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Ellenismo

I secoli che vanno dalla battaglia di Cheronea vinta da Filippo di Macedonia contro le città greche (338 a.C.) alla dinastia imperiale dei Severi sono noti -a partire dalla definizione di Droysen- con il nome di Ellenismo. Sono secoli in cui l’identità greca si conferma, si amplia e trasforma. Dopo le imprese di Alessandro il Grande tre regni si disputano l’egemonia sull’impero da lui fondato: la Macedonia degli Antigonidi, l’Asia dei Seleucidi, l’Egitto dei Lagidi. L’intervento romano -o meglio i vari momenti nei quali Roma si alleò con alcuni Greci contro altri Greci- chiude l’esperienza politica degli Elleni (definitivamente nel 146 a.C.) ma non quella culturale, linguistica, civile che anzi si rafforza ed estende fino a far sì che «per non insignificanti aspetti l’impero romano dev’essere letto come realizzazione suprema dell’ellenismo» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di Salvatore Settis, vol. II/3 Una storia greca. Trasformazioni, Einaudi, 1980, p. 680). La storia delle πóλεις muta ma non scompare, anzi si rafforza e da vicenda di guerre permanenti diventa storia di una cultura complessa e ricca, garantita dalla pax alessandrino-romana.
Quella ellenistica è una società fortemente urbanizzata, culturalmente raffinata, in grado di vedere in se stessa la realizzazione di un principio universalistico e dedita in ogni suo aspetto e livello alla pienezza del vivere. Fondazione di nuove città e contatti sempre più intensi fra di esse determinano il potenziamento della πóλις classica, sino a fare di quasi ogni centro urbano -piccolo o grande- un luogo di diffusione della lingua e della cultura greche. La città ellenistica costituisce il modello della stessa Roma e quindi di tutta la successiva cultura urbana che caratterizza così fortemente la civiltà europea.
Nelle città ellenistiche –Pergamo, Siracusa, Alessandria, Atene– i successori di Alessandro dedicano grande attenzione e finanziamenti alle scienze, alle arti, alla filosofia. Quest’ultima vide forse proprio nell’Ellenismo la maggiore realizzazione del progetto platonico se è vero che «in molti, se non nella maggior parte dei contesti politici, la presenza e la visibilità dei filosofi fu altamente apprezzata» (468), tanto che nella stessa Roma -a partire dalle lezioni tenute nel 155 a.C. dai maggiori scolarchi greci- iniziò un interesse e «un desiderio per la filosofia che non sarebbe diminuito per il resto dell’antichità» (476). Lo sviluppo delle scienze durante l’Ellenismo dà ragione all’ipotesi di Lucio Russo, per il quale il III secolo a.C. fu il tempo di una vera e propria rivoluzione scientifica negli ambiti più diversi, una rivoluzione che non è stata soltanto l’anticipatrice di quella ben più famosa del XVII secolo ma la sua vera e propria fonte. E infatti: «Il secolo e mezzo successivo al presunto floruit di Euclide vide lo sviluppo davvero straordinario di una ricerca matematica di prim’ordine» (687), di una astronomia il cui valore fu riconosciuto da Copernico, di una filologia rigorosa in grado di elaborare le metodologie di lettura e di analisi dei testi «che costituiscono ancor oggi il fulcro della disciplina filologica: l’ eàkdosiv, o edizione, e il commento continuo dei testi» (1201), di una geografia fisica e antropica frutto della convergenza di calcoli geometrici, di conoscenze climatiche, di contatto diretto con i popoli.
La Biblioteca di Alessandria è solo la maggiore e più famosa delle tante istituzioni di ricerca che trasformarono il libro, la lettura, lo studio in strumenti di crescita economica e culturale. La lingua di questa cultura è il greco, sempre più diffusa nel mondo -dal I sec. a.C. al III dell’era volgare-, la più usata in Oriente insieme all’aramaico, parlata e scritta dalle persone colte di tutto l’Occidente. I Greci dell’Ellenismo sono certamente diventati cosmopoliti, hanno ampliato enormemente il proprio orizzonte di vita ma sono ancora i Greci attenti alla libertà del singolo, a quei principi di autonomi@a ed eleuqeri@a che rappresentano uno dei fattori di continuità, di lunga durata, della storia greca dall’età arcaica sino all’impero di Roma. I rapporti fra la Grecia e la romanità costituiscono certamente uno dei temi centrali dell’indagine sull’Ellenismo. Dall’incontro fra Roma e la Grecia è infatti nata l’Europa medioevale e moderna, con il suo peculiare stile di vita urbano, tecnico e teso all’espansione. Sembra di poter dire con sufficiente sicurezza che «non c’è momento della storia romana del quale si possieda documentazione che non riveli il marchio della cultura greca» (941).
L’uomo dell’Ellenismo è dunque ancora l’uomo Greco, con la sua gioia di vivere, incarnata da Dioniso dispensatore di ebbrezza e di distruzione; dalla miriade di Satiri, Ninfe, Menadi, Centauri, Eroti il cui riso e felicità sono ancora vivi nella plastica ellenistica; da Pan con la sua sessualità straripante, innocente, doppia: «Gli antichi […] erano affascinati dalla bisessualità come da un fenomeno di intensificato piacere dei sensi. Nei giochi della fantasia ci si poteva augurare di provare allo stesso modo sia le gioie maschili che quelle femminili» (592). Per questi Greci una vita senza piacere e festa, senza la gioia del corpo, non vale la pena di essere vissuta; abbiamo «a che fare con un’epoca interessata a organizzarsi la vita in maniera comoda e piacevole» (593), un’epoca che così vuol vivere anche perché consapevole della dimensione aleatoria dell’esistenza, cosciente del potere che l’attimo e il caso -καιρóς e tu@ce- sempre esercitano sul mondo degli umani.
Questi Greci sono davvero diversi da noi, dallo sfondo sacrificale e ascetico della civiltà cristiana, sono lievi, disincantati, ironici e sereni. E sono anche politicamente più avanzati per la loro capacità di distinguere l’interesse privato da quello pubblico, per la loro volontà di non subire pericolosi conflitti di interesse. Fra di loro chi aveva da difendere i propri beni e aziende (ta# iòdia, oikeia) non poteva né doveva farli prevalere e confondere con il bene di tutti, con la sfera della politica (ta# dhmo@sia, politika@). E anche socialmente avremmo da imparare da uomini meno ipocriti, che non proclamavano ideali di eguaglianza e fratellanza universale ma che di fatto consentivano agli schiavi di «possedere beni ed effettuare transazioni legali» (713) mentre nelle nostre società umanitaristiche sono ampiamente tollerate le più subdole e feroci forme di schiavitù. Ma forse vale in particolare per i Greci quanto Strabone afferma dell’Europa intera:

Bisogna dunque cominciare dall’Europa, perché è la regione che più di ogni altra si trova nelle migliori condizioni per varietà di forma e per eccellenza di uomini e di governi e che più di ogni altra ha elargito i propri beni al resto del mondo (Geografia, 2.5.26).

Arcaici / Ora

Gran parte delle moderne esegesi sui pensatori delle origini derivano da Aristotele e da Teofrasto, poiché la stessa dossografia greca trae dai due peripatetici le proprie informazioni, i testi, gli schemi. Il problema consiste nel fatto che Aristotele e la sua scuola sono molto lontani dalla dimensione dionisiaca, misterica, iniziatica che è propria del pensiero greco arcaico. Giorgio Colli sgombera anzitutto il campo da questa lettura per poi affidarsi alla propria sensibilità filologica e alla guida dei pochi che avrebbero «compreso qualcosa di vitale della Grecia»: Nietzsche e Burckhardt (La natura ama nascondersi. Φυσις κρυπτεσται  φιλει, Adelphi 1998 [I ed. 1948], p. 14). Che cosa questo significhi è ben esemplificato dal ritratto che emerge di Empedocle, assai vicino a ciò che Nietzsche è stato nella contemporaneità: «Il dramma è recitato con una maschera inalterabile, un sorriso melanconico e staccato accompagna la rivelazione delle verità più strazianti» (214). Più in generale, la grandezza dei filosofi arcaici è consistita in alcuni elementi che essi hanno posseduto in sommo grado, che Platone ancora conserva e che dopo di lui andarono perduti per riapparire ancora una volta al tramonto del mondo classico, con Plotino. Con quest’ultimo, infatti, «uno squarcio soltanto di vita presocratica basta a chiudere degnamente la grecità» (33).
Fra tali elementi, sono importanti la distanza, la libertà, l’interiorità, il dionisiaco.
Ciò che Nietzsche chiama pathos della distanza e gusto del gioco costituisce la radice della grandezza greca: «Il senso del distacco, l’essere sempre al di fuori di fronte a ciò che si presenta, l’opporsi ad ogni trascinamento e ad ogni livellamento» (22). Chi -come Protagora- proclama l’eguaglianza degli uomini si pone totalmente al di fuori dell’ellenismo più profondo. È per questo -per la sua vicinanza agli arcaici- che Platone è così ostico verso l’illuminismo democratico, «che tollera soltanto nel maestro», in Socrate (262).
Una libertà politica senza confronto permise ai primi filosofi greci di affermare delle verità terribili, di porsi con alterigia verso il potere e verso il demos, e ciononostante di vivere ancora: «Nessuna potenza terrena tollerò in seguito alcunché di simile» (24).
L’interiorità di questo mondo si esprime per Colli proprio in quella parola -φυσις- che la scuola aristotelica interpretò come principio materiale e che invece andrebbe letta come «interiorità noumenica» (179).
Del dio che sempre muore e sempre riappare nella sua gioia strabordante, nella sua passione tragica per la vita e per le cose -di Dioniso- tutto il pensiero arcaico è intriso. Per queste ragioni il giovane Platone è per Colli l’ultimo pensatore delle origini: «La sua teoria delle idee nasce ora come traduzione espressiva dell’esperienza dionisiaca che l’ha portato alla solitudine. La realtà ultima delle cose deve essere costituita da essenze αυτά καθ’αυτά, ossia da individualità perfettamente indipendenti, prive di ogni limitazione fenomenica, pure verità interiori, viventi una vita solitaria» (264).
Se tale è stato il mondo greco arcaico, due nomi ne riassumono la pienezza e il tramonto: Parmenide e, appunto, Platone. Il primo rappresenta un’oggettività senza cedimenti, una natura talmente piena di sé da vedere nel potere politico soltanto una forma infima dell’essere; il secondo prosegue e porta a compimento la vicenda e la forma del “maestro venerando e terribile” ma poi cede di fronte alla sua stessa altezza e finisce schiavo della passione e delle contraddizioni politiche. Parmenide fu quindi «staccato in una sfera eterogenea ad ogni espressione, autosufficiente e senza desiderio» (166). Platone colse il frutto di tanta potenza nel cammino filosofico che dal Fedone lo porta al Simposio passando per il Fedro. Poi però «concreto e sereno come nel Simposio egli non sarà più, perché qui soltanto raggiunge il suo fragile punto di equilibrio, e dovrà in seguito fatalmente scendere la china dell’astrazione. Un miracolo del genere è unico nella storia dello spirito» (289).
La  forza di Colli consiste nello sguardo profondo ed empatico del filosofo capace di trarre alla luce e rendere vive le parole di una sapienza antica. Il suo limite sta nella difficoltà che tuttavia emerge di unire sino in fondo il rigore filologico con l’approccio teoretico. È ciò che a Colli riuscirà comunque più tardi, allorché il lavoro critico su Nietzsche gli consentirà un cammino a ritroso da questi a Schopenhauer, a Spinoza, a Eraclito-Parmenide, per cogliere nell’anello del ritorno anche il ritorno della sapienza arcaica nel cuore della modernità all’apparenza più romantica e invece -nella sua essenza- dionisiaca, o almeno del dio ancora una bella maschera.

Don Giovanni, l’antidoto

Teatro Franco Parenti – Milano
Il Don Giovanni
Vivere è un abuso, mai un diritto

di Filippo Timi
Con Filippo Timi, Umberto Petranca, Alexandre Styker, Roberta Rovelli, Marina Rocco, Elena Lietti, Roberto Laureri, Matteo De Blasio, Fulvio Accogli
Costumi: Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele
Luci: Gigi Saccomandi
Scene e regia: Filippo Timi
Sino al 24 marzo 2013

«Dio è un virus e la vita è un’infezione». Così parla Don Giovanni.
La fica. Il doppio. Il Crocifisso. Alien. Il padre, l’incesto. Le bambine ginnaste alle Olimpiadi. La musica pop. Youtube. Arancia meccanica. Discoteche. Bare. Una magnifica Zerlina candida e svampita. Donna Elvira è un enorme ragno rosso appassionato. Leporello innamorato del suo padrone. Donna Anna odia il padre e punisce Don Ottavio. Il Commendatore intubato, con la bombola d’ossigeno. Hegel, il servo e il signore. Baci. Fisicità straripante ovunque. Don Giovanni vestito di plastica, di gonne, di fiori e degli scalpi delle sue donne. L’amore suprema illusione e inganno. Colori accesi e cangianti. Un flusso di battute al quale il pubblico risponde con risate clamorose e sincere. Trionfo finale. Blasfemia. Un pastiche linguistico di italiano, inglese, romanesco, tedesco.
La madre. La morte. Satana. La cacca. La crudeltà. Il mistico. La Gnosi.
Geniale. Visionario e geniale.

Dioniso / Delphi

Per quanto secolare sia la scienza filologica, per quanto molto sappiamo dei Greci, per quanto ci sforziamo di intuire, conoscere, capire la loro esistenza, in realtà da essi ci separa un abisso. È come se ci fosse quasi precluso sentire ciò che essi sentivano, la loro forza, il loro sorriso, il loro modo di vivere e concepire la morte e il sacro. Il significato e il valore dell’itinerario di Walter Friedrich Otto (1874-1958) nel mondo greco stanno forse soprattutto nel tentativo di varcare tale distanza, di riandare alle radici di quel mondo, al suo impulso primitivo. Le origini di un fenomeno così vasto e fecondo rimangono l’essenziale, ciò che è da cogliere se vogliamo comprendere che cosa i Greci, che cosa Dioniso furono. Al di là quindi dello storicismo, della psicologia, della sociologia, per Otto il lavoro filologico è strumento di incontro con il mito.

Contro lo scetticismo aprioristico dei moderni, Otto ritiene che bisogna partire dalla teofania, dall’apparizione del divino nelle forme più diverse ma tutte reali, una realtà dimostrata dagli immensi effetti di questo incontro fra gli dèi e gli umani. La presenza del divino era sentita in modo immediato nel culto e nei miti, due elementi inseparabili che sempre si rafforzano a vicenda. Nel modo greco di intendere il cosmo, gli dèi sono veramente incarnati poiché «il dio, sebbene figuri come una personalità possente, pure in ultima analisi è tutt’uno con lo spirito e con la forma, e quindi con tutto l’essere di quel regno che governa» (W.F. Otto, Dioniso. Mito e culto [1933], trad. di A. Ferretti Calenda, Il Melangolo, Genova 2002, p. 198)
Il manifestarsi del divino ha una forza del tutto particolare quando il dio che appare è Dioniso. Presente nel mondo ellenico già dalla fine del secondo millennio, Dioniso è un dio duplice, la cui potenza consiste nel coniugare gli opposti e quindi nel rappresentare il tutto dell’essere e l’intero dell’esperienza umana. Esiodo (Theog, 941) lo chiama polughetés, il ricco di gioia che là dove arriva trionfa. E tuttavia Dioniso è anche un dio sofferente, morente, dispensatore di tormenti e tormentato egli stesso, con il quale «la vita si trasforma in ebbrezza di beatitudine ma anche […] in ubriacatura di terrore» (84) in una mistura inseparabile di «pienezza di vita e violenza di morte» (149). Dioniso appartiene ai due regni dell’umano e del divino, lui nato due volte –la prima generato da Persefone, la seconda concepito da Semele e poi cresciuto nella coscia di Zeus-; lui dallo sguardo estatico e dal sorriso che sconcerta, maschera enigmatica che «lo insedia potentemente, ineluttabilmente, nella presenza, ma al tempo stesso lo sottrae in una lontananza indicibile» (97); lui che quando appare scatena il frastuono più frenetico e poi –di colpo- il più impietrito silenzio. Coloro che gli stanno vicino –le Menadi, i fedeli, il toro, il capro, l’asino- condividono il duplice destino di euforia e di spasimo
Ma più di tutti è Arianna a farsi una sola cosa con lui, vivendo la massima felicità e i più strazianti dolori. Arianna è l’amata del dio, la più bella, ma Dioniso è sempre circondato da donne, da compagne fidate, da nutrici, da Menadi frementi, da coloro che danno la vita e la tolgono nella brama di sangue, nella potenza sconfinata dei cicli temporali. È Dioniso per primo a soffrire «gli atti spaventosi che compie» (113), a essere vittima di se stesso e a portare con sé distruzione, sin da quando Zeus incenerì Semele che lo aveva in grembo, sin da quando nella forma taurina venne sbranato dai Titani. Uno dei suoi segreti, quindi, è un duplice legame: il primo con Ade, come testimonia l’antica e decisiva parola di Eraclito. Il secondo legame è l’unione profonda, è l’identità enigmatica con il dio della misura e della luce, con Apollo, suo fratello. Nel luogo più sacro a quest’ultimo, a Delphi, c’era la tomba di Dioniso. Plutarco racconta che all’inizio dell’inverno tacevano i peana apollinei e per tre mesi erano i ditirambi dionisiaci a risuonare.
I due fratelli regnano insieme a Delphi e dominano insieme sul mondo poiché «il regno olimpico s’innalza al di sopra dell’abisso terrestre, la cui onnipotenza esso ha infranto. Ma la stirpe dei suoi dei è scaturita essa stessa da quelle profondità, e non rinnega le sue cupe origini: essa non sarebbe se non esistesse quella notte eterna davanti a cui Zeus stesso si inchina. […] Sono riuniti in Apollo tutto lo sfolgorio del mondo olimpico e i regni contrapposti dell’eterno trascorrere e dell’eterno divenire» (217).
La tragedia attica è il luogo in cui questa straordinaria intuizione vive ancora e per sempre. Nel dispiegarsi della tragedia Nietzsche comprese l’unità dei due fratelli signori del cosmo, poiché «solo dall’essenza stessa del mondo può venirci la luce» (51).

Taranta Power

L’anima persa
di Eugenio Bennato
da Taranta Power (1999)

Nella musica tarantolata dev’essere rimasto qualcosa del dionisismo mediterraneo, di questo abbraccio frenetico allo spazio, di questa gioia che sa del limite e lo trasforma nella pienezza dei corpi. Melpignano, in provincia di Lecce, fa parte della Grecìa Salentina; lo scorso 25 agosto vi si è svolta la quindicesima edizione della Notte della Taranta.
Uno dei più grandi musicisti italiani, Eugenio Bennato, mostra da tempo tutta la fecondità artistica e antropologica che quest’antica musica contiene in sé. Il suo Taranta Power studia, diffonde, ricrea lo straordinario fenomeno. Il brano L’anima persa è un bellissimo risultato di questa ricerca ed è anche un vero e proprio manifesto nel quale vengono ricordati alcuni importanti nomi della musica etnica del Sud d’Italia: Andrea Sacco, Antonio Piccininno, Antonio Maccarone, Matteo Salvatore, Rocco Di Mauro, Umberto Cantone, Alfio Antico, Antonio Infantino. Tutti nomi intervallati dal grido «tarantella power». Vengono poi ricordati luoghi che toccano l’Italia intera. Ma vi dominano soprattutto il ritmo, la frenesia, il canto: «Per quella strada a sud del mondo / dove batte il tempo della taranta / ca te passa vicino e s’annasconde / ca te fa girare comm’a n’amante».
Splendide sono anche Ritmo di contrabbando e Alla festa della Taranta, che proporrò in futuro all’ascolto. Intanto, consiglio di gustare il video di L’anima persa: è una musica candida e sensuale, come interamente erotica e innocente è l’esperienza dionisiaca.

 

Baccanti, una Gesamtkunstwerk

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Giorgio Ieranò
Musiche di Germano Mazzocchetti
Con: Maurizio Donadoni (Dioniso), Massimo Nicolini (Penteo), Gaia Aprea (corifea), Francesco Benedetto (Tiresia), Daniele Griggio (Cadmo), Daniela Giovanetti (Agave), Martha Graham Dance Company (coro delle Baccanti)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 29 giugno 2012

Un catafalco, una “vara”, un fercolo. Su di esso avanza il dio. Braccia spalancate, viso immobile, voce tonante. Racconta di come Tebe, la città dove nacque da Semele e da Zeus, non abbia riconosciuto la sua deità. E per questo dovrà essere punita. Pènteo, il giovane re, più di tutti continua a respingere il dio, a interpretare la sua potenza come ciarlataneria, i suoi riti come immoralità. Ma chi resiste a Dioniso è perduto, perché questo dio è l’energia profonda della terra, del cielo, del tempo. La hybris di Pènteo lo rovina sin dall’inizio, sin dal suo nome. Le Baccanti danzano, sussurrano, gridano. Le mura di Tebe e i silenzi del Citerone vengono scossi dalle fondamenta attraverso il grido del trionfo: Evoè!

Baccanti
è l’ultima tragedia euripidea, messa in scena postuma. Con essa si chiude in qualche modo il teatro greco. E tuttavia è proprio in questo spasmodico tramonto che Dioniso è per la prima volta il protagonista assoluto di un dramma. Dioniso, che della tragedia greca è il dio fondatore. Dioniso per onorare il quale il teatro nasce non come spettacolo, non come esperienza ludica ma come rito, come esperienza del sacro.
La potenza del dio che –insieme ad Apollo, suo fratello- fu il vero signore della Grecia pulsa nelle Baccanti a ogni istante, invade lo spazio scenico, parla attraverso tutte le parole, tutti i personaggi, anche con le voci dei suoi nemici. All’inizio Dioniso ribadisce quasi ossessivamente la propria natura divina – «Ho l’aspetto di un uomo mortale ma sono un dio», «un dio vero e terribile / ma anche dolcissimo con gli uomini», un dio che ama l’oscurità e la luce, entrambe sacre, un dio ricolmo di ebbrezza ma anche di saggezza, un dio che dà la morte in modo terribile ma che è la vita stessa, indistruttibile, «unzerstörbaren Leben» (K. Kerényi).
Dioniso sa che «io non dovrò mai subire / quello che non è scritto nel mio destino». E questo vale per tutti gli umani, per tutte le cose.
Di tale potenza orrida e felice Antonio Calenda ha voluto ricostruire per quanto è possibile le modalità con le quali veniva rappresentata in Grecia: non soltanto teatro ma Gesamtkunstwerk, opera d’arte totale nella quale la parola si coniuga alla danza e alla musica. Le danzatrici della Martha Graham Dance Company diventano così delle Baccanti lascive e incantate, fisse nello sguardo e frementi nella gestualità. E cantano i versi dettati loro da questo dio dolce e implacabile, incarnato qui da un Maurizio Donadoni che finalmente ha occasione di mostrare il proprio talento.
Mentre su una Siracusa insolitamente autunnale si stendeva il buio della notte, Dioniso tornava sul suo fercolo, diventato di nuovo maschera immobile, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra.

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