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Heidegger e la Scolastica

Tra Tommaso, Scoto e Suárez
Una nota su Heidegger e la Scolastica
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
2 luglio 2024
pagine 1-7

Indice dell’articolo
-Tommaso
-Scoto e Suárez
-Heidegger

I concetti, il linguaggio, gli itinerari della Scolastica- e in generale del pensiero medioevale – stanno a fondamento delle grandi metafisiche di Descartes e di Spinoza. Si diramano poi attraverso il lessico di Wolff, ripreso interamente da Kant. E arrivano a una rielaborazione profonda ma ancora ben visibile nell’ontologia heideggeriana.
In questo breve saggio ho cercato di cogliere alcuni di tali sviluppi, attraverso l’analisi del De ente et essentia di Tommaso, mediante l’alternativa al tomismo rappresentata da Duns Scoto e infine con la grande sintesi di Francisco Suárez. A Scoto Heidegger dedicò la sua tesi per la libera docenza e riconobbe in Suárez un pensiero originale e fecondo. Se Heidegger ha potuto richiamare la differenza ontologica tra l’essere e gli enti è anche perché si è posto molto al di là della gnoseologia moderna e al di là della stessa fenomenologia, attingendo al terreno della Scolastica, oltre che ovviamente dei Greci.

Storia del corpo

Recensione a:
Maria Teresa Catena
Breve storia del corpo
Mimesis, 2020
Pagine 201
in Scienza & Filosofia
numero 27 / giugno 2022
Pagine 404-407

Complessa è la vicenda del corpo nella storia. Di essa Maria Teresa Catena formula una sintesi illuminante a partire dai concetti e dalle pratiche del corpo presente e del corpo assente. Due paradigmi che nel corso del tempo si susseguono, si intrecciano, si separano, si trasformano. Anche Platone, il troppo frainteso Platone, pur privilegiando in alcuni dialoghi e momenti la ψυχή non ha mail ritenuto il σῶμα un elemento di perdizione e anzi nel Timeo lo pone al centro dell’armonia individuale e cosmica. Il ‘dualismo’ platonico è in gran parte presunto ed è invece assai più reale il dualismo cartesiano e post-cartesiano che mostra ancor oggi tutta la sua forza ermeneutica e prassica nel corpo assente delle correnti e posizioni estropiane e transumanistiche che pervadono anche alcuni sviluppi dell’Intelligenza Artificiale e del variegato arcipelago delle tecnologie virtuali. Le quali sembrano volersi sbarazzare di insegnamenti diversi tra loro ma fondamentali quali il naturalismo darwiniano, la fedeltà nietzscheana ai corpi e alla terra, la fenomenologia della chair di Merleau-Ponty, tutte espressioni del corpo immanente che siamo, che l’animalità è. Perché la corporeità umana è la storia, il corpo è la vita.

Sentimenti umani

La comune
(Kollektivet)
di Thomas Vinterberg
Danimarca, 2016
Con: Ulrich Thomsen (Erik), Trine Dyrholm (Anna), Lars Ranthe (Ole), Martha Sofie Wallstrøm Hansen (Freja), Helene Reingaard Neumann (Emma)
Trailer del film

Perché le tante Comuni sorte nella seconda metà del Novecento sono, dopo tempi più o meno rapidi, fallite?
Se ne sono occupati saggi sociologici, libri autobiografici, documentari storici. Una risposta narrativa la dà un film di Thomas Vintenberg ambientato a Copenaghen nel 1975.
Un architetto e una giornalista ereditano una grande e magnifica casa. Erik vorrebbe venderla, Anna invece vorrebbe chiamare amici e anche estranei e costruirvi una comune. Vince lei e l’esperienza comincia. Consuete relazioni, amicizie e conflitti sino a quando Erik si innamora di una sua studentessa, lo dice alla moglie e la ragazza viene accolta «in prova» nella comune. Anna, che pure aveva proposto questa soluzione, crolla sentendo e vedendo giorno e notte la presenza di Emma nella vita di Erik. E non poteva che essere così.
I sentimenti umani sono infatti e ovviamente più forti di qualunque idea politica, esigenza etica, afflato psicologico. I sentimenti umani si fondano su alcune strutture universali, pur se variamente declinate nel tempo e nello spazio, tra le quali il gaudio inquieto, il possesso, la prestazione, la ferocia, la colpa (me ne sono occupato in varie sedi, di recente in Animalia, pp. 108-113).
La struttura del possesso è centrale. Può e deve essere attutita, può essere mimetizzata, può declinarsi in forme simboliche e non soltanto tangibili ma rimane inemendabile. Le tante forme del possesso – amori, amicizie, gerarchie, luoghi, case, oggetti – sono gli autentici scopi delle azioni animali, anche le più generose.
In Animalia ho appunto scritto che «meriti, qualità, abilità e talenti, uniti al fondamentale ingrediente che è la forza di imporli, creano giorno dopo giorno le gerarchie professionali, sentimentali, politiche. In ciascuno di questi ambiti l’obiettivo è sempre il possesso. Gli amici si hanno poiché chiamiamo così chi è sùbito pronto a venire incontro a qualche nostra esigenza, fosse soltanto quella di non stare soli. La soddisfazione dello stare insieme, utilizzandosi a vicenda, raggiunge il suo culmine nell’amore. La complessità di questo sentimento non può nascondere la sua scaturigine fondamentale: detenere il monopolio nell’uso di un essere umano. È certo possibile, come fa Descartes, distinguere fra amore di benevolenza e amore di concupiscenza ma la loro fonte comune è il desiderio, senza il quale nessun affetto, nessuna passione può nascere. Tutte e quattro le forme di amore descritte da Stendhal – l’amore come fisicità, passione, capriccio, vanità – affondano nell’illusione che permette alla ‘cosa immaginata’ di diventare ‘la cosa esistente’ e ciò perché nei sentimenti umani esiste solo ciò che si teme o che si desidera. La natura solipsistica dell’amore è la più evidente conferma del suo essere puro possesso di sé tramite il fantasma dell’altro e possesso dell’altro attraverso i fantasmi dell’io» (p. 109).
Tutto questo emerge con chiarezza dalla coinvolgente narrazione che Vintenberg fa del volto di Anna, delle sue espressioni, dei capelli, dell’incedere che da sicuro si fa incerto, della presa d’atto che il mondo non funziona come lei immaginava funzionasse.
L’inganno antropologico e moralistico, che sta a fondamento di molte idee e pratiche non soltanto degli anni Settanta del Novecento ma anche degli anni Venti del XXI secolo, si sbriciola nei due ambienti in cui questo film accade: il primo sono le aule e lo studio universitario di Erik; il secondo è costituito dai continui pranzi, cene e riunioni della comune nella quale ha trasformato la sua bella dimora altoborghese.
Il risultato è una efficace metafora della superficialità con la quale idee egualitarie vengono incistate dentro la società liberale. L’effetto non può che essere la menzogna, il politicamente corretto.

Joker

Joker
di Todd Philipps
Con: Joaquin Phoenix (Arthur Fleck /Joker), Frances Conroy (Penny Fleck), Robert De Niro (Murray Franklin), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Brett Cullen (Thomas Wayne)
USA, 2019
Trailer del film

Joker è un film sulla televisione.
Quasi in ogni scena c’è un televisore acceso. Sullo schermo si alternano programmi umoristici e programmi che informano. Prima danno notizie dei rifiuti che seppelliscono la città, dei topi e super ratti che la invadono, e poi delle violenze collettive che la percorrono. E soprattutto è in diretta televisiva –durante un programma di intrattenimento– che accade uno degli eventi decisivi, quello che vede l’uno accanto all’altro Joker e il professionista della risata Murray Franklin.
Gotham City è immersa in una broda spettacolare e globalizzata al cui centro sta la televisione come trionfo della superficialità, del dire prima di aver pensato, del pensare quindi per luoghi comuni e intrinsecamente banali. La televisione come trionfo della drammatizzazione spettacolare, dei sentimenti più intimi portati in piazza e soprattutto dei sentimenti falsamente ricreati a vantaggio dell’audience. Tutto è infatti finalizzato alla pubblicità. Ma questo vuol dire che tutto è finalizzato al mercato e ai mercati, dei quali la televisione rappresenta lo scintillante paravento. 

Joker è un film sulla follia.
«Le bon sens est la chose du monde la mieux partagée; car chacun pense en être si bien pourvu, que ceux même qui sont les plus difficiles à contenter en toute autre chose n’ont point coutume d’en désirer plus qu’ils en ont.
(Il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita: ciascuno, infatti, pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili a contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più)» scrive Descartes nell’incipit del suo Discours de la méthode (1637, trad. di A. Carlini, Laterza 1974, p. 41). Un’ironia persino sarcastica. Ciò che si può constatare, infatti e al contrario, è che la follia è la cosa nel mondo meglio ripartita. La follia che lentamente cancella il confine tra il reale (il mondo collettivo) e il fantastico (il mondo individuale). Ciò che accade in Joker è sogno incubo pensiero desiderante, è il tremante terrore che afferra e abbatte al constatare l’invincibile forza del mondo.

Joker è un film sul corpo, soprattutto sul corpo che corre nello spazio, che fugge. Magro mascherato mobile miserabile mendico espressivo inquietante totale.

Joker è un film demoniaco e insieme cristologico.
«Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca. […] // Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha consegnato se stesso alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi, / mentre egli portava il peccato di molti» (Isaia, 53, 7 e 12).

Joker è un film rozzo, che dall’inizio alla fine si regge sull’interpretazione totale empatica perturbante e demente di Joaquin Phoenix.

Joker è un film consolatorio, che illude su quanto semplice sia –in fondo– ribellarsi agli arroganti, ai ricchi, ai potenti; su quanto facile sia colpire, distruggere, mandare a fuoco le loro cose e le loro vite. Ma questo accade al cinema; quando accade nella realtà si tratta di jacqueries destinate alla sterilità della sconfitta.

Joker è un film intriso di μῆνις, un film sulla vendetta, sul risentimento, sul rancore, sulla loro piena giustificazione, sulla loro inevitabilità.
«εἰ κεῖνόν γε ἴδοιμι κατελθόντ᾽Ἄϊδος εἴσω / φαίην κε φρέν᾽ ἀτέρπου ὀϊζύος ἐκλελαθέσθαι, ‘se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore’» (Iliade, VI, 284-285; trad. di G. Cerri); «οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν, ‘gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso’» (Platone, Filebo, 49d); «καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι, ‘e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi’» poiché «è giusto il ricambiare, e ciò che è giusto è bello, ed è proprio di un uomo valoroso il non lasciarsi sopraffare. Vittoria e onore sono tra le cose belle: esse sono preferibili, anche se infruttuose, e manifestano una superiorità di virtù» (Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24 sgg, trad. di A. Plebe).

Joker è un film disturbante, molto. La spiegazione del suo successo di pubblico sta probabilmente nell’interpretazione di Phoenix, la quale va oltre l’interpretazione.

Joker è un film sull’umano.
«ἔστι δὴτοίνυν τὰ τῶν ἀνθρώπων πράγματα μεγάλης μὲν σπουδῆς οὐκ ἄξια, ἀναγκαῖόν γε μὴνσπουδάζειν: τοῦτο δὲ οὐκ εὐτυχές. […] ἄνθρωπον δέ, ὅπερ εἴπομεν ἔμπροσθεν, θεοῦ τιπαίγνιον εἶναι μεμηχανημένον, ‘È vero che le vicende umane non meritano che ci si interessi molto di loro, bisogna però occuparsene, per quanto la cosa possa risultare ingrata. […] L’umano, come dicevamo prima, è soltanto un giocattolo fabbricato dagli dèi’» (Platone, Leggi 803 b-c).
«L’uomo è un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado…» (Céline, Rigodon, trad. di G. Guglielmi, Einaudi 2007, p. 186).
Chiusi nelle loro angosce, gli umani arrancano giorno dopo giorno. Il sentiero è interrotto. Se ci si chiede dunque perché mai il suicidio non sia un’attività di massa, la risposta sta probabilmente nel βίος, nell’impulso dei corpimente a durare ancora.
«La grande défait, en tout, c’est d’oublier, et surtout ce qui vous a fait crever, et de crever sans comprendre jamais jusqu’à quel point les hommes sont vaches. Quand on sera au bord du trou faudra pas faire les malins nous autres, mais faudra pas oublier non plus, faudra raconter tout sans changer un mot, de ce qu’on a vu de plus vicieux chez les hommes et puis poser sa chique et puis descendre. Ça suffit comme boulot pour une vie tout entière.
(La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non ci bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera)»
(Céline, Voyage au but del la nuit, Gallimard 2018, p. 25; trad. di E. Ferrero, Corbaccio 1995, p. 33).

A volte mi vergogno di appartenere a questa specie, all’Homo sapiens, e vorrei piuttosto essere altra forma della materia. Una nuvola, ad esempio, che esiste e poi si scioglie restituendo alla terra dalla quale è venuta la dolcezza dell’acqua, la morbidezza della gratitudine.

Chisciotte

Spazio Teatro 89 – Milano – 5 settembre 2018
Musica sospesa
MI-TO Settembre Musica 2018

Georg Philipp Telemann
Concerto in la maggiore per flauto traversiere, violino, violoncello, archi e continuo TWV 53:A2
Concerto in sol maggiore per viola, archi e continuo TWV 51:G9
Suite in sol maggiore per archi e continuo TWV 55:G10 “Burlesque de Quixotte”

La Mole Armonica
Ensemble dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Fiorella Andriani, flauto traversiere
Lorenzo Brufatto, Antonio Bassi, Carola Zosi, Pietro Bernardin, Paolo Lambardi, Marcello Miramonti, violini
Agostino Mattioni, Davide Ortalli, viole
Fabio Storino, violoncello
Francesco Platoni, violone
Maurizio Fornero, cembalo

Uno dei musicisti più prolifici e geniali, che nella sua lunga vita (1681-1767) dal Barocco pervenne al Classicismo, fu amico fraterno di Bach e di Händel, spaziò tra i generi musicali più diversi.
Il concerto che Settembre Musica 2018 gli ha dedicato ha offerto un piccolo saggio dell’opera di Telemann, con due concerti per ensemble barocco e soprattutto con la Suite del Don Chisciotte.
Personaggio archetipo del primo romanzo europeo, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha può ben ripetere con Schopenhauer che il mondo è una mia rappresentazione. Locande che diventano castelli, greggi trasformate in eserciti, mulini a vento in giganti, concretissimi lestofanti in magici incantatori, la realtà intera in un sogno d’amore, d’onore, di luce.
Qualche decennio dopo Cervantes, Descartes parlerà di un ‘genio maligno’ che può trasformare l’illusione in realtà e l’inganno in mondo. Se nel Quijote e nelle Meditazioni metafisiche l’inquietudine del vero è risolta nella oggettività garantita da Dio e dalla ragione, la questione attraversa ogni giorno il mondo virtuale e finto nel quale siamo tutti immersi.
Chisciotte «era alquanto curioso e sempre lo assillava il desiderio di saper cose nuove» (Don Chisciotte della Mancha, trad. di Letizia Falzone, Garzanti 1979, p. 616), una volontà filosofica che lo conduce a comprendere la teatrale ironia del mondo e a farsene protagonista: «Ebbene lo stesso -disse Don Chisciotte- accade nella commedia e nella vita di questo mondo, dove alcuni fanno gli imperatori, altri i pontefici, insomma tutte quante le parti che possono introdursi in commedia; ma, arrivati alla fine, cioè quando la vita termina, la morte toglie a tutti le vesti che li differenziavano, e restano uguali nella tomba» (Ivi, pp. 530-531). Alla risposta di Sancho, che rileva come non siano nuove le parole che ha ascoltato dal suo signore ma siano piuttosto diffuse, così come il paragone degli umani con i pezzi degli scacchi -che «terminato il gioco si mescolano, si uniscono e si confondono tutti e vanno a finire in una borsa, che è come la vita che va  a finire nella sepoltura»- il Cavaliere osserva che il suo scudiero va «diventando meno sciocco e più saggio». L’ulteriore risposta di Sancho è sincera: «Certo, un po’ della saggezza della signoria vostra mi si deve pur attaccare» (Ivi, p. 531).
Si attacca anche a noi, lettori di quel capolavoro e ascoltatori della versione musicale che ne ha dato Telemann, dalla quale propongo il secondo movimento, Le Reveil de Quixotte, nella esecuzione della Elbipolis Barockorchester Hamburg.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2018/09/Telemann_Quixotte_II.mp3 ]

Cervellomente

Recensione a:
Piergiorgio 
Strata
La strana coppia
Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze

Carocci, 2014
Pagine 161
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 8 – Numero 2/2017
Pagine 207-208

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Il cervellomente è una struttura non digitale-computazionale ma analogico-semantica; non statica e data una volta per tutte ma dinamica e capace di continua rimodellazione sia tramite fattori interni sia per l’influsso dell’antroposfera e della infosfera nella quale ciascuno è immerso.
Le ipotesi oggi più probabili sullo statuto del cervellomente si pongono all’intersezione di neuroscienze e filosofia e comportano il necessario superamento sia del dualismo delle sostanze di marca cartesiana sia del monismo eliminativista (inteso a cancellare la mente) e consistono in ciò che si può definire o dualismo delle proprietà (Popper) o monismo emergentista (Sperry). La mente potrebbe dunque essere una proprietà del cervello, senza che la si possa identificare (o sostituire) con il cervello, come la gravità è una proprietà della materia, senza che la si possa identificare (o sostituire) con la materia.

Bergson

Henri Bergson
Storia della memoria e storia della metafisica
(Histoire des théories de la mémoire, 2001 – Lezioni al Collège de France del 1904)
A cura di Rocco Ronchi e Federico Leoni
Traduzione di Federico Leoni
Edizioni ETS, 2007
Pagine 149

Molteplice è per sua natura la metafisica perché molteplice è la realtà che essa cerca di descrivere. Metafisica  è stata ed è anche una rimozione dell’immanenza, del tempo, della durata, della differenza. Essa è stata ed è anche il perdente dualismo che a partire da Cartesio separa una struttura interiore e inestesa dalla materia oggettiva e corporea, separa il mondo delle certezze matematiche dall’inquieta mobilità della vita.
Ma questa è la metafisica cartesiana che sta al fondo della scienza moderna, non è l’intera metafisica.
Descartes ha infatti collocato nel mondo delle relazioni matematiche ciò che la metafisica greca poneva nel luogo della trascendenza. Tanto da produrre «una metafisica interamente nuova. Non c’è più bisogno di abbandonare il mondo delle cose sensibili per trovare il mondo della scienza, si può restare in quel mondo a condizione di considerare non più le cose, ma i rapporti, le relazioni. È questo il motivo per cui la scienza degli antichi trascende il mondo sensibile, assume il mondo sensibile solo in forma idealizzata, mentre la scienza moderna è immanente al mondo sensibile, ha per oggetto il mondo sensibile stesso» (p. 96).
La continuità e la coerenza tra l’interiorità che pensa e l’esteriorità che si muove nello spazio sono diventate un problema -di fatto insolubile se non con il ridurre l’una dimensione all’altra- soltanto a partire dalla ferita cartesiana all’intero. La quale produce molti effetti di finzione, come quelli che generano la pretesa di vedere la mente al lavoro. Le parole con le quali Bergson disvela questa finzione sono state e continuano a essere confermate dalle tecnologie di Brain imaging, la cui modalità di analisi e lettura delle attività cerebrali è in realtà soltanto indiretta e statistica. Era quindi vero un secolo fa ed è vero nel presente il fatto che «non abbiamo mai potuto vedere il cervello al lavoro, non abbiamo a tutt’oggi un’idea del meccanismo dell’azione cerebrale. Che il cervello sia al lavoro allorché noi abbiamo coscienza di un ricordo, è incontestabile; che il cervello giochi un qualche ruolo nell’operazione della memoria, è certo. […] Tutto questo è sicuro, ma di che natura è l’intervento del cervello che così viene indicato? In che cosa consiste? Che cosa accade, in altri termini, quando qualcuno di noi ricorda qualcosa? Non abbiamo fatto molti progressi, su questo punto, rispetto ai tempi di Descartes o di Aristotele. Non abbiamo alcuna idea, o abbiamo soltanto una vaga idea, di questo meccanismo cerebrale. Ci limitiamo, come sempre ci si è limitati, a formulare ipotesi» (105-106).

Paradossale, ma anche significativo di una perdita di coraggio della filosofia, è inoltre il fatto che gli scienziati sono in genere consapevoli delle modalità e dei limiti delle loro ricerche e delle metodologie sulle quali si fondano, gli scienziati «si rendono ben conto che si tratta di una prospettiva soltanto provvisoria», mentre un numero sempre troppo alto di filosofi «ritrovando il meccanicismo tradotto in termini scientifici, immaginano che si tratti di scienza pura e semplice, di dati tratti dall’osservazione, di dati empirici. In realtà non fanno che ritrovare, loro che sono dei metafisici, la metafisica stessa, rinviata ai loro occhi come attraverso uno specchio; uno specchio non sempre perfettamente fedele, uno specchio che talvolta deforma le teorie» (147). Anche questo accade oggi come accadeva nel 1904.

Le lezioni tenute da Bergson al Collège de France a inizio Novecento offrono dunque elementi metodologici e teoretici di grande rilevanza, come la consapevolezza che per tutti i Greci il σωμα è qualcosa di molto meno materiale e la ψυχή qualcosa di assai meno spirituale di quanto riteniamo noi oggi. Sta qui un elemento particolarmente originale e fecondo, capace di comprendere e mostrare che per Aristotele e Platone «la materia appare come il puro indeterminato, la pura negazione, ogni oggetto materiale è forma, forma cui si aggiunge qualcosa come una negazione, qualcosa che non comporta definizione, che si sottrae a qualsiasi definizione, che non ha alcun carattere logico o intellegibile; il che significa che ciò che vi è di essenziale negli oggetti, la loro essenza è qualcosa di immateriale. Ma a sua volta l’anima, dicevamo, è, in Aristotele, e negli antichi, qualcosa di meno puramente spirituale di quanto intendiamo noi moderni, dato che per loro l’anima è distinta dall’intelligenza, dato che per loro l’anima è entelechia del corpo organizzato, cioè formula delle funzioni del corpo, totalità delle funzioni che un corpo organizzato è in grado di compiere» (85).
Per i Greci il corpomente è appunto tale, non una struttura materica alla quale si aggiunge la coscienza a destarla -come fece Pigmalione con Galatea-, non un corpo e un’anima separati bensì un’unità articolata e complessa, costituita di materia protoplasmatica, consapevolezza che la materia ha di esserci, immersione di tale materia in un mondo fatto di relazioni, alterità, differenze.

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