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Dioniso e il suo mondo

Mentre accediamo a una piazza di Monaco di Baviera immaginiamo per un poco di non trovarci nella Germania del XXI secolo. Attraverseremo i Propilei e vedremo davanti a noi due grandi edifici, due templi. Neoclassici, certo, ma costruiti nella misura e con le proporzioni che hanno reso immortale l’architettura degli Elleni. L’edificio alla nostra destra ospita le Staatliche Antikensammlungen, le collezioni archeologiche pubbliche di München.

Gioielli, anelli, gemme, corone. L’oro, il bronzo e l’argento. Anfore e contenitori in vetro. Una ricca sezione  con centinaia di piccole statue di argomento sacro e quotidiano. E poi elmi, corazze, strumenti di guerra. Nella Goldkranz von Armento, (Corona d’oro di Armento, IV sec. aev) riluce in alto Nike, la vittoria. 

Dall’arte protogeometrica all’ellenismo si raccoglie qui lo splendore della ceramica greca.

Al suo centro abita la Coppa Exikias (immagine di apertura), un oggetto che racconta in breve spazio la vicenda di Dioniso rapito dai pirati e che allo loro richiesta di riscatto sorride, li trasforma in delfini, fa nascere dall’albero maestro della nave la vite. Una coppa perfetta nei colori, nelle forme, nei simboli, nel movimento, nel ritmo, nella stasi, nel sempre. Dioniso vive, in una calma profonda, nel silenzio del tempo che è suo.

 

Il dio è circondato da altri miti, altre storie: le sue baccanti, come la Mänaden Schale des Brygos-Malers, una ciotola del pittore di Brygos (490) nella quale il bianco puro dello sfondo e degli abiti della Menade rendono gioiosa la cattura, la violenza, l’altrove dal quale questa potenza proviene.

E poi Pentesilea –alleata dei Troiani-, l’improvviso amore che sboccia tra lei e Achille proprio mentre l’amazzone muore per mano del guerriero acheo; amore e morte coniugati senza sentimentalismi e insieme con qualcosa di struggente come soltanto una fine che è inizio può essere.
Le Lekythoi mit weißem Untergrund  (Lekytoi con sfondo bianco; qui sotto) esprimono l’eleganza morbida e discreta dello spazio e delle figure verticali.
La sezione del Museo dedicata agli Etruschi fa entrare nel loro mondo, fatto della consapevolezza di essere già oltre la vita e per questo ancor più dentro la sua sostanza, che è il passare, il finire, il tempo.

Pausania / L’Attica

Vissuto nel II secolo e.v., viaggiatore attento e narratore insieme sobrio e fascinoso, ammiratore del filellenico imperatore Adriano, odiato dai cristiani in quanto «autore particolarmente interessato alla storia dei culti e dei luoghi di culto pagani» (Introduzione a Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, a cura di Domenico Musti e Luigi Beschi, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore  2013, p. LXVI; citerò il testo di Pausania indicando il numero dei libro, quello dei paragrafi e il numero di pagina della traduzione italiana), Pausania compose la sua descrizione di Atene e dell’Attica tra il 135 e il 150. I luoghi vengono percorsi quasi palmo a palmo, i monumenti descritti nel loro contesto e nella loro genesi, santuari e templi sono posti al centro della vita, ammirati gli eroi, compianta ma accettata la finitudine degli umani e di ogni cosa, individuati ovunque -davvero ovunque- gli dèi.
Per gli umani, infatti, «non c’è verso di evitare quanto il dio gli ha assegnato in sorte» (5, 35-36, p. 33) e anche «quelli che i Greci chiamano ‘valorosi’ non sono nulla senza la Fortuna», senza τύχη, che è anch’essa una divinità (29, 96-97, p. 163).
Dappertutto gli umani sono immersi nelle passioni della guerra e dell’amore. Tra tutte le vittorie degli Ateniesi, nessuna fu da loro rivendicata come quella di Maratona (14, 47, p. 79), con la quale la Grecità si oppose ai barbari. I quali però tornarono nelle vesti dei Macedoni, per quanto anch’essi Greci. Ostile a Filippo e a suo figlio Alessandro, Pausania sostiene che «il disastro di Cheronea fu all’origine delle sventure di tutti i Greci, soprattutto rese schiavi gli indifferenti e quanti si schierarono dalla parte dei Macedoni» (25, 21-22, p. 131). Ma la guerra in Grecia -e ovunque- è anche un fenomeno interno alle comunità politiche, alle città. Omicidi, complotti, aggressioni costellano la narrazione, come il caso di Efialte (495-461 a.e.v.), democratico radicale e per questo vittima designata dei poteri oligarchici (29, 140, p. 165).
L’altro nome della guerra è l’amore. Gli umani, infatti, «sono soliti incorrere in molte sventure a causa delle passioni d’amore» (10, 25-26, p. 55). Lo conferma la natura cosmica di Afrodite Urania, che in realtà «è la primogenita delle cosiddette Moire» (10, 17-18, p. 99), le divinità implacabili, le potenze prime e ultime che sovrastano il capo di Zeus insieme alle Ore, insieme al Tempo (40, 42-43, p. 215). La potenza di Afrodite si mostra in molte forme, situazioni, eventi, espressioni. C’è un’Afrodite che avvicina -Epistrofia- e c’è un’Afrodite che allontana -Apostrofia- (40, 61, p. 217). C’è Ἔρως e c’è ᾿Αντέρως, il dio vendicatore dell’amore non corrisposto (30, 1, p. 167).

Le Moire, Afrodite, Eros, Anteros, Nemesi, sono implacabili come irremovibile è il grande dio potenza della terra: Dioniso. Un dipinto che si trovava nel più antico santuario del dio ad Atene mostrava «Penteo e Licurgo, che pagano il fio delle offese arrecate a Dioniso; Arianna che dorme; Teseo che salpa e Dioniso che viene a rapire Arianna» (20, 30-33, p. 103).
La divinità pervasiva di questo primo libro della Periegesi è naturalmente la dea eponima, Atena, alla quale è consacrata l’intera città e tutto il suo territorio (26, 52-53, p. 139). Tra la miriade di luoghi, edifici, templi e monumenti illustrati da Pausania, fondamentale per l’identità dell’Europa è uno che si trova «non lontano dall’Academia […] la tomba di Platone, a cui la divinità preannunciò che sarebbe stato il più grande fra i filosofi» (30, 24-25, p. 169).

La peculiarità dello sguardo di Pausania consiste anche nel fatto che qualunque sia lo specifico spazio che descrive, è capace di inserirlo in un tessuto geografico, storico, mitologico di universale significato. Un’intenzione e una vastità della quale lo scrittore è del tutto consapevole: «Intendo toccare in ugual misura tutti gli aspetti del mondo greco» (26, 34, p. 139)
Al di là di Atene, Pausania presenta Capo Sunio, le isole a esso vicine, le altre più lontane -Egina e Salamina-, le montagne della Megaride, la città di Megara, Eleusi e i misteri ai quali egli stesso era iniziato e sui quali è dunque massima la discrezione, altri santuari, villaggi, luoghi dove esiste o è accaduto qualcosa di significativo, tanto più se poco conosciuto rispetto a quanto hanno già narrato Erodoto e Tucidide. Ma un luogo che è e rimane centrale è Maratona. Non soltanto, come accennato, questo fu per Atene e per i Greci l’evento chiave ma «a Maratona è dato di sentire ogni notte nitrire cavalli e uomini combattere» (32, 29-31, p. 175).
Si ricordò di queste parole Foscolo quando scrisse -in alcuni versi assai densi dei Sepolcri– che Atene «sacrò tombe a’ suoi prodi» a Maratona, pianura nella quale «il navigante / che veleggiò quel mar sotto l’Eubea, / vedea per l’ampia oscurità scintille / balenar d’elmi e di cozzanti brandi, / fumar le pire igneo vapor, corrusche / d’armi ferree vedea larve guerriere / cercar la pugna; e all’orror de’ notturni / silenzi si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto e un suon di tube / e un incalzar di cavalli accorrenti / scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, / e pianto, ed inni, e delle Parche il canto» (vv. 202-214) .
E delle Parche il canto. Infinito, silenzioso, inesorabile. Anche di questo trionfo della Necessità e dei suoi dèi è pervaso il viaggio di Pausania. Ecco perché «qui c’è anche una statua di Afrodite, una di Apollo e una di Pan» (44, 96-97, p. 243). Qui. Ovunque.

Elena gnostica

Teatro Greco – Siracusa
Elena
(Ἑλένη)
di Euripide
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 22 giugno 2019

Ho assistito a questo spettacolo insieme a un gruppo di studenti del corso di Filosofia teoretica del 2019. A loro dedico le riflessioni che seguono.

I percorsi del mito e degli dèi sono rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili. Il politeismo greco è anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena di Euripide rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica» (Anna Beltrametti, in Euripide, Tragedie, Einaudi 2002, p. 556).
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi – vana idea che non m’ebbe» (trad. di F.M. Pontani).
Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi – sono la stessa cosa – fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due, come prima in un dialogo fra Elena e Teucro, gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini , che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della «vana immagine» di Elena, «creata da un dio»; dei guerrieri «morti per una nuvola»; del «dio che è insondabile». L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
L’Elena di Euripide – opera per molti versi sconcertante – è accenno, filigrana e metafora di qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. Qualcosa che era nato con l’orfismo e che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida» (v. 239) riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce». Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao (vv. 513-514). Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’ (vv. 1666-1667). È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono –  come sempre nel divenire del mondo –  ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.

Nella spuma potente del cosmo

Per i Greci c’è nell’umano una suprema innocenza. Essi sanno e accettano che la nostra natura sia intrisa di limite, tempo, balbettio, tramonto. Assai più grande è infatti la forza degli dèi rispetto alla fragilità di una condizione finita. Se «la sorte dell’uomo è patire»1, questo è dovuto alla volontà dei Numi, che sono anch’essi passione e materia che brama. Una passione che spinge Afrodite a vendicarsi del disprezzo che le arreca il troppo casto Ippolito. La dea colpisce ponendo nel cuore di Fedra «una brama violenta, per volere mio» (114) poiché stolto è stato Ippolito a pensare di potersi, lui solo, affrancare dall’universale autorità del desiderio. Di se stessa infatti Afrodite canta la forza: «Tutti quelli che vedono la luce entro i confini del Ponto Eusino e dei monti d’Atlante, io li tengo in onore se s’inchinano al mio potere, mentre abbatto quanti sono verso di me sprezzanti e alteri» (113).
Da una tale potenza discende il piano inclinato dell’innamoramento di Fedra per il figlio di suo marito; delle ingenue trame che la nutrice organizza per dare compimento al desiderio della donna; dell’orrore che agli occhi di Ippolito tutto questo rappresenta; della vergogna e della vendetta di Fedra che morendo lo accusa; della troppo rapida maledizione scagliata da Teseo contro il figlio; della morte straziata di lui.
Artemide nulla può per salvare il proprio devoto, poiché «vige fra gli dèi questa legge: nessuno vuole opporsi al volere di un altro dio, ciascuno si ritira» (156), senza che però questo escluda la vendetta di Artemide che colpirà Afrodite nel più profondo degli amori di lei, quello verso Adone.
Accomunati sono quindi umani e divini nella passione. E se «non c’è per l’uomo una vita che trista non sia, né tregua c’è dell’affanno» (121) -tanto che «la cosa migliore, però, è, senza coscienza, morire» (123)-, agli umani Euripide offre lo strumento supremo della parola che accusa gli immortali dell’impotenza degli dèi di fronte al male profondo. Se, dichiara Artemide, «è normale che l’uomo sbagli, se gli dèi lo vogliono» (160), Ippolito giunge a dire -morendo- «potesse l’uomo maledirli, i numi» (159). Un coraggio filosofico e cosmico che a nulla si piega, se non ad Ἀνάγκη, signora di tutti, umani o divini che siano
Ben conoscendo tale realtà, nella mia vita ho onorato Afrodite e Dioniso, senza seguire la misurata e miserabile saggezza della nutrice: «Dovrebbero amarsi fra loro non più di tanto i mortali, non giungere mai a un affetto che tocca le viscere, sì da allentare o serrare i legami che crea l’amore, senza difficoltà» (123). Lascio un simile equilibrio, lascio tale distanza, ai contabili e preferisco immergermi nella luce della dea venuta dal mare, nella spuma potente del cosmo. 

1. Euripide, Ippolito, in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 121.

Pavese

Sul numero 18 (Febbraio 2019) di Vita pensata è stato pubblicato un mio articolo su Pavese pagano (pagine 56-57).

L’estetica pagana di Cesare Pavese è espressione del limite, del tramonto, della luce. In Pavese la Gnosi heideggeriana si coniuga con il panteismo greco, l’obbedienza alla φύσις diventa la vittoria su ogni assenza – degli altri, di Dio, del senso -, in una energia, in una pazienza, in una saggezza antiche, che tornano a vivere nell’opera conclusiva – Dialoghi con Leucò -, capace di restituire agli dèi la parola, il sorriso, la distanza, la presenza. Gli dèi «sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa».

Contro l’etica

[La riflessione che segue è frutto dello scambio con i miei studenti Selenia Anastasi, Marcosebastiano Patanè (autore della foto qui sopra, che ritrae il tempio di Segesta) e Noemi Scarantino, che hanno partecipato al Festival della Filosofia di Castellammare del Golfo. Li ringrazio per aver discusso, ampliato e arricchito una prima versione del testo]

Paura. È un sentimento e comportamento filogeneticamente prezioso perché consente alle specie viventi di evitare situazioni e rischi che risulterebbero rovinosi, mortali. Ma è anche un sentimento e comportamento che può paralizzare la vita, perdere il momento propizio, impedire la gioia.
Ho percepito questa paura in alcuni momenti della discussione che si è svolta sulle due relazioni che ho tenuto al Festival di filosofia di Castellammare del Golfo. Non parlo, naturalmente, della condivisione esplicita e a volte entusiastica delle prospettive che ho cercato di sostenere ma di un filo rosso di neutralizzazione che mi è sembrato emergere in vari interventi, anche in alcuni di aperto apprezzamento. Neutralizzazione della potenza dionisiaca dei sentimenti umani; neutralizzazione della nostra evidente, pervasiva, profonda, costitutiva animalità.
È come se la forza animale delle nostre passioni si aprisse quale baratro davanti all’andare quieto e ordinato dei giorni. È come se il Grande Altro che impone e richiede il controllo delle nostre estasi amorose fosse stato davvero e fino in fondo introiettato dai corpimente sino a farlo coincidere con la propria persona. È come se l’antica paura degli animali che siamo fosse per noi una condizione di identità tramite la separazione del nostro βίος dalla ζωή che tutti i viventi accomuna. La passione amorosa è una passione animale che si esprime nelle forme biologiche e simboliche della specie umana. Noi filiamo i nostri amori come il ragno fila la propria tela, con la stessa tenacia, intensità, teleologia. L’obiettivo è in entrambi i casi nutrire il corpomente in vista della pienezza dello stare al mondo.
Quella amorosa è dunque una passione naturale e profonda, una passione necessaria ed ermeneutica, una passione specchio, una passione squilibrata nella relazione, solitaria e universale. Una passione linguistica e temporale, una passione semantica e iconica. Una passione innocente e infinita. Una passione che trasforma il tempo profano nel tempo sacro della festa dei corpi. ὕβϱις non è necessariamente e soltanto l’estremo abbandonarsi alla passione amorosa e il ritorno all’animalità ma è anche e specialmente il voler todo modo respingere e dominare questi due aspetti fondamentali di ciò che siamo, con l’obiettivo di attenersi a valori, a etiche, a impauriti pudori che snaturano la nostra intima essenza. La ὕβϱις per eccellenza è in realtà il rifiuto della dimensione dionisiaca poiché, come mostra la tragedia greca, alla fine Dioniso vince sempre.
Di fronte alla struttura animale e sacra della passione amorosa, alcune reazioni hanno utilizzato come strumento di sterilizzazione l’armamentario dell’etica e i concetti della psicologia. L’animalità amorosa è invece al di là del bene e al di là del male, è oltre la psiche perché affonda nei ritmi ancestrali della terra dalla quale gorgogliamo.
La paura si esprime anche come diffidenza, disillusione, arrendevolezza. La passione amorosa è invece simile a una disobbedienza civile, è espressione di una ribellione al Grande Altro, ribellione che intravede una forma di esistenza e relazione oltre l’ordine imposto dalle norme religiose, dal genere sessuale, dalla condizione sociale, dall’età e dalle circostanze.
Quelli vissuti a Castellammare con gli studenti e con i miei affezionati amici -che incontro sempre con gioia e che ringrazio per ciò che ogni volta mi donano- sono stati giorni assai belli di prati, di mare e di templi. Giorni intensi di pensiero e di confronto. Giorni piacevoli di camminate e di cibo. Giorni fecondi anche perché mi hanno ulteriormente illuminato sulle paure quasi pavloviane degli umani e sul fatto che la filosofia non ha nulla a che fare con l’etica e con la psicologia ma con il mondo, con l’essere. E dunque chi cerca di praticare la filosofia e porla al centro della propria esistenza dovrebbe liberarsi dall’etica e dalla psicologia e dire -se riesce- l’ontologia, il suo flusso, il divenire e la potenza.

Dioniso in Prussia

Basilica di Santa Maria della Passione – Milano – 25 giugno 2018
Sonar in ottava

Musiche di Vivaldi, Bach, Goldberg
Milano artemusica 2018
Accademia dell’Annunciata
Mario Brunello, violoncello piccolo
Giuliano Carmignola, violino
Riccardo Doni, clavicembalo e direzione

Mario Brunello ha suonato un ‘violoncello piccolo’, strumento assai amato da Bach ma nel Settecento caduto in disuso. Il programma della serata è stato classicamente barocco. E però vorrei far ascoltare il talento poliedrico di Brunello attraverso una composizione tratta da Odusia (2008), nella quale il musicista ha assemblato suoni e colori del Mediterraneo. Peste è il secondo brano di «Spasimo», opera di Giovanni Sollima che da Palermo si allarga al mondo.
I ritmi tesi, forti, dolenti e danzanti sono eco del grande dio mediterraneo, Dioniso. La cui potenza è arrivata sino alle pianure prussiane, come dimostrano la musica di Bach e la filosofia di Nietzsche.
L’odissea di questo dio è sempre viva.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2018/07/Brunello_Sollima_Peste.mp3]
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