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Giovanni, il dissoluto

Spazio Teatro 89– Milano

Giovanni – Il dissoluto in attesa di giudizio

di e con Gianluca Di Lauro
Drammaturgia e regia Marcela Serli
Una produzione APARTE e Mauro Bosio
Sino al 30 ottobre 2008

Giovanni è il bambino coccolato dalla madre, è l’adolescente che la madre non riconosce più, è il compagno di conquiste dello Sgangia, è il seduttore che coltiva tre relazioni contemporaneamente, è il desiderio nascosto del buon padre di famiglia che si reca nelle discoteche per trasmettere ai ragazzi gli insegnamenti di Benedetto XVI sull’amore, è -delle discoteche- l’annoiato sovrano, è il bevitore di intrugli e di donne, è -infine- Don Juan Tenorio, il gentiluomo di Mozart e Da Ponte.

E tutto questo diventa corpo e azione attraverso un solo, eccellente, attore e su una scena spoglia ma raffinata nei suoi pochi oggetti, movimenti e musiche. Fondamentali queste ultime, da Piero Ciampi alla Tekno. Gianluca Di Lauro e Marcela Serli riescono soprattutto a trasmettere la frenesia di un personaggio che non può star fermo, mai. Perché l’immobilità è morte. Giovanni desidera, conquista e abbandona, secondo il più noto degli schemi. Ma è la morte che vorrebbe sedurre.  Non potendo, moltiplica il suo corpo nelle altre, affinché in loro qualcosa di sé rimanga ancora vivo. Per sempre. E così è.

8 ½

di Federico Fellini
Con: Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Guido Alberti, Mario Pisu, Edra Gale, Barbara Steele
Sceneggiatura di Fellini, E.Flaiano, T.Pinelli e B.Rondi
Italia, 1963

otto_e_mezzo

Ho rivisto questo film al cinema. L’opera che si genera dalla sua stessa impossibilità, dal suo progetto sempre rinviato e realizzato proprio mentre lo si vagheggia. Come nella Recherche.
Una dichiarazione di poetica dunque, di passione per il cinema puro, per la gioia dell’immagine, sostenuta ma non divorata dalla consapevolezza critica (esplicito il sogno dello sceneggiatore impiccato e il sarcasmo nei confronti dei giornalisti…).
Il ricordo trasfigurato, l’infanzia cattolica capovolta. Tutto il film è anche una risposta al vecchio cardinale che si dichiara avverso alla felicità. Il narcisismo si fa universale aspirazione al piacere e alla bellezza.
Una stupefacente potenza visionaria, che da ogni fotogramma squaderna originali soluzioni formali, bellissime immagini che riempiono l’occhio e la mente di gioia, la gioia del cinema, della pellicola, dell’8½. Splendente.

Le relazioni pericolose

Teatro Litta – Milano
Le relazioni pericolose
da Pierre Choderlos De Laclos (Les Liaisons dangereuses, 1782)
Adattamento e regia di Silvia Giulia Mendola
Con: Paolo Andreoni, Andrea Dezi, Lorenza Pisano, Cinzia Spanò, Greta Zamparini
Coproduzione Litta – Compagnia PianoinBilico
Sino al 31 dicembre 2008

La vanità conta più del piacere, poiché essa si spinge fino all’assurdo di negare a se stessa il piacere se quest’ultimo sembra mettere a rischio uno smisurato amor di sé. La marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont sono due divinità in lotta fra di loro per il possesso del cuore dei mortali. Due divinità non di pari livello, però. Il visconte vive quasi sempre di riflesso rispetto all’energia, alla determinazione, alla prudenza e al gelo della marchesa, la quale arriva esplicitamente a descriversi coi tratti del divino: «eccomi diventata una Divinità, che riceve le opposte suppliche dei ciechi mortali e non cambia nulla dei suoi decreti immutabili» (lettera LXIII).
Si costruiscono senza posa relazioni, si ordiscono intrecci e rapporti con l’obiettivo di possedere il tempo e il corpo dell’oggetto bramato ma tutto ciò si realizza a danno del sentimento. L’idea stessa di innamorarsi suscita terrore coincidendo essa con il ridicolo, suprema offesa alla vanità. Quando la passione compare, nella Signora di Tourvel, non può che assumere i tratti dell’idolatria, della rinuncia totale al sé in favore di un dio: «io l’amo fino all’idolatria e non l’amo ancora quanto merita» (let.CXXXII).
Il romanzo di Choderlos De Laclos è intessuto di una psicologia penetrante e capace di smascherare la genealogia dei sentimenti morali, à la Nietzsche. Quando, ad esempio, Valmont benefica una famiglia contadina allo scopo di apparire in una luce migliore davanti a Madame di Tourvel, osserva di essere stato stupito dal «piacere che si prova a fare il bene; e sarei tentato di credere che quelle che noi chiamiamo persone virtuose non hanno poi tutto quel merito che tutti si compiacciono di metterci davanti agli occhi» (let. XXI). La gratificazione del sé, inevitabile in ogni azione virtuosa, mette quindi in discussione la virtuosità dell’agire. Allo stesso modo, la bontà viene fatta scaturire dalla debolezza; chi non ha artigli si vanta d’essere mite quando la vera magnanimità implica la capacità di colpire e l’astenersi dal farlo: «Ecco gli uomini: tutti uguali, nella scelleratezza dei loro piani, chiamano probità la debolezza nel portarli all’attuazione» (let. LXVI).

L’amore che c’è, l’amore che manca, l’amore irriso, l’amore idolatrato, l’amore cercato, l’amore temuto…ma cos’è per Laclos questo sentimento? Esattamente quello che è per Proust, il riflesso della nostra tenerezza: «l’incanto che crediamo di trovar negli altri esiste solo in noi; e soltanto l’amore fa apparire così bello l’oggetto amato»; a dirlo è, naturalmente, la marchesa di Merteuil (let. CXXXIV).
Di questo tessuto di passioni e di gelo, la messinscena del Litta coglie le geometrie inevitabili, a partire dalla scacchiera nella quale i personaggi si muovono con meccanicità da burattini: davvero, come ripete Valmont nel suo tragico mantra, «trascende ogni mio controllo» (let. CXLI). Impressione rafforzata dai balli. I cinque personaggi, infatti, danzano i tanghi di Astor Piazzolla, movimenti che più di ogni altro coniugano ardore e geometria.
Efficace anche l’idea di far diventare parte della scena brani delle lettere, a sottolineare come questi uomini e queste donne siano fatti di parole e dunque quanto potente la parola sia.
Siamo naturalmente su un livello molto diverso dal magnifico Quartett di Heiner Müller messo in scena da Wilson qualche anno fa ma lo spettacolo di Silvia Mendola ha tutta la freschezza del desiderio.

Mente & cervello 47 – Novembre 2008


La permanenza dei significati e delle intenzionalità è la memoria. Essa costituisce il nucleo più profondo della mente, quello in cui convergono la dimensione fisico-neuronale e quella coscienzialistico-immateriale. A questo tema sono dedicati alcuni degli articoli del numero di novembre 2008 di M&C. Anche il ricordare conferma che la mente non è una res ma è un fieri, non una sostanza ma una funzione. I ricordi, infatti, non vengono “depositati” in nessun cassetto ma «vengono creati modificando la forza delle connessioni tra centinaia, migliaia, se non milioni di neuroni, che facilitano la ricomparsa di schemi di attività specifici» (R.Stickgold e J.M.Ellenbogen, pag. 36); il sonno serve a consolidare -alla lettera- tali connessioni e quindi sembra finalmente chiarita la ragione per cui abbiamo bisogno di dormire: per fissare i ricordi e quindi per essere ancora noi stessi.
Anche altri animali e non solo mammiferi -i corvi, ad esempio- «hanno una memoria straordinaria, tanto da ricordarsi con precisione un volto umano, anche dopo parecchio tempo» (F.Sgarbossa, 21) e questo apre all’importante argomento della mente animale, affrontato da J.Vlahos dal punto di vista del disagio mentale, delle cure e dei farmaci che vengono erogati agli animali non umani. Il pregiudizio cartesiano è stato completamene smentito: gli animali «sviluppano malattie mentali che somigliano in maniera inquietante a quelle umane, e rispondono agli stessi farmaci» (52); e anche le ragioni sembrano analoghe, visto che molto del disagio mentale nasce «dalle vite innaturali che i proprietari li costringono a condurre» (56), vite, spazi e tempi innaturali anche per noi. Il sistema limbico, che controlla le emozioni, funziona infatti in modo assai simile in tutti i mammiferi. Darwin affermò giustamente che «la differenza tra la mente dell’uomo e quelle degli animali superiori, per grande che sia, certamente è una differenza di grado e non di genere» (cit. a p. 56).
L’animalità dell’Homo sapiens sapiens spiega anche la particolare attrazione dei maschi di questa specie -come anche di alcune scimmie- per la pornografia. La ragione è persino banale: «per i maschi è adattativo, cioè vantaggioso in termini evoluzionistici, essere reattivi di fronte alle possibilità di accoppiarsi, anche velocemente e senza troppo impegno, per diffondere i propri geni sul pianeta (…) E ai mammiferi maschi generalmente conviene tentare di fecondare il più alto numero di donne possibile e quindi essere veloce e ricettivo di fronte alla visione di una donna disponibile» (S.Bencivelli, 26-27).
Un argomento diverso e didatticamente assai utile è quello che concerne l’imperversare di psicologi e «neuromiti nelle scuole», come se presentarsi con un camice bianco o utilizzare un linguaggio neurobiologico attribuisse per ciò stesso una qualche verità ed efficacia alle affermazioni di molti sedicenti esperti dell’educare. E invece «gli insegnanti non devono abdicare la loro responsabilità di educatori delegando in modo acritico la loro competenza alle fandonie di divulgatori senza scrupoli» (R.Cubelli – S. Della Sala, 84). I due studiosi sostengono anche -e giustamente- che alla base di molti interventi inopportuni o dannosi delle neuroscienze in ambito didattico starebbe «la commistione tra mente e cervello diffusa anche tra gli addetti ai lavori, ossia l’idea che lo studio del funzionamento fisiologico e biologico del cervello sia sufficiente a comprendere i processi mentali e i meccanismi di acquisizione della conoscenza. Lo studio del cervello e lo studio dei processi cognitivi non sono sinonimi, non si pongono i medesimi obiettivi e rappresentano livelli di conoscenza diversi» (82).
Osservazioni critiche che ci riportano alla necessità di un approccio filosofico per la comprensione della mente e della memoria, come sostiene anche Nelson Cowan dell’Università del Missouri: «per determinare la verità sarà quindi necessario affiancare alle moderne tecniche di brain imaging i vecchi metodi comportamentali e il ragionamento filosofico sul funzionamento della mente. In un articolo del 1971 intitolato Art in Bits and Chunks, lo psicologo della percezione Rudolf Arnheim affermava che lo strumento più importante per uno psicologo è la sua poltrona. E questo sembra valido anche per le ricerche sul cervello» (49).
Segnalo, infine, una intrigante intervista di Loredana Lipperini a Francesco Dimitri, uno dei maggiori scrittori italiani di fantasy -che non è un genere per ragazzini o per sognatori…- autore di un romanzo dal titolo Pan ambientato in una Roma contemporanea attraversata dalla crudeltà orgiastica del dio greco. Dimitri sostiene che «i sogni scientifici stiano mostrando la corda e che siamo in tempi di risveglio: in questo senso l’arrivo di Pan è davvero imminente. Il che non significa diventare luddisti. Una parte degli avanzamenti scientifici sono stati non semplicemente anticipati dalla letteratura, ma condizionati. Penso a Verne. Al cyberpunk. E penso a Mark Pesce, l’inventore del Vrml (Virtual Reality Modeling Language), che è un occultista: e ha realizzato l’estensione tecnologica di una propria idea esoterica» (45). E comunque Pan non è mai morto, come ci ricorda Hillman, poiché egli è l’unità psicosomatica che siamo. È nel trionfo del corpo che -nonostante il grido riferito da Plutarco che pose fine al mondo antico- Pan è vivo e sempre lo rimarrà. Sempre, finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore.

 

Il tempo ritrovato

Marcel Proust
(Le Temps retrouvé, 1922; Gallimard, 1954)

Trad. di Giorgio Caproni
Einaudi, 1978
Pagine XVIII- 437

 

I nuclei narrativi che concludono il grande affresco sono tre: la guerra, l’opera, il tempo.

Parigi durante la guerra, coi suoi misteriosi e grotteschi personaggi, i suoi segreti di città orientale, il suo volto raffinato e decadente, costituisce l’ultima grande aggiunta -suggerita e quasi imposta dagli avvenimenti stessi- all’originario progetto della Recherche. Qui è ancora una volta protagonista il personaggio più grande, forse il più amato dall’Autore: il barone di Charlus.
Il trionfo del Tempo si esprime attraverso tre intense immagini: la maschera che si posa sui volti, rendendoli negli anni irriconoscibili; il «teatrino di marionette immerse nei colori immateriali degli anni, di marionette che esteriorizzavano il Tempo: il Tempo che, d’ordinario, non è visibile, che per diventar tale va in cerca di corpi e che, dovunque li incontra, se ne impossessa per mostrar su di loro la propria lanterna magica» (p. 258); «i vivi trampoli crescenti senza posa» (391) sui quali gli umani si muovono fino a che non riescono più a reggere la distanza tra il mondo da cui sono germinati e il tempo al quale sono pervenuti.
La meditazione conclusiva sul Tempo  viene introdotta mediante l’ultimo personaggio che appare nel romanzo: la figlia di Gilberte Swann e Robert de Saint-Loup. Personaggio senza nome essendo in effetti una metafora nella quale convergono le due strade di Méséglise e di Guermantes, apparse all’inizio dell’opera inconciliabili. In questa ragazza la cui bellezza è segno della giovinezza perduta del Narratore si celebra il trionfo della vita, del tempo e della dissoluzione: «così muta l’aspetto delle cose di questo mondo; così il centro degli imperi e il catasto dei patrimoni e la mappa delle situazioni sociali, tutto ciò che sembrava definitivo viene incessantemente rimaneggiato, e gli occhi d’un uomo che ha vissuto possono contemplare il più completo sconvolgimento proprio là dove gli sembrava più impossibile» (360).

Tempo e Opera sono inseparabili poiché essa «è il solo mezzo per ritrovare il Tempo perduto» (231). L’arte riconcilia con il dolore e con la morte. L’uno è l’ispiratore, l’altra è la ragione stessa per la quale l’opera esiste. L’ «Adorazione perpetua» fa dell’opera e della vita una sola realtà: «la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura», «l’arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale» (227 e 211). Di notte, poiché di essa e del silenzio i libri sono figli, il Narratore costruirà la sua cattedrale di parole.

La gioia per l’Opera conclusa si coniuga alla modestia che induce il Narratore a rivolgersi a chi lo ha letto non come a un semplice fruitore di pensieri altrui ma come a un lettore di se stesso «essendo il mio libro qualcosa di simile a quelle lenti d’ingrandimento che l’ottico di Combray porgeva al cliente; il mio libro grazie al quale avrei fornito loro il mezzo di leggere in loro stessi. Dimodoché io non avrei domandato loro né di lodarmi né di biasimarmi, ma soltanto di dirmi se è proprio così, se le parole che essi leggono dentro di sé son proprio quelle che io ho scritte» (375). Sì, sono le stesse.

[Le mie riflessioni sugli altri sei volumi della Recherche si possono leggere qui: La strada di SwannAll’ombra delle fanciulle in fioreI GuermantesSodoma e GomorraLa prigionieraLa fuggitiva ]

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