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Proclo

Proclo
in Vita pensata
n. 31, ottobre 2024
pagine 176-182

Indice
-Unità e molteplicità
-Al di là di Platone
-Un’ontologia della Differenza
-La Necessità

Abstract
Il testo presenta la Teologia platonica di Proclo quale esempio massimo di metafisica neoplatonica, nella quale le strutture ontologiche dell’unità, della differenza e della necessità aprono alla intuizione del divino e del nulla.
The paper presents Proclus’ Platonic Theology as the greatest example of Neoplatonic metaphysics, in which the ontological structures of unity, difference and necessity open to the intuition of the divine and of nothingness.

Una libertà politicamente scorretta

Sabato primo giugno 2024 alle 18,00 a Viagrande (CT) parleremo del Politicamente corretto insieme a Davide Miccione e ad altri studiosi. Discuteremo in particolare di Ždanov. Sul politicamente corretto, del quale riporto qui alcune affermazioni.

In L’essence du politique, un libro del 1965, Julien Freund mette in guardia dal fatto che una società la quale «volesse far regnare la pace mediante la giustizia, cioè facendo ricorso al diritto e alla morale, si trasformerebbe in un regno di giudici e di colpevoli. Invece di sostituire la giustizia alla politica, si assisterebbe a una parodia della giustizia e della politica». Il politicamente corretto è anche tale parodia (p. 11).
«Beim Himmel! der weiss nicht, was er sündigt, der den Staat zur Sittenschule machen will; Per il cielo! non sa quale peccato compie chi vuol fare dello stato una scuola di costumi» (Hölderlin, Iperione). Il politicamente corretto è questo peccato, è questa tentazione, sempre ricorrente nell’incertezza che il flusso degli eventi, dei paradigmi, dei valori produce. Il politicamente corretto è il tentativo autoritario di fermare tale flusso nella stasi del bene, di ciò che le autorità politiche e culturali, o anche un’intera società ammansita, credono sia il Bene (p. 12).
Il politicamente corretto è un’ortodossia del pensiero che Orwell ha individuato per tempo e con lucidità. Lo scopo della neolingua politicamente corretta non è difendere i diritti delle persone ma imporre una omologazione che sgorghi dall’interiorità stessa dei soggetti, diventando autocensura (p. 24).
Il politicamente corretto è soprattutto tra le meno percepite ma tra le più profonde forme di colonizzazione dell’immaginario collettivo provenienti dagli Stati Uniti d’America, nazione nella quale la violenza fisica dilaga ma in cui non vengono tollerate parole che siano di disturbo a un rispetto ipocrita e formale (pp. 30-31).
L’ampia palude del politicamente corretto e della cancel culture, la cui radice è l’odio per le differenze, il bisogno di una ortodossia morale ed esistenziale di fronte alla quale la stratificazione della storia, la pluralità dei linguaggi, la bellezza dell’arte e del pensiero devono essere annichilite in nome del Bene supremo dell’uniformità (pp. 55-56).

Alterità e Bellezza

Martedì 21 maggio 2024 alle 16.00 nella Sala Rotonda del Coro di Notte del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania si svolgerà il terzo incontro del ciclo che quest’anno l’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) dedica al tema dell’Alterità.
Giuseppe Frazzetto (saggista e critico d’arte, già Professore di Storia dell’Arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Catania) e io dialogheremo a proposito di Alterità e Bellezza.
Un effetto ben noto della modernità è lo straordinario aumento della disponibilità di immagini. Ma nella cultura diffusa non è presente la consapevolezza di una condizione effettivamente nuova: le immagini il più delle volte propongono una estraneità. Derivano da altre culture, o da elaborazioni teoriche di cui sappiamo ben poco, da intenzioni di cui nemmeno sospettiamo l’esistenza (o da un software). Nell’incontro si proporranno alcune riflessioni sull’estraneità (e sull’incomune), a partire da testi classici di autori che ne hanno tematizzato aspetti significativi (Nietzsche, Warburg, Benjamin, Heidegger, Baudrillard, Flusser).

Un’ermeneutica della finitudine

Stefano Piazzese
Ermeneutica della finitudine
La filosofia di Alberto Giovanni Biuso
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 583-590

Indice
-Ermeneutica filosofica
-Essere è tempo
-La verità
-La differenza
-Corpo e storia
-Finitudine
-Teologia e semantica

«In Biuso l’ermeneutica è un tentativo umano di comprendere il mondo e la vita a partire dalla dimensione temporale, al di fuori della quale nessun ente può apparire – ad parere, esser manifesto, ergersi allo sguardo altrui, presentificarsi, farsi vedere –, e dove Gegenstand e Bedeutung, dato e significato, diventano i costrutti fenomenologici e teoretici che hanno luogo nella condizione trascendentale di tutto ciò che appare, ovvero il tempo».
Ringrazio Stefano Piazzese per questo percorso dentro i miei libri a partire dal dispositivo ermeneutico. I titoli con i quali l’autore ha scandito il testo credo che descrivano con efficacia alcuni degli elementi più costanti del mio tentativo di pensiero.

Vandali

Una guerra politicamente corretta
Aldous, 26 ottobre 2022

Le post-verità (o più semplicemente le bugie) del potere politico e mediatico contemporaneo si inscrivono dentro l’ampia palude del politicamente corretto, della cancel culture, della cosiddetta ideologia woke, la cui radice è l’odio per le differenze, il bisogno di una ortodossia morale ed esistenziale di fronte alla quale la stratificazione della storia, la pluralità dei linguaggi, la bellezza dell’arte e la forza del pensiero devono essere annichilite in nome del Bene supremo dell’uniformità.

Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

Decadenze

La nostra è una civiltà che dall’evo moderno, in particolare dall’affermazione dell’etica calvinista, ha sacralizzato il lavoro, che invece è una esigenza data dai limiti del vivente.

Alla vista del lavoro -e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera- si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. […] Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggior sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma.

(Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi 1964, § 173, pp. 126-127).
Un’etica del successo/guadagno che si sta capovolgendo nella privazione del lavoro – e quindi dei mezzi necessari alla sopravvivenza – per gli umani, sostituiti sempre più da macchine, robot, algoritmi.
Una civiltà che ha dimenticato, e direi proprio smarrito, le differenze nella melassa della globalizzazione che tende a cancellare «l’aspirazione e la decisa volontà dei popoli di affermare e conservare la loro principale ricchezza, incarnata nella rispettiva specificità» (M. Tarchi, Diorama Letterario 363, settembre/ottobre 2021, p. 2).
Una civiltà, intrisa appunto di «un calvinismo puritano ossessionato dalla purezza morale e dall’espiazione illimitata» (A. de Benoist, ivi, p. 10), dove la colpa va diventando l’essere bianchi e quindi per definizione sterminatori, l’essere maschi e quindi per definizione stupratori. In realtà è l’universalismo  negatore delle differenze a favorire l’imperialismo sterminatore degli umani e delle loro varietà. Non è un caso che l’Inghilterra, da dove iniziò il dominio storico del calvinismo anglosassone, abbia nel corso dei secoli «aggredito, invaso, occupato 173 dei 193 attuali Stati membri delle Nazioni Unite» (E. Zarelli, ivi, p. 24). L’universalismo/globalismo tende a cancellare le identità, le differenze, le culture, i costumi e i riti che «trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo curano» (Zarelli, p. 38).
Prendersi cura del tempo che si è significa riconoscerne ogni giorno e sempre la potenza e quindi avere qualche strumento in più per comprendere e accogliere la finitudine che siamo senza cadere in un fanatismo securitario che è destinato al fallimento poiché, semplicemente, tutto ciò che è nato è destinato a perire. Discutendo del volume di Simone Regazzoni La palestra di Platone (Ponte alle Grazie, 2020), Davide D’Intino ricorda quanto distante sia la civiltà greca -e in generale antica- dal timore e tremore contemporaneo, dalla

indecorosa risposta offerta sul piano antropologico alla vicenda epidemica da una società ormai incapace di rapportarsi alle idee stesse del dolore e della morte, disallenata a combattere e quindi a reagire senza farsi fagocitare dal panico, misurandosi con uno dei suoi naturali attributi: la componente rischio. Secoli di mortificazione della corporeità, derubricata irresponsabilmente al rango di peccaminosità, non potevano che dar corpo, nel perfetto compiersi di una eterogenesi dei fini, ad un individuo  introflesso nel solipsismo più deteriore, così inerte da accettare senza neppure un sussulto di ribellione la caduta della sua esistenza dalla condizione del vivere a quella del vegetare, talmente ossessionato dalla propria salute da rinchiudersi in casa sprofondando nella sedentarietà, aduso alle salubri prelibatezze dell’industria alimentare e pago di farne incetta trascorrendo le proprie giornate alienandosi davanti ad uno schermo (ivi, p. 36).

Una civiltà stanca, in fondo, della vita. Lo si sta vedendo ogni giorno, tutti i giorni.

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