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Nichilismo e Differenza

Nichilismo e Differenza
in InCircolo. Rivista di filosofia e culture
Numero 11 – «Dal corpo oggetto alla mente incarnata»
Giugno 2021
Pagine 459-466

La sezione «Controversie» della rivista InCircolo ospita una discussione a più voci su Emanuele Severino, a partire da un saggio di Dario Sacchi dal titolo Emanuele Severino: il cerchio dell’apparire, un vero e proprio corpo a corpo con i fondamenti logici e le articolazioni fenomenologiche del pensiero di Severino, condotto con maestria da Sacchi.
Nel mio contributo ho cercato di concentrarmi su quanto Sacchi definisce oggettivazione dell’io, che per l’autore costituisce un elemento negativo in quanto ridurrebbe l’umano a un elemento del «destino della necessità» ma che a me pare proprio per questo fecondo. Tale “oggettivazione” infatti inserisce l’ente umano nell’inevitabile andare degli enti, degli eventi e dei processi. Termini ed espressioni, queste, che Severino non avrebbe naturalmente accolto e che tuttavia possono aprire un dialogo non soltanto critico con il suo pensare.
Severino infatti tenta un’operazione diversa ma anche vicina a quella compiuta da Giovanni Gentile (pensatore che nel cammino di Severino ha contato molto) nei confronti della metafisica greca. Se per Gentile il limite originario di tale metafisica è il realismo ontologico, per Severino è il realismo temporale. Per Severino il tempo è un errore e un’illusione, è un deserto nel quale cresce il nulla dell’alienazione che è ogni divenire e ogni credenza in esso. In realtà a me sembra nichilistico il negare la molteplice potenza della Differenza a favore di una sempre uguale Identità.
L’esito nichilistico del pensare severiniano avrebbe potuto essere diverso se il filosofo fosse rimasto più fedele ai notevoli risultati teoretici ed ermeneutici ai quali era pervenuto sin dalla tesi di laurea dedicata a Heidegger e la metafisica (1950). Dall’ontologia fenomenologica di Heidegger Severino fa in questo testo correttamente derivare sia il radicarsi di Heidegger nel terreno del sacro sia il rifiuto heideggeriano dell’etica. La ricchezza dell’ontologia è una delle ragioni dell’insufficienza di ogni sguardo morale sul mondo. È infatti non a causa del suo agire ma per il suo essere una parte dell’intero che il Dasein è intessuto di nulla, poiché in quanto ente non è l’essere. Anche senza esplicitamente tematizzarla, Severino riconosce la natura gnostica del pensare heideggeriano, a partire dall’«esser fondamento di una nullità: Grundsein einer Nichtigkeit».

[Nello stesso numero della rivista si può leggere un denso saggio di Elvira Gravina, mia allieva alcuni anni fa nel corso di filosofia della triennale a Unict, dal titolo Il Sé temporale]

 

Enrico Moncado, un itinerario

Enrico M. Moncado ha compiuto un itinerario dentro il mio tentativo di pensiero, attraversando in particolare la tetralogia che ho dedicato al tempo ma anche andando al di là. Il saggio è stato pubblicato su una delle più significative riviste fenomenologiche europee, Segni e comprensione. Un testo ampio, labirintico e insieme illuminante, che mostra una comprensione radicale della mia opera. Nel senso che va alle sue radici e ne esplicita le intenzioni di oltrepassamento di quadri epistemologici e teoretici tradizionali. Sono veramente grato all’autore per il modo rigoroso, empatico e insieme critico con il quale ha attraversato testi e pensieri.

Link al testo
Versione in pdf

Trascrivo qui l’abstract del testo e poche sue righe, in particolare quelle che fanno riferimento alla struttura ultima del mondo, che è insieme materica e teologica. Invito, naturalmente, a leggere l’intero saggio, che è articolato  nei tre concetti che gli danno il titolo: Temporalità, Tempo, Metafisica.

«Within the ontological and metaphysical contemporary debate on the status of time is inserted the work of Alberto Giovanni Biuso, who proposes a radical thought against any form of physicalism and reductionism, a thought founded on a philosophical re-emergence of time at the center of a materialistic metaphysics. Thereby, metaphysics and materialism are not opposite philosophical devices, but are two ways in which being and time are ontologically disclosed as identity and difference. This theoretical paradigm, therefore, qualifies most definitions of time as partial and invalidating. Partial because they do not include the simultaneous totality which being and time are; invalidating due to the absence of a phenomenological facticity in which every scientific theory should be rooted. In this way, categorical dualisms such as time-temporality and mind-body are philosophically obsolete. Biuso instead melts the fundamental concepts of philosophy in a relationship of deep identity that always happens as difference».

«Questa affermazione fa trasparire la dimensione prima e ultima della […] struttura di pensiero di Biuso. Dimensione prima perché l’a priori logico, ontologico ed epistemologico di tutta la tetralogia è la metafisica intesa – anche sulla base della sua origine linguistica e semantica – come paradigma di oltrepassamento (μετά) della parzialità teoretica di ogni tesi sul tempo; ultima, perché la metafisica è l’ultimo modo di pensare oramai rimasto per comprendere la cangiante temporalità del reale che i diversi saperi hanno contribuito a “granularizzare” e a rendere sempre più complessa» (p. 195)

«Una teologia del tempo, quarto capitolo – ma primo per forma e contenuto – di Tempo e materia è il dispositivo di un’economia teoretica che attraversa in modo radicale tutta la tetralogia. […] Teologia dunque è per essenza πρώτη φιλοσοφία, è il sapere che pensa la luce, la trasparenza, l’attrito dell’essere entro la consapevolezza della finitudine, del limite che è l’ente rispetto all’essere stesso. È altresì il sapere per il quale l’esserci abita già da sempre nell’accadere della differenza, è lo sguardo gnostico in tale differenza per pervenire a un’identità redentrice, a un’identità che sia casa, dimora e ricetto nella differenza che è il tempo» (pp. 200-201)

Guerre etniche

Sons of Denmark
(Danmarks sønner)
di Ulaa Salim
Con: Zaki Youssef (Ali), Mohammed Ismail Mohammed (Zakaria), Rasmus Bjerg (Martin Nordahl), Imad Abul-Foul (Hassan)
Danimarca, 2019
Trailer del film

A Copenhagen un attentato di matrice islamica miete decine di vittime. La piccola nazione danese si radicalizza nella violenza delle organizzazioni islamiste da una parte e dei movimenti ultraxenofobi dall’altra. Martin Nordahl guida un partito che ha come programma l’espulsione di tutti coloro che non sono cittadini danesi o che hanno ottenuto la cittadinanza come rifugiati. Diventa quindi l’obiettivo primario di una cellula islamista. Soltanto la presenza di un infiltrato (arabo) all’interno del gruppo islamista fa fallire l’attentato alla sua vita. Le organizzazioni xenofobe diventano sempre più violente e si riconoscono apertamente nel programma di Nordahl, il cui partito vince le elezioni a larga maggioranza. Qualcuno dovrà fermarlo.
La vicenda è ambientata da qui a qualche anno, nel 2025, e descrive il futuro prossimo e probabile dell’Europa: una condizione di endemica guerra civile tra etnie. È da irresponsabili (oltre che da ignoranti) pensare e agire come se gli esseri umani fossero soltanto individui irrelati tra loro, senza radici, senza legami, senza costumi, lingue e tradizioni condivise, senza identità. E invece Homo sapiens si è sempre organizzato, e sempre lo farà in quanto specie biologicamente sociale, in gruppi caratterizzati da differenze più o meno marcate, che nessun irenismo volontaristico può cancellare.
Non tener conto di questa struttura antropologica sta comportando lo sviluppo di sentimenti e idee di esclusione e rifiuto, come contrappeso a politiche di accoglienza universale. Gli elementi ospitati si sentono esclusi e non intendono, giustamente, rinunciare alle loro tradizioni, costumi, valori, in ogni campo della vita collettiva –familiare, alimentare, religioso, linguistico, sessuale. Gli elementi autoctoni si sentono esclusi dai propri spazi, minacciati nel reddito, nella sicurezza, nell’identità. L’insieme di queste tensioni fa sì che le società multirazziali diventino delle società multirazziste, come l’evidente fallimento del melting pot statunitense e il fallimento in atto di quello francese vanno ampiamente dimostrando.
Sons of Denmark racconta analoghe dinamiche che toccano la ormai non più tranquilla società danese e in generale scandinava. A Stoccolma, ad esempio, un intero quartiere, Rinkeby, è precluso agli svedesi di etnia bianca e anche questo ha indotto il più che accogliente parlamento di quella nazione a rivedere le proprie politiche sui migranti.
Grave e significativo è che le cause fondamentali dei flussi migratori –l’imperialismo statunitense che scatena guerre nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, destabilizzando senza posa quei territori; le guerre israeliane contro gli arabi– producano conseguenze che non toccano né gli USA né Israele ma l’Europa, l’anello debole del colonialismo occidentale.
Nonostante tutto questo, l’intellighenzia e i decisori politici del nostro continente non sembrano rendersi conto di che cosa va preparandosi e continuano a difendere e a imporre pratiche di accoglienza universale. Le quali condurranno a un conflitto interetnico le cui conseguenze sono abbastanza facilmente prevedibili. Una comunità (e l’Europa, per quanto plurale sia al proprio interno, è una comunità rispetto a culture diverse dalla sua) la quale non si accorge per tempo dei pericoli di dissoluzione che la sovrastano è infatti destinata a spegnersi ed è giusto che si spenga. Anche per questo sono contento di non avere dei figli.
La fabula di questo film è dunque una lezione di sociologia dei fenomeni di conflitto e di assimilazione, che Ulaa Salim –regista di origini irachene nato in Danimarca– ben conosce.

Per la metafisica

Martin Heidegger
Segnavia
(Wegmarken, 1967)
Edizione tedesca a cura di F.W. von Hermann, Klostermann 1976
Edizione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi 1987
Pagine XIV-522

 

«Leonardo da Vinci scrive: ‘Il nulla non à mezzo e li sua termini è il nulla’ – Infralle cose grandi che intra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima’ [Codice Atlantico, folio 289 verso b e folio 389 verso d]. La parola di questo grande non può e non deve dimostrare nulla; essa rimanda alle questioni: in che modo si dà l’essere, in che modo si dà il niente? Da dove ci viene un simile darsi? In che misura siamo ad esso già assegnati in quanto esseri umani?»
(Heidegger, La questione dell’essere, p. 367)

«Il niente, è questo l’unico tema pensato dalla Prolusione» (p. 333) svolta da Martin Heidegger a Friburgo il 29 luglio 1929. Il coraggio di pensare il niente è la metafisica. Il niente che sta a fondamento dell’intero, il niente che è l’originario, il niente che per lo più non percepiamo e che tuttavia sentiamo profondamente intramato nelle nostre viscere, negli istanti, nel destino che conosciamo e che tutti ci accomuna, che tutto accomuna.
La filosofia nasce dalla meraviglia, certo, nasce dalla meraviglia che qualcosa ci sia, invece che il nulla. La domanda di Leibniz sul perché c’è l’ente invece del niente ha dietro di sé lo stupore aristotelico. Ed è anche per questo che Heidegger sottolinea, alla lettera, che «la Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientemente a fondo» (196). Aristotele pensa infatti prima e al di là di qualunque distinzione tra natura e cultura, tra spirito e materia.
Φύσις non è ‘natura’, φύσις è ἀρχή κινήσεως, è principio, origine e sostanza del mutamento, è costante divenire dell’ente che non sta fermo mai, la cui unica costante è μεταβολή, è la trasformazione, è quindi il divenire, è il tempo.

Il profondo aristotelismo di Heidegger lo induce a sostenere -a ragione- che «in Essere e tempo, ‘essere’ non è qualcos’altro rispetto a ‘tempo’, perché il ‘tempo’ viene indicato come il nome della verità dell’essere, quella verità che è ciò che dispiega l’essenza dell’essere ed è perciò l’essere stesso» (327). Nell’adesso in cui tutto si raggruma sono anche l’essere stato e il sarà, perché l’adesso non è un istante che sparisce non appena lo si pensi ma è il durare di ciò che essendo stato continua a essere, è la potenza capace di trasformarsi da ciò che adesso è in qualcosa che ancora non si dà, è l’apparire ora e qui dell’essere che nel celare la sua essenza immutabile disvela tuttavia istante per istante la pienezza della materia nello spaziotempo, nell’incessante mutare degli atomi, delle molecole, degli aggregati, dei corpi, degli organismi, dei pensieri, delle parole. Anche per questo la verità non è una funzione del linguaggio, un carattere della parola, una dimensione dei pensieri ma consiste nella modalità sempre uguale e sempre diversa in cui gli enti e il loro intero esistono.

La metafisica rivela il suo limite quando, invece di cogliere la dinamica di svelamento che sta nelle cose stesse, confonde il mondo con la rappresentazione più o meno corretta che delle menti si fanno del mondo. E tuttavia la metafisica mostra la propria perennità, la propria -se si preferisce- inoltrepassabilità quando pur incentrandosi soltanto sull’ente in quanto ente fa emergere in esso e da esso la luce dell’essere. Perché rispetto a ogni altro sapere, rispetto a tutte le scienze, è esattamente questa la capacità, è questo il proprio della filosofia, è il fatto che «ovunque la metafisica rappresenta l’ente, già traluce l’essere. L’essere ha il suo avvento in una svelatezza (Aλήϑεια). […] Pertanto si può dire che la verità dell’essere sia il fondamento in cui la metafisica, come radice dell’albero della filosofia, si sostiene e si nutre» (318).
Il legame tra il niente, l’essere e la metafisica è quindi radicale, profondo. Uno dei grandi elementi e meriti della filosofia di Heidegger è averlo colto. Il niente rimane infatti sempre, nella sua differenza dall’ente, «il velo dell’essere» (266) ma è proprio per questo velo che le cose sono, che il mondo esiste, che l’intero si dà. Senza questo niente gli enti non potrebbero essere perché sarebbero l’essere. Il niente è quindi tale differenza tra gli enti e l’essere. Per questo il niente è originario. Una differenza che si dispiega come μεταβολή, divenire e trasformazione, e quindi come tempo. Il tempo è il niente, certo. Il tempo è il niente che nella sua differenza rende possibile l’emergere della molteplicità dall’indistinto della materia, dall’Uno parmenideo, dalla potenza inquieta e insieme stabile dell’essere. Gli enti possono essere soltanto differenza, possono essere soltanto tempo. «Appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere» (260).

La domanda metafisica parte dunque dal nulla che non è se non come differenza, si sofferma sull’ente che è in quanto differenza, perviene all’essere come radice della differenza da sé e quindi come dispiegamento della molteplicità. Se l’umano è l’ente che interroga, la metafisica rimane e rimarrà sempre parte costitutiva del suo stare al mondo. «L’andare oltre l’ente accade», infatti, «nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che la metafisica faccia parte della ‘natura dell’uomo’. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. […] Se la domanda del niente da noi sviluppata ci ha realmente coinvolti, allora non ci siamo presentati la metafisica dall’esterno, e neppure ci siamo ‘trasferiti’ in essa. Noi non possiamo in alcun modo trasferirci nella metafisica, perché, in quanto esistiamo, siamo già da sempre in essa. φύσει γάρ, ὦ φίλε, ἔνεστί τις φιλοσοφία (Platone, Fedro, 279 a). In quanto esiste l’uomo, accade il filosofare. Ciò che noi chiamiamo filosofia non è che il mettere in moto la metafisica, attraverso la quale la filosofia giunge a se stessa e ai suoi compiti espliciti»  (77).

Questo è la metafisica, un punto di osservazione sul mondo che cerca di andare -pur nei limiti di tutti gli attingimenti umani- al di là di ogni etica, oltre ogni posizione antropocentrata, per comprendere, accogliere e rispettare l’autonomia dell’intero dalla sua parte umana, una parte tra le altre, una forma in mezzo al tutto.
La metafisica è perenne sì, perché non dipende dall’umano, dal divino, dalla storia, dalle scienze ma costituisce il sapere dell’essere, nel duplice senso del genitivo: il sapere che l’umano conserva delle cose e il sapere nel quale l’essere dispiega per intero, pur nei limiti della comprensione umana, se stesso.
«Un pensiero che pensa alla verità dell’essere certo non si accontenta più della metafisica; ma esso non pensa nemmeno contro la metafisica. Per restare nell’immagine, esso non strappa la radice della filosofia, ma ne scava il fondo e ne ara il terreno. La metafisica rimane la prima cosa della filosofia, anche se non raggiunge mai la prima cosa del pensiero. Nel pensiero che pensa alla verità dell’essere, la metafisica è oltrepassata e cade la sua pretesa di amministrare il riferimento portante all’ ‘essere’ e di determinare in maniera decisiva ogni rapporto con l’ente in quanto tale. Ma questo ‘oltrepassamento (Überwindung) della metafisica’ non mette da parte la metafisica. Finché rimane animal rationale, l’uomo è animal metaphysicum. Finché l’uomo si considera un essere vivente dotato di ragione, la metafisica, come dice Kant, appartiene alla natura dell’uomo. È invece possibile che il pensiero, qualora riesca a ritornare al fondamento della metafisica, possa contribuire a occasionare un mutamento dell’essenza dell’uomo, con cui andrebbe di pari passo una trasformazione della metafisica» (319-320).
A quel punto la metafisica diventerebbe, probabilmente, la scienza suprema del niente e del suo stupore. In questa apologia attuale e potenziale del vuoto e del nulla sta forse il primo e ultimo segreto gnostico di Heidegger.

Etnie

Sul numero 19 (luglio 2019) di Vita pensata ho parlato di un film che ho visto durante una rassegna milanese dedicata al Festival di Cannes 2019. Si intitola Les Misérables, il regista è Ladj Ly.
Nato da genitori del Mali, Ladj Ly ha girato vari documentari su Montfermeil, la banlieue dove è cresciuto e dove Victor Hugo compose Les Misérables. Questo regista sa dunque di che cosa parla, sa quali sono i sentimenti e i pensieri dei francesi di origine africana, sa in quale degrado essi vivano e soprattutto sa che tra la Francia -la sua storia, la sua cultura, i suoi modi di vivere- e questi cittadini ci sono differenze che diventano abissi.
Il film descrive tale differenza in un modo che è insieme sociologico e narrativo. Letto alla luce di uno dei libri più rigorosi e informati sulla questione dei migranti dall’Africa all’Europa (è quello che in questo articolo ho cercato di fare), Les Misérables offre una prospettiva inquietante e realistica sul conflitto sociale ed etnico che attraversa sempre più le società europee.
Il trailer dà un’idea, per quanto parziale, di ciò che il 
film esprime e di come lo racconta.

Programmi 2019-2020

Nell’anno accademico 2019-2020 insegnerò Filosofia teoretica, Filosofia della mente e Sociologia della cultura. Pubblico i programmi che svolgerò, inserendo i link al sito del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania per tutte le altre (importanti) informazioni relative ai miei corsi.
I link che compaiono nei titoli dei libri in programma portano a presentazioni e recensioni dei testi o, nel caso dei saggi in rivista, ai pdf dei testi stessi.

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Filosofia teoretica
ERACLITO

Aa. Vv., Eraclito: La luce dell’oscuro, a cura di Giuseppe Fornari, Olschki 2017

-Martin Heidegger, Eraclito, Mursia 2017 (Corso del semestre estivo 1943, pp. 5-119, e Corso del semestre estivo 1944, § 6a, pp. 194-201)

-Alberto Giovanni Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori Edizioni 2016

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Filosofia della mente
MENTI ANIMALI

-Alberto Giovanni Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci, 2009 (capp. 1 e 2: Una storia della mente – Il corpo dentro il mondo; pp. 17-137)

-Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book 2018 (pp. 62-68; 103-114; 149-166; 199-222)

-Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda 2014

-Gianfranco Mormino, Raffaella Colombo, Benedetta Piazzesi, Dalla predazione al dominio. La guerra contro gli animali, Libreria Cortina 2017

-Alberto Giovanni Biuso, 1) Dialettica dell’umanesimo, in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, Anno IX / n. 34 / Autunno 2018, pp. 26-37 – 2) Siamo già sempre una differenza animale. Derrida e Heidegger, in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, Anno IX / n. 36 / Primavera 2019, pp. 90-94

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Sociologia della cultura
PAGANESIMI E DIFFERENZA

-Rocco De Biasi, Che cos’è la Sociologia della cultura, Carocci 2008

-Maurizio Bettini, Elogio del politeismo, il Mulino 2014

-Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

-Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi 2015

-Alberto Giovanni Biuso, 1) Anarchismo e paganesimo, in «Nel nome di nessun dio – Libertaria 2016», pp. 132-151; 2) Le persecuzioni contro i pagani, in «Vita pensata», n. 18, febbraio 2019, pp. 5–12

Populismi e differenza (sulla devastazione)

L’omologazione, il conformismo, il pensare ciò che tutti pensano, sono strutture e modalità a volte necessarie per mantenere la coesione dei gruppi e delle comunità sociali. Purché non assumano una valenza etica e soteriologica, purché non si presentino quindi come il bene e come salvezza. È invece quello che sta accadendo con il liberalismo e il capitalismo trionfanti che, come tutte le strutture ideologiche, hanno sempre bisogno di un nemico da additare, combattere, distruggere. Sconfitto il comunismo, si è inventato il «terrorismo» come parola grimaldello contro qualunque agire che metta in discussione l’impero statunitense. In Europa, invece, il nemico che il liberalismo addita si chiama populismo.
«Osteggiata dalla quasi totalità dei mezzi d’informazione ‘che contano’, demonizzata da un’identica percentuale delle classi politiche di governo e di opposizione, invisa fin oltre i limiti dell’astio dal ceto intellettuale, sgradita alle alte gerarchie ecclesiastiche, paventata come una minaccia dagli attori di primo piano della scena economica sia padronale che sindacale, combattuta con ogni mezzo a disposizione dai principali players dei mercati finanziari, l’ascesa dei movimenti e partiti populisti» sembra il nuovo spettro che si aggira per l’Europa (M. Tarchi, Diorama letterario, n. 346, p. 1).
Certo, i limiti del populismo sono grandi e riguardano specialmente la dimensione metapolitica, il piano culturale, ma rispetto al deserto sociale e simbolico prodotto dal suo vero avversario, la tecnocrazia finanziaria, il populismo è denso di spiriti vitali perché affonda il suo successo su delle costanti antropologiche che possono essere negate dalla dottrina ma continuano a esistere nelle strutture e negli eventi umani.
«Populismo allo stato puro» sono ad esempio i Gilets jaunes, nei confronti dei quali si esercita un vero e proprio «disprezzo classista, ma anche il terrore panico di vedersi presto destituiti dagli straccioni» (A. De Benoist, 3). Disprezzo che verso il populismo nutrono non soltanto lo snobismo ‘di sinistra’ -espressione che una volta sarebbe apparsa ossimorica- ma anche la destra liberista poiché «è vero che non è da ieri che la destra borghese preferisce l’ingiustizia al disordine» (Id., 4) così come preferisce il caos dei mercati alla regolamentazione della ricchezza.

La storia in ogni caso non è ‘finita’ con la vittoria dell’unilateralismo occidentalista. La Russia continua a mostrarsi irriducibile al controllo statunitense. E questo nonostante la propaganda e la disinformazione che diffondono menzogne su menzogne a proposito dell’inesistente pericolo slavo mentre il vero rischio è la smisurata crescita del controllo che gli USA esercitano sull’intero pianeta, senza distinzione tra amici e nemici. A mostrarlo non è soltanto il pervasivo spionaggio che gli Stati Uniti d’America attuano verso gli esponenti dei governi europei tramite la rete Echelon, ma anche e specialmente il fatto che «nel 2013 gli statunitensi hanno speso 53 miliardi per le loro 17 agenzie di servizi segreti, più di quanto Mosca stanzia per tutto il settore della Difesa, armi atomiche incluse! Secondo le stime del 2016, gli USA hanno investito nell’apparato bellico oltre 1.000 miliardi di dollari, il 40% della spesa mondiale, mentre l’ ‘espansionista’ Russia si è fermata ad una cinquantina di miliardi, circa [soltanto] il doppio di quanto spende l’Italia» (R. Zavaglia, 11), che certo potenza mondiale non è.

Russia e Cina sono il vero obiettivo della guerra che gli USA vanno preparando -i conflitti nel Vicino Oriente e le costanti provocazioni in Ucraina costituiscono tappe di avvicinamento a questo scopo- poiché si tratta non soltanto di concorrenti economici ma soprattutto di civiltà irriducibili al «potere oligarchico tecnomorfo etnocentrico, il quale ha imposto il ‘flusso’ globale mercantile di materiali ed esseri umani, distruggendo le società tradizionali e le culture che per millenni hanno caratterizzato le civiltà come delicato equilibrio tra cultura e natura, nel rispetto del limite e della sostenibilità ecologica» (E. Zarelli, p. 19). Anche la Russia e la Cina sono naturalmente potenze inquinanti e distruttive dell’ambiente ma la crescita economica è per esse un mezzo e non il fine stesso delle esistenze individuali e collettive.
La cultura europea è irriducibile al modello di vita americano, alla sua «metafisica dello sradicamento» (Ibidem). L’Europa affonda in modelli universali tra loro diversi ma incomparabilmente raffinati rispetto al semplicismo del dollaro e del suo culto. Il politeismo mediterraneo, la cattolicità romana, la metafisica platonica, la demistificazione nietzscheana, la libertà heideggeriana dall’universo del valore e della morale per radicarsi invece nella sfera ontologica, sono forme ed espressioni del nostro scaturire  dai Greci, i quali «sono quelli che hanno più amato la vita; l’hanno amata a tal punto da non aver più avuto bisogno che essa avesse un senso» (A. De Benoist, 6).
I popoli sono tra loro diversi e mai saranno né dovranno diventare una identità unica, monocorde e totalistica. Il prospettivismo, la differenza, la molteplicità costituiscono la più profonda garanzia di ogni libertà.
Con molta chiarezza Heidegger critica in alcune opere e corsi ciò che oggi si chiama ‘globalizzazione’, da lui designata con il termine Planetarismus: «Humanismus oder Anthropologismus sind menschentümlich letzte Erscheinungsformen des Planetarismus; in ihnen kommt die lang versteckte Wesensselbigkeit von »Historie« und »Technik« zum Austrag in der Form der Verwüstung des Erdballs», ‘Umanesimo o Antropologismo sono per l’umanità le ultime manifestazioni del Planetarismo; giunge in essi alla luce la lungamente nascosta e convergente essenza di ‘storia’ e ‘tecnica’ nella forma della devastazione del globo terrestre’, il cui braccio operativo è l’americanismo in quanto  «historischer Art für die Verwüstung», ‘modalità storica per la devastazione’ (Über den Anfang [Sul principio, 1941], «Gesamtasugabe», Vittorio Klostermann 2005; Band 70, § 13, p. 31 e § 77, p. 97).

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