Nella Grecia antica lo sport era una forma dell’essere e del credere. Dell’essere membri di una polis e della civiltà che le poleis unificava; del credere che il corpo, la sua potenza, è un dono che va restituito agli dèi anche mediante l’espressione della sua forza. Le ragioni delle Olimpiadi erano dunque politiche e cultuali. Ed erano una delle più sentite espressioni di quella competizione che permea di sé e in tante forme il mondo ellenico. Non si dà, qui, distinzione tra politica, culto, filosofia, poesia. Lo si vede con chiarezza in Pindaro e a Delfi, luogo nel quale i santuari votivi delle città stato, il grande tempio di Apollo, il teatro e lo stadio disegnano in estrema sintesi il senso che per i Greci ha la vita.
L’agone atletico è il momento nel quale lo splendore dei corpi può dare di sé la testimonianza più chiara e più potente, espressa anche dalla nudità, cosa del tutto naturale per i Greci e «addirittura uno dei principali elementi di distinzione tra il loro modo di vita e quello dei barbari», tanto da guardare «con stupore e con una certa sufficienza alla “strana” usanza altrui di coprirsi i genitali per fare sport, quando non ce ne era affatto bisogno» (F. Polacco, Grecia e Creta. Viaggio nella terra degli dèi, “Archeo collection”, n.1/2007, p. 108). E Platone, il tanto conosciuto ma incompreso Platone, in uno dei suoi ultimi e più importanti dialoghi scrive che vi è una sola e unica salvezza dalla malattia e dall’ignoranza, «non esercitare né la psyché senza il soma, né il soma senza la psyché, affinché, difendendosi reciprocamente, conservino insieme equilibrio e salute. Pertanto, chi si dedica alla scienza e al lavoro della mente deve anche esercitare i movimenti del corpo, praticando l’arte dei ginnasi (ghymnastiké). E allo stesso modo, chi pone estrema cura al soma deve anche farvi corrispondere i movimenti della psyché, praticando la cultura (mousiké) e l’intera filosofia, se vorrà essere chiamato uomo veramente bello e veramente buono (kalòs kai agathòs)» (Timeo, 88 b-c).