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Trump. Perché?

Alla fine ha vinto Trump. In realtà, i risultati del voto sono stati questi: Hillary Rodham Clinton 61.336.680 (47,55 %) – Donald Trump 60.609.576 (46,98 %). Ma la legge elettorale della cosiddetta ‘più grande democrazia del mondo’ (in realtà è l’India a esserlo) ha lo scopo di creare un filtro tra i cittadini e la carica di presidente: i ‘grandi elettori’. Anche nel 2000 a ottenere il maggior numero di suffragi fu Al Gore e a essere eletto fu invece Georg W. Bush.
Perché -con questi limiti- Trump è diventato presidente degli Stati Uniti d’America? Tra le molte ragioni ce ne sono alcune che ai laudatori dell’America clintoniana non fa piacere sentire. È su queste che mi soffermerò, lasciando le numerose altre ai tanti commenti che le elezioni USA hanno prodotto.

Trump ha vinto anche perché la globalizzazione alla fine sta distruggendo pure l’economia reale del più ricco Paese capitalista del mondo. Trump si è detto contrario ai trattati di libero scambio (TTIP) che permettono alle aziende di chiudere le fabbriche negli USA per trasferirle in Asia, lo stesso destino delle fabbriche dell’Europa occidentale.

Trump ha vinto anche perché ha dichiarato che gli USA dovranno badare più alla loro economia che alla esportazione della ‘democrazia’ a suon di bombe nel Nord Africa e nel Vicino Oriente. Si è così contrapposto alla furia interventista della signora Clinton, che ha voluto in prima persona -da Segretario di Stato- la morte di Gheddafi e la distruzione della Libia, causa di un afflusso senza precedenti di migranti in Italia e nelle altre coste europee, causa della morte in mare di decine di migliaia di esseri umani. La signora Clinton è stata una delle più ciniche assassine degli anni Dieci del XXI secolo. Nel suo complesso la politica di Obama-Clinton nel Vicino Oriente, in particolare in Iraq e Siria, ha causato due milioni di vittime. Un massacro che nessuno però chiama con questo nome.

Trump ha vinto anche perché ha dichiarato di voler ristabilire relazioni normali con la Russia. L’amministrazione Obama-Clinton ha invece creato una nuova guerra fredda (clamoroso il caso dell’Ucraina, dove il colpo di stato che ha schierato la Nato al confine con la Russia venne preparato da manifestazioni alle quali parteciparono cittadini non ucraini pagati dal German Marshall Fund), asservendo l’Italia e l’Europa a delle sanzioni contro Mosca che hanno causato ulteriori chiusure di attività produttive e commerciali nel nostro continente, estendendo la disoccupazione.

Trump ha vinto anche perché ha saputo utilizzare i social network, preferendoli alla grande stampa e alle televisioni, schierate in gran parte con la candidata Rodham Clinton. Forse è questo uno dei risultati più interessanti delle elezioni USA 2016, un chiaro segnale di trasformazione nelle modalità della comunicazione. O meglio, una conferma della crisi dei giornali, che non è crisi in primo luogo economica ma culturale e politica. Basti vedere la situazione italiana, con i grandi giornali e le televisioni schierate tutte dalla parte dell’attuale presidenza del consiglio. Uniche reali eccezioni il manifestoil Fatto Quotidiano.

Trump ha vinto anche perché altri miliardari -attori, cantanti, sportivi- hanno fatto propaganda per la Clinton. Che soggetti privilegiati, ricchissimi e famosi si siano rivolti a milioni di persone in difficoltà economica dicendo loro come avrebbero dovuto votare, ha giustamente irritato molta gente.

Trump ha vinto anche perché non se ne può più -davvero- del politicamente corretto, una dittatura del pensiero che è la vera erede del Grande Fratello di Orwell.

Trump ha vinto anche perché si è trovato di fronte una candidata potente ma impresentabile, definita da Diana Johnstone «Regina del caos» (titolo di un suo libro edito da Zambon, Frankfurt am Main, 2016). Johnstone scrive che «la disgrazia dei tempi fa sì che questa incosciente appaia perfettamente normale nel suo ambiente», una donna che è stata al servizio e insieme si è servita «delle potenze finanziarie, a partire da Goldman Sachs, nonché dei grandi mezzi d’informazione, a loro volta legati al complesso militare-industriale, e delle lobbies più influenti. Essi condividono il medesimo obiettivo principale: allargare e rafforzare quella che viene chiamata ‘globalizzazione’ – soprattutto attraverso i trattati di libero scambio e il dominio militare, tramite la Nato, e altri accordi bilaterali» (Diorama Letterario 333, p. 22).

Trump ha vinto anche perché il progetto elitario, bellicistico, globalista della presidenza Obama sta gettando gli Stati Uniti e il mondo nel caos e nella miseria.

Certo, Trump è anche troppo amico dei sionisti di Israele ed è indifferente -come minimo- alle questioni ambientali. In ogni caso, non so se il vincitore manterrà le tante promesse che lo hanno portato alla Casa Bianca, in particolare quelle relative al disimpegno militare con la Nato e al rifiuto del liberismo selvaggio. Sono promesse che forse non potrà mantenere e neppure vorrà. Un risultato comunque spero sarà acquisito: le classi dirigenti e l’opinione pubblica europee non vedono e non vedranno più nel presidente degli Stati Uniti d’America una figura prestigiosa, nobile nonostante i suoi limiti, ieratica, quasi sacra. Il Padrone ha perso la sua aura. Questa è una condizione simbolica fondamentale per la difesa della nostra libertà. Con un soggetto come Donald Trump insediato nella carica più importante del mondo, il potere ha gettato la maschera, il re è finalmente nudo.

Dismisura

La «ricchezza sfacciata» e la «vanità fuori dalla norma» di Donald Trump fanno di questo inquietante personaggio un emblema della disperazione della classe operaia e del ceto medio statunitensi, i quali affidano a lui quello che si può definire «l’ultimo respiro dell’America bianca» (J. Littell, in Diorama letterario, n. 331, pp. 1 e 5), destinata a essere fortemente ridimensionata dall’affermarsi dei latini e degli afroamericani.
In ogni caso, poco cambierà per i ceti meno abbienti degli USA e per i suoi vassalli. A confermarlo è anche il dissolversi delle illusioni -ché tali sono state sin dall’inizio- riposte nel ‘primo Presidente nero’. Obama si è comportato da capo di una potenza interessata soltanto al proprio dominio mondiale e al perpetuarsi del potere all’interno. Ben lo argomenta Giuseppe Ladetto in una analisi che deve molto al realismo di Machiavelli, al suo mostrare l’essenza del comando, che più parla di ‘bene’ collettivo e meno lo pratica.
«Nel discorso pubblico, i leaders, in particolare quelli dei paesi liberal-liberaldemocratici, devono dare un’immagine di sé e della propria nazione intrisa di riferimenti etici. Pertanto non esplicitano mai i veri obiettivi della loro azione, che sono sempre dettati da logiche di potenza e non da principi morali. Così, quando i risultati delle azioni intraprese divergono palesemente dagli obiettivi dichiarati per finalità di immagine, nascono valutazioni infondate anche se quei leaders hanno raggiunto proprio quegli obiettivi che in realtà si erano proposti». (12)
Tra gli obiettivi principali dell’amministrazione Obama -come di quelle che l’hanno preceduta e che la seguiranno- c’è il controllo dell risorse del pianeta, la sottomissione degli alleati, la neutralizzazione delle uniche due potenze che possono in parte oscurare quella americana: Russia e Cina. Al fine di perseguire tali scopi, «l’attuale condizione di instabilità ed ingovernabilità mediorientale potrebbe essere per loro, entro certi limiti, la soluzione migliore. […] Per certi versi, l’instabilità dell’area può servire alla grande potenza per tenere in allarme i paesi ‘amici’ e mantenerli legati a sé» (Id., 13). E questo contribuisce a spiegare molti eventi legati alla situazione del Vicino Oriente, comprese le azioni dell’Isis.
In questa chiave, la vittoria di Hillary Rodham Clinton potrebbe risultare «per gli europei una sciagura probabilmente senza precedenti, per le tendenze ultra-egemoniche e belliciste messe in mostra dalla ex first lady e segretario di Stato» (testo redazionale, p. 39).
Assai più di altri imperi, quello statunitense è intessuto di dismisura. Le sue dimensioni, fondamenti, obiettivi, strumenti, rappresentano esattamente l’opposto di ciò che «la filosofia greca sapeva», vale a dire «che il limite prima di segnare i confini della cosa, è ciò che la fa esistere» (O. Rey, 23). Questo impero che non ha rivali crollerà probabilmente per dissoluzione interna, per questa sua dismisura. Già si intravvedono i segnali di una guerra civile tra le diverse etnie e gruppi che abitano un Paese profondamente diviso, nonostante la retorica patriottica e militarista con la quale cerca di nascondere in primo luogo a stesso la propria discordia interna, la στάσις.

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