli enigmi, le meschinità, lo splendore della società umana, i suoi meccanismi più nascosti, i dolori e le speranze più potenti.
E mentre Odette de Crécy, ormai diventata Madame Swann, così incede nello spazio della pagina e del mondo: «Non meno che dall’apice della sua nobile ricchezza, era dal glorioso colmo della sua estate matura ed ancora così saporita che la signora Swann, maestosa, sorridente e buona, inoltrandosi lungo l’avenue del Bois, vedeva, come Ipazia, sotto il lento incedere dei suoi piedi, volgersi i mondi» (229) 9,  “la petit brigade des jeunes filles en fleurs” sboccia di una vita indeterminata e collettiva, voluttuosa e sorridente, sensuale e candida.

Note

1. «Je n’éprouvais à me trouver, à causer avec lui -et sans doute c’eût été de même avec tout autre- rien de ce bonheur qu’il m’était au contraire possible de ressentir quand j’étais sans compagnon» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 582).

2. «Mais faute d’une société supportable, il vivait dans un isolement, avec une sauvagerie que les gens du monde appellaient de la pose et de la mauvaise éducation, les pouvoirs publics un mauvais esprit, ses voisins de la folie, sa famille de l’égoïsme et de l’orgueil» (p. 651).

3. «Nous ne sommes pas comme des bâtiments â qui on peut ajouter des pierres du dehors, mais comme des arbres qui tirent de leur propre sève le nœud suivant de leur tige, l’étage supérieur de leur frondaison» (p. 710).

4. «La pratique de la solitude lui en avait donné l’amour» (p. 651)

5. «Cette Albertine-là n’était guère qu’une silhouette, tout ce qui s’y était superposé était de mon cru» (p. 674)

6. «Sans doute peu de personnes comprennent le caractère purement subjectif du phénomène qu’est l’amour, et la sort de création que c’est d’une personne supplémentaire, distincte de celle qui porte le même nom dans le monde, et dont la plupart des élements sont tirés de nous-même» (p. 375)

7. «Je m’étais mieux rendu compte depuis, qu’en étant amoureux d’une femme nous projetons simplement en elle un état de notre âme; que par conséquent l’important n’est pas la valeur de la femme mais la profondeur de l’état; et que les émotions qu’une jeune fille médiocre nous donne peuvent nous permettre de faire monter à notre conscience des parties plus intimes de nous-même, plus personelles, plus lointaines, plus essentielles, que ne ferait le plaisir que nous donne la conversation d’un hommes supérieur ou même la contemplation admirative de ses œuvres» (p. 655).

8. «Quand on aime, l’amour est trop grand pour pouvoir être contenu tout entier en nous; il irradie vers la personne aimée, rencontre en elle une surface qui l’arrête, le force à revenir vers son point de départ et c’est ce choc en retour de notre propre tendresse que nous appelons les sentiments de l’autre et qui nous charme plus qu’à l’aller, parce que nous ne reconnaissons pas qu’elle vient de nous» (pp. 482-483).

9. «Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (p. 506).

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