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«Una natura radiosa»

RUBENS e la nascita del Barocco
Milano – Palazzo Reale
A cura di Anna Lo Bianco
Sino al 26 febbraio 2017

Gli occhi scrutano da dentro il biondo dei capelli e il bianco incarnato della pelle. La testa di tre quarti s’allarga nella scura geometria del copricapo. Così ci guarda Rubens dal magnifico Autoritratto del 1623. Di quest’uomo, Jacob Burckhardt disse che fu un artista dalla «gigantesca fantasia» e «fu anche una natura radiosa», che dall’adesione all’etica stoica seppe trarre la saggezza dell’inevitabile e il riverbero della gioia.
Il suo Seneca morente è fatto di un corpo possente che abbandona con serena amarezza la vita. Quel Seneca che ritorna come nume nel busto che veglia sui Quattro filosofi, dei quali fa parte Giusto Lipsio, il più significativo esponente del neostoicismo. Rubens pensa che la terra del sapiente non sia questa o quella comunità ma la saggezza stessa, condivisa con chiunque se ne disseti. La sua azione di diplomatico presso le corti di Spagna e d’Inghilterra fu intessuta del suo amore per l’Europa, ritratta ne Le conseguenze della guerra come una donna in lutto e con le braccia alzate mentre Afrodite cerca inutilmente di fermare Ares. Un grido, un lutto, una lucidità meno note di Guernica ma altrettanto profonde a esprimere la tragedia dell’Europa devastata dalla Guerra dei Trent’AnniRubens_Los_horrores_de_la_guerra
Quella che è stata definita come la più grande novità in pittura dai tempi di Caravaggio si esprime nei corpi gloriosi che la riempiono. Gloriosi non nel senso paolino ma in quello greco. Sono infatti corpi ispirati a sculture classiche come il Torso del Belvedere, l’Ercole farnese, l’Afrodite al bagno del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Corpi intrisi di una carnalità piena, tesa, avvolgente e affascinante.
Rubens fa il contrario degli artisti e degli architetti che inglobarono i templi greci negli edifici cristiani (come si vede assai bene, ad esempio, nel Duomo di Siracusa). Rubens trasforma i santi cattolici in eroi e in divinità greche. Fa questo proprio perché è «una natura radiosa», la cui luce riempie ancora oggi lo spazio della pittura e si chiama Barocco.

Gli dèi a Sambuca

Sambuca sta su un’altura nel cuore riarso dell’Isola. Ha la forma di un’arpa. Risuona di palazzi nobiliari, chiese di ogni età, quartieri saraceni, teatri ottocenteschi, il Museo archeologico di Palazzo Panitteri che ospita le tracce degli dèi -Demetra in particolare-, i laghi e i feudi intorno. E sopra, in alto, la città punica di Monte Adranone, quel che ne rimane tra il vento, i boschi, il sole. Un luogo dal quale la vista spazia verso il mare, verso l’interno, verso il cielo.
Andando a sud la costa e la città di Sciacca. E poi lo splendore di Selinunte, la più occidentale delle colonie greche, una delle più potenti. Il tempio G non venne mai eretto, troppo esteso, troppo imponente. I massi e le colonne gettate nella terra dicono quanto grande fosse il sogno divino tra gli Elleni. Guardando queste pietre si vede l’essenziale, si scorge il Tempo, la sua perennità, il suo divenire.

Teogonia

Zeus è giustizia, armonia, luce. Prima di lui era il gorgogliare della terra -Gaia- dal Caos; era il Tartaro infinito, orribile, buio; era il cielo -Urano- il cui sangue «generò le Erinni potenti e i grandi Giganti / di armi splendenti, che lunghi dardi tengono in mano» (trad. di Graziano Arrighetti, vv. 185-186). Dalla spuma -ἀφρός- di Urano «una figlia  /nacque, e dapprima a Citera divina / giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti; / li approdò, la dea veneranda e bella, e attorno l’erba / sotto gli agili piedi nasceva; lei / Afrodite» (vv. 191-195).
Che la divinità della vendetta e la divinità dell’amore siano sorelle, che siano nate dallo stesso atto di violenza con il quale Urano venne castrato da Crono, è gesto poetico e teoretico di comprensione profonda di che cosa la vita sia, da dove essa sgorghi, quale sia il suo senso e il suo fine. Da Afrodite non poteva che nascere «Eros, il più bello fra gli immortali, / che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini / doma nel petto il cuore e il saggio consiglio» (vv. 120-122). Non soltanto gli umani ma ogni vivente e gli dèi sono dunque soggetti alla passione che vuole fare del diverso l’identico, che vuole assimilare a sé ogni alterità per nutrirsene e farsene felice.

Tutte le divinità sono modi, forme, espressioni di questa potenza del sangue, dello sperma, della passione che travolge il cuore e la mente di ognuno e di tutti. Divinità diverse, opposte, lontane ma che da tale potenza sono segnate per sempre: la «Notte oscura», con i suoi figli «Sonno e Morte, terribili dèi» (vv. 758-759); «le Moire, a cui grandissimo onore diede Zeus prudente, / Cloto, Lachesis e Atropo, le quali concedono / agli uomini mortali di avere il bene ed il male» (vv. 904-906); e soprattutto il dio nel quale la luce apollinea e le tenebre fonde trovano la loro sintesi potente e implacabile, «Dioniso, ricco di gioia (Διώνυσον πολυγηθέα)» (v. 941).
L’ordine imposto da Zeus al terribile e all’indicibile che stanno e permangono al fondo di ogni cosa e del mondo, è un ordine generatore di memoria, di bellezza e di canto. Le Muse -alle quali Esiodo consacra l’inizio splendente del poema- furono volute da Zeus affinché «fossero oblio dei mali e tregua alle cure» (v. 55). Guidato da esse, il poeta elenca sin dall’inizio i nomi degli dèi e attraverso e oltre loro canta «ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (v. 38), canta la potenza del tempo senza inizio né fine.
Gli umani in tutto questo sono degli epifenomeni, la cui gioia e dolore sono conseguenza dei conflitti tra i Numi, ai quali possono solo chiedere luce e che come loro sono parte dell’unica vicenda della φύσις e del sacro intrecciati; è per questo che -scrive con precisione Graziano Arrighetti- «la Teogonia costituisce la testimonianza di uno sforzo di rappresentazione unitaria e coerente del mondo fisico e di quello divino» (edizione Rizzoli, 2016, p. 33).

«Crono dai torti pensieri (Κρόνος ἀγκυλομήτης)» (v. 137) fa da snodo tra l’originario regno della violenza informe e confusa e il regno olimpio di ordine e luce. Nel mezzo c’è stato un conflitto descritto da Esiodo con termini e toni cosmici, inquietanti, tremendi: «I Titani, di contro, rinforzano le schiere, / risoluti, e mostrarono insieme l’opera e di mani e di forza, / gli uni e gli altri; e terribile intorno muggiva il mare infinito / e la terra molto rimbombava e gemeva il cielo ampio / scosso, e fin dal basso tremava il grande Olimpo / allo slancio degli immortali, e il tremore giungeva profondo / al tartaro oscuro, e dei piedi impetuosi il rimbombo / dell’indicibile battaglia e dei corpi violenti; / così dunque gli uni contro gli altri lanciavano dardi luttuosi, / e giungeva al cielo stellato il grido dalle due parti / che si incalzavano mentre si urtavano con grande tumulto. […] Bolliva la terra tutta, e i flutti d’Oceano, / e il mare infecondo. […] Un ardore prodigioso penetrava Caos, e pareva davanti / agli occhi vedersi e il suono ad udirsi agli orecchi / come quando Gaia e Urano ampio di sopra / si scontrano»…(vv. 676-703).
Murray sostiene che la Teogonia costituisse «l’accompagnamento e la spiegazione di un rituale di parata di due cerimonie che celebravano l’una la vittoria dei nuovi dèi su quelli antichi, l’altra la vittoria della luce sulle tenebre» (cfr. edizione Rizzoli, 2016, nota a p. 175). In ogni caso qui il divino è tra noi e noi siamo parte della natura che è sacra. Nessun’altra prospettiva avvicina così interamente gli uomini al dio.

Eschilo, i Greci, il desiderio

Eschilo mostra sin da subito la potenza con la quale i Greci seppero l’esistenza, provarono «i graffi dell’angoscia» (Persiani, v. 116; le traduzioni sono di Franco Ferrari), la forza senza posa senza tempo senza incertezze del Caso e della Necessità raggrumate nel divino, in Ate che «da principio seduce l’uomo / con amiche sembianze / ma poi lo trascina in reti / donde speranza non c’è / che mortale fugga e si salvi» (Ivi, 96-100), nella Erinni che sempre esige pagamento per le azioni compiute, per la ὕβρiς dei desideri, delle follie, dell’ignorare un fatto essenziale: «Creatura votata alla morte non deve pensare pensieri al di là della propria natura, ché Dismisura se appieno fiorisce fruttifica in spiga di rovina, donde miete messe di pianto» (Ivi, 819-822).
Le nostre vite sono intrise di «disgrazie» che «fanno parte della condizione umana» (Ivi, 708), tanto «iridescenti sono i guai» e «sempre cangiante tu vedrai l’ala del dolore» (Supplici, 328-329); sono intrise di morte individuale, di quel «battito che sospinge / il battito che senza requie per l’Acheronte / traghetta il disadorno corteo / trapunto di nero desolato di luce / non calcato da Apollo, / verso il paese oscuro che tutti accoglie» (Sette contro Tebe, 855-860); sono intrise di fine collettiva, quando -durante guerre, calamità naturali, dissoluzioni sociali- «terrore già esulta alle porte» (Ivi, 500). E tuttavia a questa lucida consapevolezza della condizione umana si accompagna sempre nei Greci un invito: «Pure in mezzo alle sventure date gioia al vostro cuore, giorno dopo giorno» (Persiani, 840-841).
Se gli Elleni «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (Ivi, 242), è perché la loro non è una libertà soltanto politica ma è una radicale libertà dalla consolazione, dall’illusione del momento che si tramuta in disperazione del sempre. Essi sanno la potenza, la liceità, la naturalità del desiderio che produce «la freccia di seducente sguardo» (Supplici, 1005) ma sanno anche che soltanto una entità non umana può evitare il dolore che ogni desiderio, anche realizzato, porta con sé. Sanno che soltanto παν απονον δαιμονιϖν, soltanto «ogni atto dei numi è senza pena» (Ivi, 110).
Tutto ciò emerge dalle vicende più diverse, quali sono quelle descritte in Persiani, Sette contro Tebe, Supplici. La distruzione della flotta persiana da parte dei Greci è dovuta alla ὕβρiς di Serse, dimentico della prudenza con la quale suo padre Dario aveva sempre rinunciato al tentativo di attraversare il Bosforo per sottomettere l’Europa all’Asia. Le disgrazie mortali di Eteocle, Polinice, Antigone costituiscono la conseguenza dell’arroganza di Laio, al quale Apollo aveva proibito di avere stirpe e che invece generò Edipo e con lui la propria fine. Quella dei figli di Egizio -decisi a prendere le cugine Danaidi anche contro la loro volontà- è la ἀνδρών ὕβριν (Ivi, 528), la dismisura del maschio che non sa fare dell’Eros qualcosa di diverso rispetto all’accoppiamento che genera altri umani, altro dolore.

Le Muse, il Tempo

Al guinzaglio del Tempo
di Vincenzo Crapio
Carthago, 2016
Pagine 85

Con che cosa gli umani lottano istante dopo istante? Con se stessi. Con il tempo che sono. Credono infatti di avere tempo e di consumarne una qualche quantità prestabilita. E invece tempo essi sono ‘ganz und gar, und Nichts ausserdem’ (Nietzsche), in tutto e per tutto, e nulla d’altro. Le Muse sono figlie di Μνημοσύνη e dunque parenti strette del Tempo. Esse hanno ispirato Vincenzo Crapio, è evidente. Gli hanno dettato un luccicare di «effimere faville» (Stella, p. 22), un esistere in «grumi di frammenti» (Il Tempo III, 31), uno stare «al guinzaglio del Tempo», che è densa metafora dal sapore proustiano: «Il Tempo, nostra creatura ma pure nostro tiranno, ci porta al suo guinzaglio, che è (o forse sembra) lento e lungo fin quando siamo giovani,  che poi diventa sempre più corto, teso e soffocante; sicché col passare degli anni, lui ci è sempre di più vicino e lo avvertiamo sempre più distintamente» (Nota dell’autore, 15).
crapio_al_guinzaglioUn antropocentrismo forse inevitabile sembra fare del Tempo un nemico irriducibile, inscalfibile e vincente e che però per esistere avrebbe bisogno di « esseri che hanno coscienza della durata» (Ibidem), fino ad attribuirgli un’ignoranza talmente ingenua da non sapere «che anche per lui verrà la morte / quando non ci sarà chi lo scongiuri» (Il Tempo II, 28). Così non è, naturalmente. E il poeta lo ammette quando dal Tempo si sente accudito (Deriva) e soprattutto quando riconosce che il Tempo è tutto, che esso porta «al laccio l’anima del mondo» (25), che nulla può fermare la sua essenza -«Dopo l’ultima morte, una mattina, / il Tempo avrà finito il lungo eccidio / e dentro il nulla bruto e ammutolito / un dio potrà soffiare nuovo idrogeno» (Big-Bang, 67)-, che esso scova tutti fin nei «più cupi rifugi» per riattaccare ogni cosa che esiste «alla catena / di attimi incolonnati e senza indugi» (La caccia, 57).
Ispirato dalle Muse, Crapio elabora un autentico canto, versi che sono musica non solo nella forma del sonetto ma anche in strutture più informali, nell’intimo riscontro delle sillabe. Un canto che finalmente lo concilia con quanto è accaduto e che accadrà. Nel Saluto finale gli sembra infatti non essere più un imbroglio «anche il niente che dura la rosa / o il sommesso parlarne in un foglio» (76).
Intima e interna musicalità che splende in Astanti dove vince ancora Ἀνάγκη, dove il Tempo è l’altro nome della Necessità: «Del tutto indifferente alle sue pene, / ai suoi contorcimenti d’agonia, / la rosa sovrastava la lucertola / il giardiniere la rosa che sfioriva / il cielo sempiterno il giardiniere. / Di tutti gli altri astanti, / ognuno a quel livello imprecisabile / che il Tempo concedeva al suo destino, / giustamente nessuno interveniva» (55). Giustamente. Δίκη.

Iliade

Le passioni che conducono gli Achei nella piana di Troia, a vendicare l’offesa recata da un figlio di Priamo a Menelao sovrano, saranno «anche in futuro, / per la gente di là da venire, materia di canto» (Iliade, trad. di Giovanni Cerri, VI, 358).

Che cosa narra tale canto? Narra degli umani che sono incapaci «di vedere insieme il prima e il dopo» (II, 343) mentre sapienza e saggezza consistono anche nel sapere «le cose che furono, sono e saranno (I, 70). Gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce (VI, 147-149). Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466). Ciò accade perché «gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, / vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni» (XXIV, 525-526). E dunque «non c’è niente di più miserevole di tutti gli uomini fra tutti gli esseri / quanti respirano e arrancano sulla faccia della terra» (XVII, 446-447).
Di tale condizione affannata, effimera e miserabile, l’Iliade mostra forme, ragioni e struttura. Esse si condensano nel  πόλεμος, nel conflitto che -afferma Eraclito- è padre di tutte le cose, di tutte è signore (fr. 53). La guerra intride qui tutto. È uno dei due archetipi che fondano la letteratura europea, l’altro è il viaggio, è l’Odissea.

La guerra. Rovinosa (κακοιο, II, 284). Terribile (κακόν, XIII, 225). Che fa ribollire il fiume Xanto «di spuma, di sangue e di morti» (XXI, 325), che eleva al cielo e ovunque «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (IV, 450-451 e VIII, 64-65). In questo poema i guerrieri muoiono a frotte, con estrema facilità, in poco tempo colpiti e annientati da chi è più abile di loro, vale a dire da coloro la cui mano è guidata dalla volontà di qualche dio. Guerrieri che non vorrebbero morire, che arrivano a temere la fine sino a fuggire, mandando in malora onori e obiettivi, «a tutti un tremore prese le membra, / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (XIV, 506-507). Morire, infatti, vuol dire andare nell’Ade, «dimora umida, spaventosa, di cui pure gli dei hanno orrore» (XX, 65)
Guerrieri la cui psyche facilmente li abbandona, uscendo dalle ferite aperte dal bronzo, lasciando soltanto una tenebra. Perché qui psyche non vuol dire per nulla anima o qualcosa di simile ma significa, semplicemente, la vita, l’indistinta unità del corpomente che esiste nello spazio e nel tempo. Guerrieri che piangono spesso, con voluttà, senza alcuna vergogna, come accade anche nel conclusivo dialogo tra Priamo e Achille: «Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore / piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, / mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa» (XXIV, 509-512). Un pianto che tutti accomuna e dopo il quale l’uccisore del figlio e il padre dell’ucciso gustano infine «il piacere di guardarsi l’un l’altro» (XXIV, 633).
Il conflitto è ovunque. Non soltanto tra nemici di stirpe e di terre ma anche all’interno delle stesse comunità, famiglie, tribù. Il risentimento e l’ira di Achille verso Agamennone sono ben noti. Meno lo è quanto Ettore dice a proposito del fratello Alessandro Paride, fonte per Ilio di tante sciagure: «Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore» (VI, 284-285). Odio e vendetta sono per queste culture realtà del tutto ovvie e naturali. E questo vale per l’intera Grecità, da Omero ad Aristotele, secondo il quale «vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi» (Retorica A, 9, 1367 a, 20).

Nell’Iliade la ferocia è continua. Non è davvero possibile definire i Greci ‘umanisti’ quando qui si descrivono come del tutto comuni i sacrifici umani -Achille sgozza sulla tomba di Patroclo dodici ragazzini troiani fatti da lui prigionieri a tale scopo: «Con me rallegrati, Patroclo, sia pure in casa di Ade: / perché manterrò tutto quello che poco fa t’ho promesso, / di trascinare Ettore qui e darlo crudo in pasto ai cani, / di sgozzare davanti al tuo rogo dodici figli scelti / dei Troiani, perché sono adirato che t’abbiano ucciso» (XXIII, 19-23)-, quando non c’è nessun rispetto per il cadavere di Ettore, che non soltanto viene trascinato ogni giorno da Achille nella polvere ma che gli altri guerrieri colpiscono ridendo -«eppure nessuno s’accostò senza colpirlo. / E così ciascuno diceva rivolto al vicino: ‘Ehilà, adesso a toccarlo è molto più morbido Ettore, di quando applicava alle navi il fuoco vorace!’» (XXII, 371-374; 1133), Ettore che da parte sua vorrebbe di Patroclo ucciso «issarne / la testa mozzata dal tenero collo sulla punta d’un palo» (XVIII, 176-177).

Non si può comprendere nulla di questo mondo distante e disumano se non si ricorda a ogni istante che tutti i personaggi dell’Iliade sono in mano al volere degli dèi. Tutti. La presenza e il potere dei Numi sono pervasivi e assoluti. A loro vengono ascritti meriti, colpe, esiti. Della sua ingiustizia verso Achille Agamennone afferma di non essere colpevole, poiché i responsabili sono «Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nel buio» (XIX, 87). Presaghi della fine del loro padrone, i cavalli di Achille dicono al loro signore che «certo, ti salveremo anche stavolta, Achille potente / ma t’è vicino il giorno fatale; e non siamo noi / i colpevoli, ma un grande dio e la Moira invincibile» (XIX, 408-410).
Moira ed Erinni, θάνατος καί μοῖρα κραταιή (XXIV, 132), ‘la morte e il duro destino’, sono i veri signori del poema. Più di Zeus, più di tutti gli altri immortali. Più di «Afrodite che ama il sorriso» (III, 424 e XXI, 40). Più di «Dioniso, gioia dei mortali» (XIV, 325). Più di tutti «gli dei che vivono lieti» (θεοί ῥεῖα ζῶοντες, VI, 138), «gli dei beati che vivono eterni» (θεοί ἀιεν ἐοντες, XXIV, 99). Signore della materia, della psyche e del mondo sono la Moira e «l’Erinni che vaga nel buio / […]  col suo cuore spietato» (IX, 571-572).

Chi combatte, domina e trionfa nella pianura sconfinata di Ilio? I guerrieri troiani e gli achei certo. Ma «erano in campo con loro la Furia, il Tumulto, la Morte funesta» (XVIII, 535).

Le macchine e gli dèi

Dioniso_Centrale_MontemartiniL’immenso patrimonio della Roma pagana richiede spazi su spazi, luoghi su luoghi per essere accolto, visto, goduto. Uno di tali spazi è la Centrale elettrica Montemartini, edificata nel 1912, nella quale la suggestione dell’archeologia industriale esalta la potenza di un passato antico ma pieno di vita. Stile liberty e marmi romani si mescolano in un’armonia fatta di pietre, fatta di acciaio.
Le statue provengono da siti molto diversi, dal Campidoglio, dagli Horti, da case private e da edifici pubblici. In ciascuna di queste icone dense di materia parla un mondo consapevole, coraggioso, lucido, violento a volte ma sempre misurato.
Che si tratti di umani o di dèi, di imperatori o di eroi, di guerrieri o di madri, questo mondo è intessuto della malinconica consapevolezza della morte e della gaudiosa disponibilità al piacere. Il piacere della bellezza, il piacere del cibo, il piacere dell’eros, il piacere della vita come scoperta, della natura che vince.
In questi ambienti novecenteschi, tra le imponenti strutture tecnologiche di una centrale a carbone, le antiche statue dimostrano la loro capacità di parlare al di là dello spazio e del tempo che le vide nascere, rivelano la loro capacità di essere eterne. E i motori, le turbine, i pistoni mostrano di poter essere anch’essi forma della bellezza se lo sguardo che li coglie è capace di armonia e di cura.
Seduto in cucina, Eraclito una volta disse «anche qui  vi sono dèi». Sì, anche qui.

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