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Cinema / Ossessione

The Aviator
di Martin Scorsese
USA-Giappone, 2004
Con: Leonardo Di Caprio (Howard Hughes), Cate Blanchett (Katharine Hepburn), Kate Beckinsale (Ava Gardner), John C. Reilly (Noah Dietrich), Alan Alda (Il senatore Ralph Owen Brewster), Ian Holm (il professor Fitz)
Trailer del film

Il disturbo ossessivo-compulsivo induce a ripetere gli stessi gesti e le medesime parole in una sequenza potenzialmente infinita. Un comportamento che «sembra nascere da un impulso a rivisitare gli stessi pensieri e compiere certe azioni, ancora e ancora» (M. Wenner Moyer, in Mente & cervello 82, ottobre 2011, p. 67) e il cui scopo ultimo è «annullare il tempo», come ha mostrato assai bene Elvio Fachinelli nel suo La freccia ferma (Adelphi).
Howard Hughes (1905-1976) era affetto da questa sindrome, che lo induceva -tra l’altro- a lavarsi continuamente le mani, a evitare i contatti con determinati oggetti e persone, a essere ossessionato da batteri e pulizia. La scena iniziale del film mostra il piccolo Howard lavato dalla madre, che gli parla di malattie e tifo, di pulizia appunto. Lo lava con un sapone nero. Un detergente che Howard porterà sempre con sé. Quest’uomo fu un imprenditore, un regista e produttore cinematografico, un aviatore di eccellente bravura. Un uomo che mise a rischio il proprio cospicuo patrimonio in film e progetti aeronautici al limite dell’impossibilità; che venne ostacolato e inquisito da commissioni del governo USA, complici dei suoi concorrenti; che ebbe molte donne e molti guai.
Un personaggio temerario e geniale, fuori dalle regole e assai narciso, eclettico e monomaniaco, estremo. Un soggetto ideale per l’ossessione di Martin Scorsese, che con l’aiuto di Leonardo Di Caprio ne fa un personaggio epico, totalizzante, simbolo della follia e della corruzione di un’intera società.
The Aviator appare oggi il primo atto e la premessa di un film identico e assai più coinvolgente, di un capolavoro come The Wolf of Wall Street, che dieci anni dopo (nel 2013) descriverà uno squalo della finanza -Jordan Belfort- con lo stesso viso di Di Caprio ma con una frenesia e maestria fatte di tecnica danzante.
In entrambi i film il vero argomento è il cinema, la sua finzione, la sua verità, l’ossessione che può diventare.

Mente & cervello 82 – Ottobre 2011

Hans-Georg Gadamer, 102. Bertrand Russell, 98. Ernst Jünger, 103. Karl Popper, 92. Sono gli anni di vita di alcuni filosofi del Novecento. Una bella età, vero? È soltanto una piccola conferma empirica di quanto l’epidemiologia cognitiva va scoprendo con «risultati inequivocabili: più bassa è l’intelligenza di una persona, misurata secondo i test, e maggiore è il rischio che questa corre di avere una vita breve, di andare incontro a disturbi sia fisici che mentali in tarda età e di morire a causa di malattie cardiovascolari, suicidio o incidente» (I.J.Deary, A.Weiss, G.D.Batty, p. 28). Certo, si potrebbero fare altrettanti nomi di personaggi intelligentissimi morti piuttosto giovani. E dunque «forse non è essere intelligenti il fattore chiave per vivere a lungo; l’aspetto cruciale potrebbe essere agire e prendere decisioni da persona intelligente» (Id., 33), come -ad esempio- non fumare, evitare di dare troppa importanza a quanto ci succede, guardarsi dalle passioni distruttive.
Dell’intelligenza umana è parte assolutamente centrale la parola. Il linguaggio è davvero l’acquario nel quale noi, pesci parlanti, nuotiamo per l’intera esistenza. «Il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. di A.G. Conte, Einaudi 1980, prop. 6.43, p. 80). Perché? Una ragione sta nel fatto che tutto ciò che si vive, compreso il dolore e la gioia, lo si vive in maniera linguistica, lo si pensa in termini che hanno un significato. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (Ivi, prop. 5.6, p. 63) e dunque gli eventi assumono la loro valenza più profonda in relazione non soltanto a come accadono ma anche a come li penso e li dico. Perché «tutto si risolve in un cervello che cerca senso nelle cose, anche dove non esiste» (P. Garzia, recensione a La bella e la bestia: arte e neuroscienze, p. 105). Alla linguisticità del mondo questo numero di M&C dedica vari articoli, tutti di carattere empirico e che offrono dunque ampie conferme alla tesi di Wittgenstein, condivisa -in modi diversi- da Heidegger e da Gadamer: «Le persone di lingua madre diversa vivono davvero in mondi concettualmente diversi?». Sì, perché «la madrelingua influenza il nostro modo di pensare» e «quando impariamo una nuova lingua, di fatto ci impadroniamo di un modo nuovo di pensare» (K. Wilhelm, pp. 36, 39 e 40). È assai interessante il fatto che tutto questo sia legato anche alla percezione e rappresentazione spaziotemporale. Mentre infatti chi  -come gli europei- scrive da sinistra a destra si raffigura lo scorrere temporale in modo orizzontale, «i cinesi che parlano la lingua mandarina raffigurano lo scorrere del tempo come un movimento verticale» e se si costringono europei e cinesi a modificare la direzione spaziale «la cosa stravolge anche la loro percezione del tempo» (Id., p. 40).

Si susseguono sempre più le evidenze sperimentali che ampliano l’intelligenza agli animali non umani. Al di là del caso mediatico-sportivo del polpo Paul che “indovinò” tutti i pronostici dei mondiali di calcio sudafricani, i cefalopodi mostrano di possedere «capacità di apprendimento, orientamento, comunicazione», che sinora sono stati attribuiti soltanto ai vertebrati (N. Nosengo, p. 60) e persino «le api possono sperimentare qualcosa di simile all’umore» (J. Castro, p. 102).

È o no parte dell’intelligenza il «“pregiudizio illuminista”, cioè l’idea che l’uomo sia un essere razionale e quindi nella sua forma più colta ed evoluta, tenda a rigettare il pensiero metafisico» (D. Ovadia, p. 55)? In realtà si tratta di una tesi metafisica tipica di Comte, giustificata dall’arroganza delle chiese e di molti gruppi religiosi i quali «affermano di voler governare tutti, quindi anche i non credenti, secondo principi ispirati da qualche credo» (Id., p. 56), mentre dove le religioni sanno stare al loro posto -come nei Paesi del Nord Europa- l’ateismo dichiarato e militante è assai meno diffuso. Dichiarato e militante è invece il fondamentalismo cristiano in nazioni come l’Italia -dove assume un aspetto istituzionale tramite la chiesa papista- e negli Stati Uniti, Paese nel quale «recentemente la Corte Costituzionale ha persino ribadito l’obbligo di prestare giuramento su un testo sacro di qualsiasi natura quando si partecipa a un processo. Persino sulle nostre banconote c’è scritto “crediamo in Dio”» (Ibidem).
Tra i gruppi cristiani più singolari che operano negli USA ci sono gli anabattisti Amish, ai quali l’antropologo Andrea Borella ha dedicato una ricerca sin troppo simpatetica. Intervistato da P.E. Cicerone, Borella cerca infatti di spiegare e difendere le scelte di queste comunità, quali l’indifferenza verso qualsiasi conoscenza scientifica -che nelle loro scuole non viene studiata in alcuna forma-, «il rifiuto degli strumenti musicali, mentre il canto è ammesso […] quella che non è ammessa è l’arte fine a se stessa» (p. 79) e -elemento più noto- la volontà di non utilizzare quasi alcuno strumento tecnologico inventato dopo il Seicento.

Un interessante articolo è, infine, dedicato al disturbo ossessivo-compulsivo, che «sembra nascere da un impulso a rivisitare gli stessi pensieri e compiere certe azioni, ancora e ancora» (M. Wenner Moyer, p. 67); l’impulso distruttivo ad “annullare il tempo”, come ha mostrato assai bene Elvio Fachinelli nel suo La freccia ferma.

La psiche, l'orrore

«Già interiorizzato in posizione di onnipotenza, già intronizzato, si potrebbe dire, esso diventa ora autorità maiestatica, legge inesorabile, o rigore senza nome». Così Elvio Fachinelli (La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Adelphi, 1992, p. 114) a proposito della nevrosi ossessiva e della sua complessa genesi da un’autorità temuta e amata. È solo un esempio della miriade di disturbi e di sindromi delle quali ogni essere umano è vittima, seppure in maniera differente. Non esiste, davvero, persona “del tutto sana di mente” poiché la psiche è una fragile filigrana che con fatica fa da schermo alle pulsioni e ai desideri estremi in cui la vita consiste. L’immensa tristezza degli umani affonda qui, in questo difficile e ripetuto impegno a sottrarsi alle forze ctonie da cui pure siamo germinati. Anche per questo aveva ragione Sileno nella risposta che, infine, diede a Mida.

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