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Eu

Premonitions
(Solace)
di Afonso Poyart
USA, 2015
Con: Anthony Hopkins (John Clancy), Jeffrey Dean Morgan (Joe Merriwether), Abbie Cornish (Katherine Cowless), Colin Farrell (Charles Ambrose)
Trailer del film

Premonitions è un film modesto ma parla di un tema essenziale e su tale tema bisogna concentrarsi, non sullo spettacolo un poco ripetitivo e scontato. Ne parla sotto l’apparenza di un thriller con al centro un serial killer che uccide senza infliggere alcuna sofferenza e senza lasciare nessuna traccia. Scoraggiati e depressi, i poliziotti si rivolgono a un medico che dal contatto con le vittime o con degli oggetti a loro appartenuti ‘vede’ la scena del delitto. Il dottor Clancy si rende ben presto conto che la persona che stanno cercando possiede la stessa sua capacità di vedere nel passato e nel futuro ma in misura molto più profonda e ricca. Trovarlo non sarà facile, anzi è impossibile. Se accade è perché Charles Ambrose (questo il suo nome) accetta di svelarsi. Altro non si può dire sulla trama se non che i due – Clancy e Ambrose – condividono anche un altro elemento, che è la pietà verso chi, malato inguaribile o terminale, è o sarà sottoposto a sofferenze indicibili. Entrambi sembrano insomma portatori di εὐθανασία, di una morte serena.
Εὐ è un prefisso che nella lingua greca indica qualcosa di positivo, di bello, di buono. Applicato al termine θάνατος esprime l’augurio che i mortali da sempre rivolgono a se stessi di una «buona morte», del fatto che l’inevitabile non venga preceduto da sofferenze lunghe e più o meno insostenibili ma si verifichi nel modo più sereno possibile. In questo senso è assai più corretto (more solito) il titolo originale del film: Solace, conforto, consolazione, sollievo.
Il morire è un tema centrale della filosofia e della vita. A esso il film ne affianca un secondo altrettanto denso e fondamentale: il determinismo, il libero arbitrio. Se esistono delle persone capaci non soltanto di ‘vedere’ ciò che è accaduto senza che loro fossero presenti ma soprattutto di ‘vedere’ qualcosa che ancora non si è verificato ma che si verificherà; se la capacità di pre-vedere si esplica verso l’oggettività di ciò che accadrà, qual è la natura delle decisioni che i soggetti coinvolti ritengono di liberamente compiere? Qual è lo spazio della loro libertà e autodeterminazione? Nessuno, evidentemente. Infatti, «ὃ χρὴ γὰρ οὐδεὶς μὴ χρεὼν θήσει ποτέ; nessun uomo potrà mai fare in modo che ciò che deve non debba accadere» (Euripide, Eracle, v. 311, trad. di Filippo Maria Pontani).
Gli eventi accadono con la stessa necessità che spinge un sasso lanciato da qualcuno a rallentare la propria corsa e poi cadere. Se quel sasso avesse la capacità di pensare, riterrebbe di essersi mosso liberamente e di altrettanto liberamente raggiungere o non raggiungere un obiettivo. L’esempio non è mio ma è di Spinoza, il quale mostra che ogni ente è determinato a esistere e ad agire da un insieme ben preciso di cause. L’illusione della libertà nasce dalla consapevolezza degli scopi per i quali si agisce e dall’ignoranza delle cause che spingono a indirizzarsi proprio verso quegli scopi e non verso altri.
E dunque

«si per hominem coactum intelligit eum, qui invitus agit, concedo nos quibusdam in rebus nulla tenus cogi, hocque respectu haber liberum arbitrium; Sed si per coactum intelligit, qui quamvis non invitus, necessario tamen agit (ut supra explicui) nego nos aliqua in re liberos esse»;
«se per uomo costretto intende quello che agisce contro il proprio volere, concedo che in certe cose non siamo affatto costretti e che, in questo senso, siamo dotati di libero arbitrio. Ma se per costretto intende colui che agisce per necessità, benché non contro la sua volontà (come ho spiegato sopra) nego che noi siamo liberi in qualche cosa»
(Epistolæ, in «Tutte le opere», a cura di A. Sangiacomo, Bompiani 2011, Lettera 58 del 1674 a Giovanni Ermanno Schuller, pp. 2112-2113).

Una buona morte è frutto anche di una buona vita. E la vita diventa migliore se non la riempiamo di illusioni sul bene, sul male, sulla libertà, sulla colpa ma viviamo con la saggezza delle foglie che sgorgano dall’albero della materia in tutto lo splendore della loro vitalità e colore e poi cadono con la leggerezza di ciò che ha compiuto il proprio percorso nel tempo. Senza rimpianti, senza nostalgia, senza terrori. Εὐ.

Infiniti mondi

Giordano Bruno
De l’infinito, universo e mondi
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, 1985
I volume, pagine 343-544 

L’onestà intellettuale di Giordano Bruno gli fa riconoscere la validità di alcuni argomenti di Aristotele, filosofo che pur critica aspramente. Un’onestà che lo spinge a dismettere ogni fede, pregiudizio, dogma. La consapevolezza metodologico-critica che fonda l’opera bruniana è ben espressa da questa affermazione: «Chi vuol perfettamente giudicare, come ho detto, deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l’una e l’altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbibito da natività» (p. 500).
I risultati di questo atteggiamento sono tra i più importanti e fecondi del pensiero moderno e si possono riassumere nella equiparazione della Terra a ogni altro corpo celeste; nella struttura isotropa dell’universo; nella necessità che intride il mondo fisico; nella identità tra corpo e tempo.
Bruno ribadisce infatti e dimostra che «non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente luogo e cielo (463). In questo modo il dualismo tradizionale -aristotelico ma non solo- tra mondo lunare e mondo sublunare scompare; l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di essere il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo (518).

La materia è perfetta e dunque necessaria, poiché «non può esser altro che quello che è; non può esser tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili» (384). Il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte.
Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti» (412-413).
L’energia e lo slancio del pensiero bruniano costituiscono una forza davvero rivoluzionaria. Il filosofo ne è del tutto consapevole. A Burchio il quale sconcertato obietta che «con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo», Fracastoro giustamente e sensatamente risponde chiedendo «ti par che farrebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?» (465). No, non farebbe male.

Il pendolare

The Commuter
(Titolo italiano: L’uomo sul treno)
di Jaume Collet-Serra
USA, 2018
Con: Liam Neeson (Michael Woolrich), Vera Farmiga (Joanna), Patrick Wilson (Murphy)
Trailer del film

Il titolo originale è, more solito, più espressivo di quello italiano. Michael Woolrich è infatti un pendolare che da dieci anni prende sempre lo stesso treno per andare al lavoro e ritorna sempre allo stesso orario. È un ex poliziotto che su quel treno conosce tutti. Adesso fa l’assicuratore ma una mattina, di colpo, viene licenziato. I problemi finanziari che già lo affliggono ne vengono esasperati e comincia a pensare che siano diventati irrisolvibili. Sul treno del mesto ritorno a casa spunta dal nulla una donna che gli dice dove trovare su quel convoglio 25.000 dollari. Ne otterrà altri 75.000 se individuerà un uomo e la sua borsa, segnalandoli a lei. Nient’altro. Michael è incredulo ma trova davvero il danaro e comincia la sua ‘missione’. La quale si rivela complessa, inquietante, mortale e foriera di dilemmi etici piuttosto profondi.
È questo il nucleo di valore del film. Il quale è per il resto il consueto thriller spettacolare nel quale le più inverosimili scene d’azione disegnano un protagonista che da assicuratore attempato sembra diventare una specie di superman. Dal punto di vista formale è interessante il fatto che la pellicola sia girata quasi per intero dentro un treno in corsa, nel quale abita una vera e propria antologia dell’umanità solitaria e bisognosa di relazione. È però del tutto inverosimile che una organizzazione capace di agire in tempi rapidissimi dentro e fuori dal treno per costringere Michael a continuare la sua ricerca non sappia trovare da sé la persona che cerca.
Ma torniamo ai dilemmi che rendono interessante il film. Joanna, l’enigmatica donna che fa la proposta a Michael, presenta la cosa come un tipico esperimento mentale: «Che tipo di persona è lei? Sino a che punto è disposto a spingersi per ottenere un vantaggio in cambio di una piccola azione che però non sa quali conseguenze avrà su un’altra persona?».
Per rispondere a tali domande è in realtà necessaria una metaetica, intesa come il tentativo di individuare le condizioni di possibilità e di significazione dei comportamenti umani. Non a partire dunque da credenze (religiose o di altra natura) o da sentimenti (psicologici o di altri ambiti) ma dall’analisi quanto più rigorosa possibile sia dei comportamenti sia delle espressioni linguistiche e semantiche che li descrivono.
A partire dalle condizioni date, e create di proposito dall’organizzazione che intende incastrarlo, la risposta del protagonista non poteva essere diversa da quella che è stata. E questo al di là delle sue credenze morali e della sua visione del mondo. Gli sviluppi della vicenda, certo, mostrano la complessità dei dilemmi etici che Michael deve affrontare e ai quali dà di volta in volta risposte diverse, sino a quella finale che risulta abbastanza artificiosa, ma essi filano veloci su dei binari prestabiliti, esattamente come quelli di un treno.
«Una foglia si staccò da un alto ramo, / disse: ‘Di cadere a terra io bramo’. / Il vento dell’ovest, alzandosi, la fece turbinare. / ‘A est’, disse, or mi dovrò orientare’. / Il vento dell’est s’alzò con maggior forza. / Quella disse: ‘Sarebbe savio cambiar la mia corsa’. / Con egual poter si svolse la lor contesa. / ‘La mia scelta è meglio lasciar sospesa’. / Si spensero i venti e la foglia, non più afflitta, / esclamò: ‘Ho deciso: cadrò giù dritta’» (Ambrose Bierce, da Il dizionario del diavolo [1911], cit. in D.M. Wegner, L’illusione della volontà cosciente, Carbonio Editore 2020, epigrafe).

Colpa / Danno

Recensione a:
Daniel Merton Wegner
L’illusione della volontà cosciente
(The Illusion of Conscious Will, Massachusetts Institute of Technology 2018)
Trad. di Olimpia Ellero
Carbonio Editore, 2020
Pagine 460
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
vol. 11, n. 3/2020
pagine 422-423

Del libro di Daniel Wegner avevo parlato qualche mese fa sul manifesto; sulla RIFP ho avuto più spazio e ho quindi cercato di far emergere ancor meglio il significato e il valore di un’indagine documentata, approfondita, pacata, che conferma -con gli strumenti della psicologia e della neurobiologia- le tesi metafisiche di Spinoza, secondo cui è libero l’ente il quale «ex sola suæ naturæ necessitate existit, & agit», costretto è invece quell’ente «quæ ab alio determinatur, ad existendum, & operandum certa, ac determinata ratione», consistendo la libertà  «non in libero decreto; sed in libera necessitate» (Lettera 58 a H.G. Schuller, 1674, in Tutte le opere, Bompiani, p. 2110).
Ogni ente infatti è determinato a esistere e ad agire per un insieme ben preciso di cause. «L’illusione della volontà cosciente» nasce dalla consapevolezza degli scopi per i quali si agisce e dall’ignoranza delle cause che spingono a indirizzarsi proprio verso quegli scopi e non altri.
Non c’è dunque merito nella rosa che profuma come non c’è colpa nell’escremento che puzza. Ciascuno agisce in modo conforme alla propria natura, al di là del bene e al di là del male.
Nonostante la naturale propensione a ritenere che i nostri gesti siano per lo più voluti da noi e che quelli che invece compiamo in automatismo siano una piccola parte, è vero esattamente il contrario, «l’automatismo è la regola, e l’illusione della volontà cosciente è l’eccezione» (Wegner, p. 188). Se ogni volta che ci muoviamo, rispondiamo a delle domande, interagiamo in tempo reale con gli altri e con l’ambiente dovessimo pensare a ciò che stiamo facendo e calcolare consapevolmente tutte le cause e implicazioni, di fatto non agiremmo più o il nostro agire sarebbe così lento da risultare vano. E dunque anche «chi erra non lo fa per cattiva volontà. Ciò non è concepibile per l’uomo greco, il quale non ha neppure il termine per indicare quel che noi chiamiamo volontà» (Walter F. Otto, Teofania. Lo spirito della religione greca antica, a cura di G. Moretti, Adelphi 2021, p. 72).
La questione teologico-giuridica diventa così quasi inestricabile, una volta che, rispetto ai Greci, si è privilegiata la colpa interiore e soggettiva invece del danno oggettivo che un’azione eventualmente produce: «gran parte dei timori relativi alle spiegazioni meccanicistiche del comportamento umano può essere fatta risalire alla cultura occidentale e alle sue ideologie religiose» (Wegner, p. 417), in particolare a quelle monoteistiche nelle quali il posto dell’anima individuale diventa preminente, se non totale. Ma anche l’anima è parte del tutto, inseparabile dalla complessità infinita degli eventi.

Sul determinismo

La sensazione del libero arbitrio
il manifesto

20 agosto 2020
pagina 11

L’illusione della volontà cosciente dello psicologo Daniel Wegner è un libro fecondo anche perché sostiene e conferma sul piano empirico una verità logico-teoretica evidente, quella per la quale il libero arbitrio è una sensazione assai potente e certamente funzionale ma non per questo relativa a qualcosa di reale. Come scrive Wegner, «il libero arbitrio è una sensazione, mentre il determinismo è un processo. Sono incommensurabili».
A un tema come questo, che ritengo fondamentale sia in chiave antropologica sia metafisica, ho dedicato alcuni anni fa un intero corso e un saggio dal titolo Il libero arbitrio tra neuroscienze e filosofia.
Nell’articolo è saltata un’affermazione di Einstein, che recupero qui: «un Essere, dotato di una capacità di intuizione superiore e della più perfetta intelligenza, osservando l’uomo e le sue azioni, sorriderebbe di fronte all’umana illusione di agire in base al proprio libero arbitrio». Esattamente ciò che pensava Spinoza.

Amor Dei intellectualis

Nietzsche e Spinoza
Archivio di storia della cultura
Numero IV / 1991
Pagine 93-140

Questo saggio non è «recente». Ne metto comunque a disposizione il pdf perché vi si analizzano due filosofi fondamentali nella mia formazione e spero possa essere utile a quanti si occupano di Spinoza, di Nietzsche o di entrambi.
È un testo ampio, che richiede tempo e pazienza ma mi auguro che risulti anche piacevole per chi lo leggerà. Questo è l’incipit:

«Nietzsche definisce Spinoza ‘il saggio più puro’ [‘den reinsten Weisen’, Umano, troppo umano I, af. 475] riferendosi forse anche alla solitudine – teoretica più che umana – del filosofo olandese, il quale si presenta isolato nel senso più radicale. La sua prosa calma ed essenziale disegna un meccanismo deduttivo, una metafisica geometrica che possono somigliare solo da lontano ad altre filosofie. Lo sfondo è certo carico di contenuti già dati: la razionalità matematica della nuova scienza di marca galileiana: la conoscenza degli Stoici, di Hobbes, di Descartes; la mistica e il pensiero ebraici. Ma tutto ciò è assorbito e rielaborato all’interno di un pensiero del tutto originale e rigoroso. Spinoza dice le parole di base di ogni filosofia non ingenua. Parole certo superabili ma sicuramente non eludibili. È probabilmente quello che intendeva Hegel quando affermava che essere spinoziani è l’inizio essenziale deI filosofare. È la parola dell’unità. L’unita coerente  e forte con cui la filosofia si sforza di leggere e capire il cosmo. L’unità di dio, liberato da ogni favola antropomorfica, da ogni illusione volontaristica. Dio solo esiste per causa sui. Fuori da ogni creazione, oltre ogni finalismo, dio è la sostanza unica, infinita, eterna, indivisibile, immutabile. Dalla sostanza procedono infiniti attributi dei quali la mente umana conosce solo pensiero ed estensione. Le cose singole e  molteplici sono affezioni della sostanza, modi degli attributi.
La contingenza è un’illusione della mente umana. Nel tutto domina la necessità. Il finalismo è il più grave errore filosofico, è una forma  ingenua di soggettivismo che pretende porre l’universo a esclusivo utilizzo della specie umana. Le nozioni di perfezione-imperfezione, bene-male, giusto-ingiusto, sono scaturite da questo sentire sé come criterio del tutto. La filosofia è la rimozione di tale prospettiva. È il sentirsi parte eterna di una eternità. È amor Dei intellectualis». 

#restiamoacasa

Michel Houllebecq
La possibilità di un’isola
(La possibilité d’une île, 2005)
Traduzione di Fabrizio Ascari
Bompiani, 2005
Pagine 398

A distanza di circa duemila anni dalla quasi estinzione della specie umana, causata da guerre nucleari e da rivolgimenti geologici e astronomici, un numero limitato di neoumani abita il pianeta, ridotto a un deserto intervallato da laghi. La loro vita si svolge solitaria in singole enclaves dotate di ogni sicurezza. Il corpo dei neoumani ha un metabolismo diverso ed è molto più resistente al dolore, alla fatica, alle privazioni. Questi esseri comunicano tra loro attraverso una Rete esclusiva ed evoluta ma non si incontrano quasi mai. Le loro esistenze sono al di là della gioia e della sofferenza, del desiderio e della noia. La libertà dell’indifferenza è il sentimento che vogliono raggiungere, condizione per una serenità perfetta. Sono esseri che hanno abbandonato i cascami dell’umano, incarnando invece nei propri corpi la saggezza del Buddha, il determinismo spinoziano, la liberazione dal fenomeno; capaci finalmente di uno sguardo sugli enti, gli eventi e i processi che sia libero da ogni inquietudine. I neoumani sanno, però, di costituire anch’essi una tappa nell’itinerario che porterà ai Futuri, entità non più macchine –né biologiche né artificiali–, non più separate ma «Uno, pur essendo molteplici. […] La luce è una, ma i suoi raggi sono innumerevoli» (p. 388), e la loro civiltà «si sarebbe costruita tramite interconnessione progressiva di processori conoscitivi e memoriali» (395).
Tra le rovine di quelle che furono le città, vivono invece i discendenti dell’Homo sapiens tornati a una condizione di quasi completa naturalità e quindi feroci, cannibaleschi, nefasti e sciagurati, intrisi di una «bramosia perennemente rinnovata di violenza, di umiliazioni gerarchiche o sessuali, di crudeltà pura e semplice» (390).
Che cosa era accaduto nel XXI secolo alla specie, tanto da determinare una separazione così netta? È ciò che il romanzo racconta, attraverso il contrappunto fra le memorie di vita di Daniel1 –un attore comico dal grande successo, dal carattere cinico e sentimentale, freddo e appassionato– e i commenti alle sue memorie redatti dai suoi successori genetici Daniel24 e Daniel25.
Daniel1 racconta come i progetti velleitari e finanziariamente truffaldini di una delle tante sette pullulanti nella postmodernità, quella degli Elohimiti, avessero consentito di scoprire il modo di riprodurre geneticamente lo stesso individuo in corpi diversi e migliorati. Il lungo percorso di vita di queste fasi della stessa persona approda a uno scacco pressoché completo. Daniel25, infatti, decide di lasciare il suo rifugio e avventurarsi in ciò che resta del mondo. Spinto, evidentemente, da una passione per la conoscenza e per la relazione ancora non del tutto negata nei corpi neoumani, la cui vita «cercava di essere tranquilla, razionale, lontana dal piacere come dalla sofferenza, e la mia partenza stava a testimoniare il suo fallimento. I Futuri, forse, avrebbero conosciuto la gioia, altro nome del piacere continuato» (389).
Il soggetto di questo libro rappresenta quindi una variazione fantascientifica su alcune delle tematiche più costanti della filosofia. Un percorso che parte dal Simposio –dialogo che avrebbe avvelenato l’umanità ispirandole «il disgusto per la sua condizione di animale razionale» (392)– e arriva alla ingegneria genetica e alla cibernetica, scienze consapevoli del fatto che l’essere umano è materia più informazione. E dato che l’informazione senza conservazione non ha alcun valore, il limite della clonazione del DNA di un individuo viene superato proprio attraverso una grande attenzione alla memoria, al linguaggio, al racconto che ogni candidato alla immortalità della riproduzione genetica fa del proprio vissuto:

Ma la personalità? Il nuovo clone come avrebbe avuto il ricordo, seppur ridotto, del passato del suo antenato? E se la memoria non veniva conservata, come avrebbe avuto l’impressione di essere lo stesso uomo, reincarnato? (110)

La prima legge di Pierce identifica la personalità con la memoria. Nella personalità esiste solo ciò che è memorizzabile (sia tale memoria cognitiva, procedurale o affettiva). È grazie alla memoria, per esempio, che il sonno non dissolve affatto la sensazione di identità.
La seconda legge di Pierce afferma che la memoria cognitiva ha come supporto adeguato il linguaggio.
La terza legge di Pierce definisce le condizioni di un linguaggio diretto (24-25).

I neoumani, quindi, e soprattutto i Futuri di là da venire, intendono mantenere la ricchezza della corporeità semantica, cancellando però la corporeità desiderante e quella temporale. Niente, infatti, sconvolgeva gli umani come quell’insieme di reazioni somatiche, ormonali e psicologiche che chiamavano amore. L’amore totalmente corporeo, l’amore con la cui scomparsa –come afferma il protagonista ricordando Schopenhauer e Nietzsche– «sparisce tutto», tenerezza, affetto, condivisione (63), «poiché siamo dei corpi, siamo innanzitutto principalmente e quasi unicamente dei corpi e lo stato dei nostri corpi costituisce l’autentica spiegazione della maggior parte delle nostre concezioni intellettuali e morali» (180). Ogni energia nasce e vive nel corpo erotizzato, l’unica dimensione che possa dare all’umano l’estasi della quale esso è capace: «ho vissuto momenti di intensa felicità; era dentro di lei o accanto; era quando ero dentro di lei, o un po’ prima, o un po’ dopo» (143); «quelle poche ore giustificavano la mia vita» (152)
Ma questa potenza del corpo è anche la radice di ogni sofferenza, poiché «anche se ognuno ha una certa capacità di resistenza, si finisce tutti col morire d’amore o piuttosto per l’assenza di amore» (146), perché il sentimento dell’amore rende immediatamente vulnerabile chi lo nutre; il più innamorato fra i due alla fine soccomberà nella sostanziale, e quindi innocente, indifferenza dell’altro. La colpevolizzazione dell’abbandono non è –davvero– che la patetica reazione dell’abbandonato di fronte alla dinamica ineluttabile dei sentimenti. Così potente è questa finzione, così costitutiva della forma di ferocia che chiamiamo amore, da aver contagiato anche il neoumano Daniel25, che afferma di sapere «adesso con certezza di aver conosciuto l’amore, perché conoscevo la sofferenza» (384).
L’amore è l’espressione più potente –ma solo una delle tante- della costitutiva infelicità dell’umano. E anche questa è un’antica lezione filosofica e prima ancora mitologica, dalla sapienza di Sileno alla lucida passione per il nulla di Cioran: «ogni essere vivente, ovviamente, merita la compassione per il semplice fatto che è in vita e si trova perciò esposto a innumerevoli sofferenze» (182), le quali –è talmente evidente– non avranno mai fine finché l’umanità sarà umanità. Raccontando il proprio viaggio fuori dal luogo sicuro e freddo della propria solitudine, Daniel25 ancora una volta deve ammettere che «la felicità non era un orizzonte possibile. Il mondo aveva tradito» (397).
La logica conseguenza di queste riflessioni è che non abbia senso alcuno rimpiangere la specie umana, attratta verso ciò che essa stessa chiama “il male” con la stessa forza con la quale un grave si indirizza verso il basso. Un lucido determinismo è uno dei nuclei teoretici del romanzo, come testimoniano anche vari riferimenti espliciti a Spinoza: «i rapporti umani nascono, si evolvono e muoiono in maniera perfettamente deterministica, ineluttabile quanto i moti di un sistema planetario» (298). Davvero «l’umanità non meritava di vivere, la scomparsa della specie poteva essere considerata, sotto tutti i punti di vista, solo come una buona notizia» (365-366).
Si fa a questo punto chiaro il più profondo nucleo filosofico/religioso dell’Isola di Houellebecq: la grande tradizione gnostica. E in particolare uno dei suoi elementi: il rifiuto della riproduzione.
Houellebecq coniuga la lucidità di Schopenhauer – «schiacciate dalla consapevolezza della propria insignificanza, le persone si decidono a fare figli» (56); «anche se tale obiettivo [il riprodursi] è evidentemente insignificante, essa [l’umanità] lo persegue con un accanimento spaventoso» (221); «sarebbero rimasti schiavi della loro prole fino alla fine, il tempo della gioia era definitivamente terminato per loro» (323)- con la convinzione catara che «ogni distruzione di una forma di vita organica, comunque sia, era un passo avanti verso la realizzazione della legge morale» (381), con il provare «un orrore, un autentico orrore di fronte al calvario ininterrotto che è l’esistenza degli uomini» (56), concludendo pertanto che il gesto più nobile, il più ribelle verso il male, il meno violento che si possa compiere, consista nel rifiutare la catena e spezzare «il ciclo continuo della riproduzione delle sofferenze» (324).
Tutto questo per noi, per chi cioè è cresciuto, vive e cerca di pensare all’interno della luce del pensiero greco, spinoziano, leopardiano, nietzscheano, tutto questo è vero sino all’ovvietà. Houellebecq ha il merito di riassumerne i tratti dentro un racconto non certo alieno da evitabili prolissità ma in ogni caso coerente nell’impianto e stilisticamente efficace nell’alternare le passioni di Daniel1 e la rarefatta distanza di Daniel 24 e 25.
Un testo esoterico e insieme carnale. Quella carne che non avendo per la gnosi alcuna autonomia ontologica può essere saziata di ogni piacere, lasciando intatta la rovina e la gloria dell’umano. In attesa della perfezione dei Futuri.

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