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Spaziotempo

Quel che accade tra Einstein e la meccanica quantistica
il manifesto
17 agosto 2019
pagina 11

Ne Il concetto di spazio / The concept of Space. Il destino dell’uomo alla fine della metafisica (Loghìa, 2018) Gianluca Giannini conduce una densa riflessione sullo spaziotempo. Ho cercato di dialogare con le sue tesi dalla mia prospettiva temporale ed è stata anche un’occasione per sintetizzare alcuni concetti che i lettori di questo sito (e dei miei libri) conoscono bene.
Non c’è un tempo che precede gli eventi e nel quale gli eventi accadono ma l’accadere degli eventi è il tempo. Il quale non è soltanto un dato mentale come non è soltanto un’esperienza fisica. Il tempo è la differenza della materia nei diversi istanti del suo divenire ed è l’identità di questo divenire anche in una coscienza che lo comprende. La realtà consiste nell’accadere degli eventi nei diversi strati e strutture che compongono la materia. Strati che vanno dal puro sussistere fisico-chimico all’esistere come coscienza consapevole.

Dio

aristotele_2La filosofia è per Aristotele conoscenza delle cause, degli elementi, dei principi primi del reale. Il mondo, infatti, è assai complesso e i concetti che cercano di darne conto non sono mai univoci. Anche per questo nella Fisica (trad. di A. Russo e O. Longo, Laterza 1983) lo Stagirita afferma che a dirsi «in molti modi» non è soltanto l’essere (A, 185 a) ma anche l’uno (A, 185 b), il divenire (A, 190 a), le cause (B, 195 a). Agli «antichi» che, «spinti dalla loro inesperienza» (A, 191 a), cercarono un principio o una modalità unica del divenire e dell’essere, Aristotele oppone delle indicazioni metodologiche molto precise. In generale, la sensazione è in grado di apprendere il particolare, il “pensiero” -invece- l’universale (A, 189 a); coniugando dunque sensazione e pensiero Aristotele cerca di costruire una teoria completa e plausibile del cielo, del movimento e del tempo.
«Che la terra sia immobile, valga per ammesso» (De caelo, Ivi, B, 289 b); qui l’empirismo mostra tutta la propria efficacia come anche i suoi limiti. Il constatare con i sensi l’immobilità e la centralità della Terra non rende per questo meno falsa tale concezione; avevano maggior ragione, invece, i Pitagorici con il loro fare “mistico e matematico”, poiché ritenevano «che al centro è posto il fuoco, mentre la terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno» (De caelo, B, 293 a).
Tra le due ipotesi alternative della sfericità o piattezza del nostro pianeta, Aristotele opta per la prima: la Terra è «una sfera non molto grande, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamento degli astri, quando noi ci spostiamo di così poco» (De caelo, B, 298 a). Incorruttibile, ingenerato, eterno, il cielo è mosso di moto uniforme (De caelo, B, 289 a), formando con la Terra tutta la materia; la quale è soggetta a trasformazione sul nostro pianeta e che invece nel resto del cosmo è immodificabile perché perfetta. Fuori del cielo non si dà luogo, né vuoto, né tempo.
L’eternità del movimento è gemella dell’eternità del tempo. Una tesi, questa, che separa con chiarezza la prospettiva aristotelica da quella cristiana, in particolare agostiniana, per la quale il divino è fuori dal tempo. Per Aristotele, invece, il divino è il tempo stesso: «Ma se sono impossibili l’esistenza e il pensiero del tempo senza l’istante, e se l’istante è una certa medietà e ha simultaneamente principio e fine -principio del futuro, fine del passato-, è necessario, allora, che ci sia sempre un tempo […] Ma se c’è un tempo, è ovviamente necessario che ci sia anche un movimento, dato che il tempo è un’affezione del movimento» (Θ, 251 b).
Tuttavia non è di solo movimento che il tempo si compone. Aristotele coniuga infatti il tempo della materia con quello della psiche. Lo Stagirita riconosce un’aporia di fondo che fa apparire il tempo come esistente e insieme inesistente poiché «una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza» (Δ 218 a). Impalpabile e sfuggente, il tempo sembra anche motore della corruzione e della fine (Δ 221 b e 222b) ma soprattutto esso è presente ovunque e «in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Δ 223 a).
Nel mondo oggettivo della quantità, il tempo irrompe con la misura scandita dalla mente:

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza della mente. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto la mente o l’intelletto che è nella mente hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella della mente […]. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo. (Δ 223 a)

L’ordine fisico e la razionalità matematica della Natura trovano dunque nel tempo il loro emblema, la realtà più piena, la prova della unità di ogni ente e dimensione. Tempo e movimento, insieme, costituiscono ancora una volta l’eternità. Tale è il cosmo ordinato dei Greci: eterno come il tempo, essendo il tempo Dio.
Oltre che del movimento, il tempo è anche «numero della sfera, perché mediante questo si misurano gli altri movimenti ed il tempo medesimo» (Δ 223 b). Una circolarità che coniuga la mente e l’Universo nell’istante eterno: «Anche questo nome di αἰών si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti αἰών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice αἰών, e prende questo nome da αιει εἶναι [essere sempre], immortale e divino» (De caelo, A, 279 a).
La materia è eterna, il tempo è sempre. Materia e tempo sono Dio.

Hic et nunc

«Come certi personaggi letterari sono costitutivamente esseri di fuga –basti pensare all’Albertine della Recherche-, così l’indagine filosofica sul tempo sembra mutuare dal suo oggetto il dileguarsi nel momento stesso in cui il tempo viene nominato.
La difficoltà non è soltanto teoretica o logica o empirica. L’ostacolo è anche esistenziale. Il tempo, infatti, è per gli umani l’altro nome della morte. E qui il nodo diventa talmente complesso da consentire a Platone di definire la filosofia come una preparazione al morire e a Spinoza di affermare che a nulla il saggio pensa meno che alla morte. E anche l’esatta prospettiva epicurea –per la quale il morire ci è precluso poiché si tratta di un incontro che il vivente non può che mancare, sin quando è vivente- nasconde e rivela una difficoltà quasi costitutiva da parte del pensiero di pensare la morte, poiché si pensa sempre qualcosa e mai il niente. Perfino il noumeno è soltanto un concetto-limite e quindi pensabile al confine tra il conoscibile e l’ignoto, ma la morte? E il tempo, che la sostanzia? Si tratta di due processi diversi o non è forse il medesimo divenire che mostra se stesso nell’esserci temporale delle cose e nel loro ultimo dissolversi e scomparire? Non è certo un caso se il filosofo che nel Novecento ha fatto del tempo e dell’essere il proprio oggetto privilegiato è anche colui che meglio di ogni altro ha tematizzato la morte. Finitudine e temporalità sono due categorie o due esistenziali o due processi che formano un vincolo concettuale ed esperienziale unico. Sono la vita nel suo esserci e nell’andare. Non possiamo comprendere il morire perché e finché siamo pensiero vivo in atto e vita pensata nel tempo. Ma dal non poter comprendere la morte scaturiscono numerose difficoltà, aporie, genericità nella riflessione sul tempo. Donando agli umani l’ignoranza sul quando della loro morte, Prometeo ha reso possibile le attività e il fervore della vita di ogni giorno ma ha anche posto un ostacolo alla comprensione della natura temporale dell’umano, della sua finitezza costitutiva e quindi precedente ogni morale, ogni religione, ogni pensiero della cosa. E dunque l’affermazione aristotelica secondo la quale l’uomo è l’essere vivente che possiede in sé la percezione del tempo (De anima, III, 433 b) significa in primo luogo che l’uomo è l’essere che conosce la propria finitudine e in essa abita, esattamente come il divino abita l’altrove. L’altrove che è il sempre».
(La mente temporale, pp. 205-206)

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