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Dioniso / Delphi

Per quanto secolare sia la scienza filologica, per quanto molto sappiamo dei Greci, per quanto ci sforziamo di intuire, conoscere, capire la loro esistenza, in realtà da essi ci separa un abisso. È come se ci fosse quasi precluso sentire ciò che essi sentivano, la loro forza, il loro sorriso, il loro modo di vivere e concepire la morte e il sacro. Il significato e il valore dell’itinerario di Walter Friedrich Otto (1874-1958) nel mondo greco stanno forse soprattutto nel tentativo di varcare tale distanza, di riandare alle radici di quel mondo, al suo impulso primitivo. Le origini di un fenomeno così vasto e fecondo rimangono l’essenziale, ciò che è da cogliere se vogliamo comprendere che cosa i Greci, che cosa Dioniso furono. Al di là quindi dello storicismo, della psicologia, della sociologia, per Otto il lavoro filologico è strumento di incontro con il mito.

Contro lo scetticismo aprioristico dei moderni, Otto ritiene che bisogna partire dalla teofania, dall’apparizione del divino nelle forme più diverse ma tutte reali, una realtà dimostrata dagli immensi effetti di questo incontro fra gli dèi e gli umani. La presenza del divino era sentita in modo immediato nel culto e nei miti, due elementi inseparabili che sempre si rafforzano a vicenda. Nel modo greco di intendere il cosmo, gli dèi sono veramente incarnati poiché «il dio, sebbene figuri come una personalità possente, pure in ultima analisi è tutt’uno con lo spirito e con la forma, e quindi con tutto l’essere di quel regno che governa» (W.F. Otto, Dioniso. Mito e culto [1933], trad. di A. Ferretti Calenda, Il Melangolo, Genova 2002, p. 198)
Il manifestarsi del divino ha una forza del tutto particolare quando il dio che appare è Dioniso. Presente nel mondo ellenico già dalla fine del secondo millennio, Dioniso è un dio duplice, la cui potenza consiste nel coniugare gli opposti e quindi nel rappresentare il tutto dell’essere e l’intero dell’esperienza umana. Esiodo (Theog, 941) lo chiama polughetés, il ricco di gioia che là dove arriva trionfa. E tuttavia Dioniso è anche un dio sofferente, morente, dispensatore di tormenti e tormentato egli stesso, con il quale «la vita si trasforma in ebbrezza di beatitudine ma anche […] in ubriacatura di terrore» (84) in una mistura inseparabile di «pienezza di vita e violenza di morte» (149). Dioniso appartiene ai due regni dell’umano e del divino, lui nato due volte –la prima generato da Persefone, la seconda concepito da Semele e poi cresciuto nella coscia di Zeus-; lui dallo sguardo estatico e dal sorriso che sconcerta, maschera enigmatica che «lo insedia potentemente, ineluttabilmente, nella presenza, ma al tempo stesso lo sottrae in una lontananza indicibile» (97); lui che quando appare scatena il frastuono più frenetico e poi –di colpo- il più impietrito silenzio. Coloro che gli stanno vicino –le Menadi, i fedeli, il toro, il capro, l’asino- condividono il duplice destino di euforia e di spasimo
Ma più di tutti è Arianna a farsi una sola cosa con lui, vivendo la massima felicità e i più strazianti dolori. Arianna è l’amata del dio, la più bella, ma Dioniso è sempre circondato da donne, da compagne fidate, da nutrici, da Menadi frementi, da coloro che danno la vita e la tolgono nella brama di sangue, nella potenza sconfinata dei cicli temporali. È Dioniso per primo a soffrire «gli atti spaventosi che compie» (113), a essere vittima di se stesso e a portare con sé distruzione, sin da quando Zeus incenerì Semele che lo aveva in grembo, sin da quando nella forma taurina venne sbranato dai Titani. Uno dei suoi segreti, quindi, è un duplice legame: il primo con Ade, come testimonia l’antica e decisiva parola di Eraclito. Il secondo legame è l’unione profonda, è l’identità enigmatica con il dio della misura e della luce, con Apollo, suo fratello. Nel luogo più sacro a quest’ultimo, a Delphi, c’era la tomba di Dioniso. Plutarco racconta che all’inizio dell’inverno tacevano i peana apollinei e per tre mesi erano i ditirambi dionisiaci a risuonare.
I due fratelli regnano insieme a Delphi e dominano insieme sul mondo poiché «il regno olimpico s’innalza al di sopra dell’abisso terrestre, la cui onnipotenza esso ha infranto. Ma la stirpe dei suoi dei è scaturita essa stessa da quelle profondità, e non rinnega le sue cupe origini: essa non sarebbe se non esistesse quella notte eterna davanti a cui Zeus stesso si inchina. […] Sono riuniti in Apollo tutto lo sfolgorio del mondo olimpico e i regni contrapposti dell’eterno trascorrere e dell’eterno divenire» (217).
La tragedia attica è il luogo in cui questa straordinaria intuizione vive ancora e per sempre. Nel dispiegarsi della tragedia Nietzsche comprese l’unità dei due fratelli signori del cosmo, poiché «solo dall’essenza stessa del mondo può venirci la luce» (51).

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