Skip to content


«Viva le femmine! Viva il buon vino!»

da Don Giovanni
di Da Ponte – Mozart

(1787)

Atto II – Scena XVIII
Orchestra e coro dell’Opera di Parigi
Direttore: Lorin Maazel
Don Giovanni: Ruggero Raimondi
Donna Elvira: Kiri Te Kanawa
Leporello: José van Dam

Donna Elvira ancora si illude di poter essere amata da Don Giovanni, si illude soprattutto di ‘redimerlo’, «che vita cangi». Di fronte a una richiesta così insensata -la cristiana metanoia, la conversione- l’uomo la invita a condividere il suo pranzo: «Lascia ch’io mangi, / E se ti piace, / mangia con me». Alla patetica preghiera di diventare altro da ciò che è, Dom Juan oppone la necessità del corpo, del cibo. Leporello -il doppio che mai prevale- vedendo quanto accorato sia l’amore della donna, dice tra sé e sé che «se non si muove / al suo dolore, / Di sasso ha il core, / o cor non ha». Ma Don Giovanni potrebbe rispondere con le stesse parole del Visconte di Valmont delle Liaisons Dangereuses: «Trascende ogni mia volontà». Rispetto alla tragedia di Choderlos de Laclos, tuttavia e per fortuna, Da Ponte e Mozart elevano un inno alla gioia: «Vivan le femmine, / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / d’umanità!».
Subito dopo questo grido di piacere e di potenza appare sulla scena il primo segno del moralista, del Commendatore, che viene a prendersi il reietto per portarselo all’inferno. Ma Don Giovanni non rinuncerà mai alla sua vitalità disperata e diretta, replicando «No!» al «Pentiti!» che più volte dal Commendatore gli viene intimato. «Incredibilmente sprovvista di etica, la sua opera non può aver contratto un debito nei confronti dell’ebraismo, religione dell’etica che si fonda sull’osservanza della Legge». Questa accusa indirizzata da François Rastier a Heidegger è in realtà un grande apprezzamento, che potrebbe essere rivolto anche a Mozart-Da Ponte.
Le femmine e il vino, per sempre.

[audio:Don Giovanni_Vivan_le_femmine.mp3]

«Otello c’era già dintra la riti»

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Otello
di Luigi Lo Cascio
Liberamente ispirato a Otello di William Shakespeare
Con: Vincenzo Pirrotta (Otello), Luigi Lo Cascio (Iago), Valentina Cenni (Desdemona), Giovanni Calcagno (Soldato)
Scenografie, costumi e animazioni di Nicola Console e Alice Mangano
Musiche di Andrea Rocca
Regia di Luigi Lo Cascio
Produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione
Sino al 1 febbraio 2015

Piacerebbe molto a Roland Barthes questo Otello, il cui senso è che l’Altro non esiste se non come dispositivo di sogno e di tortura. «L’oggetto di lu nostru sentimentu, / ‘un ci su Santi, havi pi forza assumigghiari / a ‘nsonnu ca nuantri nni ‘nsunnamu, / ‘nsonnu, spettru, fantasima, visioni» (41)1; afferma lucido il Soldato che intrama i dialoghi tra Otello e Iago, tra Desdemona e Otello, narrando la tragedia non del moro di Venezia ma di un uomo troppo preso da passioni e incapace di porre una distanza, una qualsiasi distanza, tra sé e l’enigma della donna. È il Soldato, infatti, che osserva giustamente come ai nomi di Bruto, di Coriolano, del principe di Danimarca, di re Lear, si pensa ai loro sentimenti e alle passioni -che siano crudeltà, potere, incertezza, dubbio, sdegno, delusione o altro- «‘nveci quannu si dici Otello / di subito si penza ch’era niuru» (31). E questo impedisce di comprendere che la Differenza tra lui e Desdemona non sta nel fatto che «una è janca / chi labbruzza di rosa e l’autru scuru / c’a funciazza di niuru primitivu / e sarbaggiu. A cosa ‘mpurtanti / ca ‘i fa diversi e pi sempri luntani […] è ch’unu è masculu mentri l’autra è fimmina» (ibidem). La passione funesta di Otello è consistita dunque nell’incapacità di accettare la differenza e l’enigma che la donna è, l’incapacità di fare propria «l’arti / di rispittari chista luntananza» (ibidem), arte nella quale consiste l’amore.
Piacerebbe molto a Sade questo Otello, nel quale Iago rivolgendosi agli spettatori dichiara di non essere qui tra noi per dare spettacolo, non è per noi questo teatro, non per la nostra soddisfazione, ma per se stesso,  per lui che si avvia consapevole e gratificato al supplizio riservato ai traditori perché questo ha voluto, questo ha tramato, questo ha realizzato. Ha voluto, tramato, realizzato la rovina di un uomo e di una donna che si erano creduti felici, la rovina di «sti du’ critini» i quali «si jieru a nnammurari…» (51).
Piacerebbe molto agli gnostici questo Otello, nel quale Iago definisce senza infingimenti l’umanità perduta nella sua disgrazia, la cui «dannazioni è comuni distinu […] picchì stu cancru ‘unn’è cosa luntana, / è a cosa cchiù vicina chi ci aviti, / siti vuatri stissi u cancru / semu nuatri, razza umana, / razza chi nasci già diginirata… / È cancru pi natura l’omu, / cancru e fangu» (21-22).
Piacerebbe molto a Iago questo Otello, che finalmente lo affranca dalla colpa, perché se costui, certo, prepara, alimenta e attizza il fuoco, la sostanza che brucia però è Otello stesso, «è la menti d’Otello ca ‘un sa fira / a suppurtari di la donna u gran misteru» (66). Iago è sincero perché convinto veramente che Desdemona «né cchiù né menu d’autri fimmini / era sicuramenti na buttana» (ibidem). La colpa di Otello sta anche nell’assoluta e inaccettabile ingenuità con la quale lascia che l’alfiere lo inganni sino alla pazzia; sta nel mancato iato tra la parola e l’azione, distanza che in sostanza fa l’umano; sta nel fatto che «Otello c’era già dintra la riti» (ibidem), stava già nella rete che il ragno delle passioni e del carattere fila senza posa, stava già nella maledizione del fazzoletto che sua madre in Egitto ricevette da una maga potente che tutto conosceva tra le stelle, fazzoletto che è il primo personaggio a comparire sulla scena, enorme lenzuolo sul quale si proiettano i sogni, gli incubi e i pensieri degli umani, sino a che -implacabile e pietosa- la Parca finalmente recida il filo della ragnatela che ci siamo costruiti.
Le soluzioni sceniche e registiche di questa magnifica rappresentazione sono dunque all’altezza della radicalità dello sguardo sull’umano, non troppo annacquata da qualche freudismo di maniera, come il racconto che Iago fa di quando lui quattordicenne scoprì il tradimento di sua madre. La lingua è -come si è visto- un siciliano duro e trasparente, parlato dai tre maschi sulla scena mentre Desdemona canta l’italiano. Lingua che ben rappresenta la natura arcaica ed esotica di questa tragedia, pur così vicina alla tragedia di noi tutti, dei nostri perduti sentimenti di gettati. Lingua che restituisce l’intento da cantastorie con il quale il testo è stato probabilmente concepito, intento che trova nella fisicità potente e arrotolata di Vincenzo Pirrotta l’Otello ideale a questo scopo.
Nel finale ariostesco Otello e il Soldato vanno verso la Luna a recuperare le lacrime e i sospiri di Desdemona  e soprattutto il fazzoletto. Ma un colpo all’ala ricevuto dall’ippogrifo durante il volo li costringe a lasciare lì ciò che hanno trovato. Una chiusa che sembra stridere con la tragicità profonda che precede ma che forse intende suggerire come la tragedia umana è per gli dèi poco più di una farsa, sempre uguale e quindi assai noiosa.

Nota

1. L. Lo Cascio, Otello, Mesogea, Messina 2015. Il numero di pagina è indicato tra parentesi nel testo.

Una donna meravigliosa

L’amore bugiardo – Gone Girl
di David Fincher
Con: Ben Affleck (Nick Dunne), Rosamund Pike (Amy Dunne), Carrie Coon (Margot Dunne), Kim Dickens  (il detective Ronda Boney)
Usa, 2014
Trailer del film

Inizia e si conclude quasi con le stesse parole: «Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio. ‘A cosa pensi?’ ‘Come ti senti?’ ‘Che cosa ci siamo fatti?’».
Nick e Amy vivevano a New York ma hanno perso il loro (assai remunerato) lavoro e si sono trasferiti in provincia. Nick discute con la sorella gemella su che cosa regalare alla moglie nel giorno del loro quinto anniversario di matrimonio. Quando torna a casa, però, Amy è sparita. Tracce di sangue, forse un rapimento. Cominciano le ricerche e cominciano anche i sospetti verso il marito. Arrivano da New York gli insostenibili genitori di Amy, due marpioni molto per bene che hanno fatto soldi raccontando e assai abbellendo l’infanzia-adolescenza della figlia, diventata protagonista di una serie di sdolcinati romanzi. Le tv reality (tipo quelle di Barbara D’Urso e Bruno Vespa, per intenderci) si scatenano, creano colpevoli, si intrufolano dentro le esistenze, tolgono respiro.
Così la prima ora, molto televisiva, molto americana e molto noiosa. Poi comincia un altro film, che disseziona il matrimonio, non quello dei due personaggi ma il matrimonio in quanto tale, attraverso la struttura del doppio. Doppio film; doppia identità -Amy somiglia alla donna che visse due volte di Hitchcock-; doppia parentela -Nick è un gemello-; doppio legame -«Siamo complici».
Anche rispetto al suo banale marito, Amy è una donna determinata, intelligente, spietata, bella, ingenua, perfida, lamentosa, finta, ossessiva, sensuale, gelida. Una vera donna, insomma. Un personaggio perfetto per la società dello spettacolo, che di tali meraviglie si nutre.
«L’amore come fatum, come fatalità, cinico, innocente, crudele -e appunto in ciò natura! L’amore che nei suoi strumenti è guerra, nel suo fondo è l’odio mortale dei sessi!»
(F. Nietzsche, Il caso Wagner, in «Opere», vol. VI/3, Adelphi 1975, § 2, p. 9).
«Ciò che si oppone alla simulazione non è il reale, che ne costituisce solo un caso particolare, è l’illusione»
(J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina Editore 1996, p. 21)

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

Geometria / Rivolta

FLATLANDIA
Racconto fantastico a più dimensioni
di Edwin A. Abbott 
(Flatland. A Romance of Many Dimensions, 1882)
Traduzione e prefazione di Masolino D’Amico
In appendice un saggio di Giorgio Manganelli
Adelphi, Milano 1999 (1966)
Pagine XX – 166

 

FlatlandiaUn Quadrato parla. E racconta la propria vita nel Paese della Superficie, dove le dimensioni della materia sono soltanto due –lunghezza e larghezza- e non si ha idea alcuna dell’altezza. Narra usi e costumi di questa terra piatta, di questa società assolutamente gerarchica nella quale i criteri del valore sono il numero dei lati e degli angoli. Dalle donne che sono Linee -e dunque poste al livello più basso dell’essere e del capire, tenute nell’ignoranza, inaffidabili e vessate ma sempre pericolosissime con la loro micidiale punta acuminata- ai Triangoli isosceli stupidi e violenti con i loro angoli acuti; dagli Equilateri operai ai Quadrati professionisti; dai Pentagoni ed Esagoni -sempre più raffinati e colti- fino alle somme Circonferenze, che sono –in realtà e naturalmente- dei Poligoni con un numero altissimo di lati estremamente piccoli.
Questa società dura, armoniosa e implacabile come può esserlo solo la Geometria, vive della morte continua di ogni Figura che con i suoi angoli mal gestiti possa costituire un pericolo per gli altri; viene scossa da periodiche rivolte capeggiate da Forme irregolari; è governata da una casta sacerdotale potentissima e pervasiva: «Da noi i Preti sono gli Amministratori di ogni Affare, Arte e Scienza […] senza far nulla direttamente, essi sono la Causa di ogni cosa che valga la pena di fare e che viene fatta da altri» (pag. 81). La dottrina che pervade questo spazio è una Razionalità geometrica consapevole della Necessità di ogni ente ed evento poiché non l’educazione o l’esperienza ma è «la Configurazione che fa l’uomo» e dunque «a un giudizio sereno, buona e cattiva condotta non sono ragioni sufficienti né di lode, né di biasimo» (84).
Al Narratore accade di ricevere la sconvolgente rivelazione -da parte di una Sfera- dell’esistenza della Terza dimensione e dunque dello Spazio. Poco prima il Quadrato aveva sognato un Paese della Linea ai cui abitanti lui stesso tentava inutilmente di dimostrare la parzialità della loro struttura. Ora riceve dalla Sfera un’analoga lezione. Rifiuta però questa saggezza e allora viene letteralmente “rapito” nel Paese dei solidi e lì finalmente vede ciò che fino ad allora aveva soltanto dedotto. Si scioglie così alla sua mente l’enigma che non comprendeva quando la Sfera gli parlava. Incapace dello sforzo di volontà che gli garantirebbe, a detta della Sfera, di lasciare il suo piatto mondo, una violenza pedagogica lo trasporta «verso l’Alto, ma non verso il Nord» (139), secondo la formula con la quale cercherà –tornato nella Pianura- di ricordare la ricchezza senza fine della prospettiva spaziale.
Infatti questo Quadrato regolare, pedante e insieme avventuroso -questo «povero Prometeo della Flatlandia» (150) come da sé si definisce- comincia a chiedere al suo maestro e salvatore di insegnargli anche la Quarta, la Quinta e le altre dimensioni. Ma questo dio circolare mostra anch’egli la povertà delle proprie vedute quando respinge tali aspirazioni come follie e sogni, non avendo dunque appreso la verità essenziale: che ogni ente vive nel proprio ambiente commettendo l’errore di pensarlo come l’unico, quando invece lo Spazio è davvero senza fine. Anche la Sfera somiglia insomma a quella creatura infima e adimensionale che vive in Pointlandia e che di se stessa si compiace come dell’unico e totale universo, chiamandosi It, Esso: «Infinita beatitudine dell’esistenza! Esso è: non c’è altro al di fuori di Esso» (141). Altrettanto convinta che oltre le tre del proprio mondo altre dimensioni non si diano, la Sfera scaglia il Quadrato là da dove lo trasse. Nella insensata speranza di convertire i suoi simili alla sapienza dello Spazio, il Narratore viene imprigionato ed è da un carcere quindi che egli racconta.
Così si chiude «questo universo di visioni tragiche e gnostiche» permeato di «una gelida grazia astratta» come con esattezza lo definisce Giorgio Manganelli (165 e 155). Un libro intriso di ironia e di rigore, di invenzioni fantastiche e di dimostrazioni matematiche, di intenti satirici (verso la società vittoriana e non solo) e di serietà mitologica. Un’autentica visione della mente. Un invito a cogliere la plausibilità dell’ipotesi che -oltre alla materia e al movimento- la struttura delle cose sia fatta di un’ulteriore dimensione che è il Tempo.
Il libro di Abbott ha una Wirkungsgeschichte ampia, imprevedibile e carsica. La sua eco riaffiora, ad esempio, anche nelle scenografie di Dogville (2003), il film per il quale Lars von Trier sceglie una scenografia bidimensionale fatta di semplici linee che consente di vedere dall’alto la città, esattamente come il Quadrato vedeva la sua Terra una volta uscito da essa.
Un libro sovversivo, alla fine, con la sua tenace ambizione di suscitare «con qualsiasi mezzo nell’intimo dell’umanità sia Piana che Solida uno spirito di rivolta contro la presunzione che vorrebbe limitare le nostre Dimensioni a Due, a Tre o a qualsiasi numero che non sia Infinito» (132).

 

In principio la parola

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Monica Centanni
Scene e costumi di Arnaldo Pomodoro
Musiche di Marco Podda
Con: Francesco Scianna (Oreste), Francesca Ciocchetti (Elettra), Elisabetta Pozzi (Clitemnestra), Graziano Piazza (Egisto), Ugo Pagliai (Apollo), Paola Gasmann (Pizia)
Regia di Daniele Salvo
Sino al 21 giugno 2014

Mentre Atena proclama il Diritto, e con ciò fa nascere la città umana, ricorda però ai Greci e a noi tutti che le forze ctonie delle figlie della Notte -le Erinni- andranno onorate per sempre. E che quindi sarà necessario rispettare la terra feconda, il mare infinito, i venti che portano forza. Esattamente quello che non facciamo più, nel disprezzo antropocentrico per ciò che chiamiamo «Natura» separando da essa l’umano. «Sciagurati!», potremmo dire al modo dei Greci.
E invece la Pizia sa bene che persino nel luogo sacro ad Apollo -a Delphi- Dioniso «possiede il paese -no, non mi fugge di mente!- da quando, capo divino, capitanò le Baccanti» (Eum., vv. 24-26; trad. di Ezio Savino). Il rapporto triplice tra Atena -femmina nata senza bisogno di madre e il cui «favore va sempre alla parte maschile» (ivi, 737)-, Apollo -maschio che nega recisamente alla madre che sia lei a produrre il suo frutto, «solo, nutre il gonfio maturo del seme» (ivi, 659)- e Dioniso -immagine senza sesso e splendente ma pur sempre vicina alle Furie- scandisce l’ambigua identità della donna nell’Orestea. La trilogia sembra decisamente ostile all’elemento femminile. Alle origini e nei modi di ogni male ci sono infatti delle donne, la loro follia umana e divina: Elena, Clitemnestra (della quale il figlio esclama «Mai mi affianchi nella casa una consorte simile!»  [Coe., 1005]), Elettra, le Erinni. E tuttavia le perdenti e poi vincenti -le Erinni/Eumenidi- e il giudice supremo, Atena, sono forma femminile al comando del mondo, della storia, del cosmo.
La Dea della mente dopo aver finalmente persuaso le Furie a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile ira, così di se stessa canta il trionfo:

Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita.
(Coe., 928-934)

E in che modo, con quale mezzo, Atena è riuscita a simile impresa? Con la parole, lo dice lei stessa. Con le parole che Πειθώ -la Persuasione- le ha suggerito. È la Parola dunque a fondare il campo umano, a dare alla specie la forma che salvaguarda dall’orrore che Furia diffonde nel mondo.
Il bisogno di Vendetta impellente, trafelato e insieme incerto, che guida Elettra, Oreste e il coro nelle Coefore  e che sùbito diventa balbettio e terrore di fronte al matricidio, può sciogliere il nodo violento della propria incertezza soltanto di fronte alla persuasione di Apollo, il quale disprezza le Erinni, e alla persuasione di Atena che sa renderle amiche. Entrambi, Atena e Apollo, emblema della parola che pensa e che nel pensare produce le azioni, il senso, la vita.
Non erano necessarie, per narrare questo prodigio, una recitazione e una regia a volte un po’ troppo urlate e lontane dall’equilibrio che sempre in Eschilo splende tra il furore e la calma dei versi, soprattutto nelle Coefore. Efficace, invece, la nebbia che dà inizio alle Eumenidi e la sua conclusione nel sole di Apollo. Le scene di Arnaldo Pomodoro sono le più adeguate a esprimere la presenza della parola di Eschilo sin nei gangli più antichi dell’essere umano e nei nostri.

 

La Grande Madre

In grazia di Dio
di Edoardo Winspeare
Italia, 2013
Con: Celeste Casciaro (Adele), Laura Licchetta (Ina), Anna Boccadamo (Salvatrice) Barbara De Matteis  (Maria Concetta), Gustavo Caputo (Stefano), Angelico Ferrarese (Cosimo), Antonio Carluccio (Crocifisso)
Trailer del film

in_grazia_di_dioIl meraviglioso Sud. Il Salento. Il mare verso la Grecia. Le strade assolate, verdi e polverose. Una famiglia che ha aperto un’azienda tessile con i soldi guadagnati dopo decenni di emigrazione in Svizzera. La concorrenza dei cinesi e quindi la fine degli ordinativi da parte dei grandi marchi, i tassi di usura delle Finanziarie, le tasse esponenziali di Equitalia. La rovina. Il fratello torna in Svizzera. La madre, due sorelle, una nipote vendono fabbrica e casa e si trasferiscono in un loro fondo agricolo. Tornano a essere ciò da cui sono partite: contadine. Nessuna di loro rinuncia ai propri progetti. Ina, la nipote, è totalmente refrattaria alla scuola, sogna di farsi sposare da un riccone e trascorrere la vita tra burraco e costosi vestiti. Maria Concetta, la zia, recita la parte della Madonna in parrocchia ma la sua aspirazione è il cinema. Salvatrice, la nonna, trova un nuovo amore e si sposa. Soltanto Adele -la capafamiglia- sembra nascondere ogni desiderio dentro la durezza del lavoro. Urla rancore e perde stagioni dietro la nullità della figlia, l’odio per l’ex marito, l’incapacità di corrispondere all’amore di un antico compagno di scuola. Una solitudine che la spinge, una sera, a vendere l’oro per vestirsi di lusso e invitarsi a cena.
I rapporti tra queste donne sono espliciti, spietati nelle parole che si rivolgono, intramati di una solitudine lunare. E tuttavia, a loro modo, affettuosi. Uno sguardo sull’universo umano e femminile che dà l’impressione di esistenze reali e nello stesso tempo archetipiche. La Grande Madre fatta di tante maternità dolorose ma avvinghianti.

 

Vai alla barra degli strumenti