Skip to content


Ibla

La dea Iblea era feconda, una delle grandi Madri che costellano il mito umano alle sue origini. Il terremoto del 1693 costrinse i ragusani a ricostruire la loro città in un luogo diverso e un poco più alto. Separatosi dalla nuova città, l’antico centro vittima del sisma fu chiamato Ragusa inferiore. L’ambiguità dell’aggettivo nella nostra lingua indusse i suoi abitanti a cercare una denominazione più consona alla bellezza di quel luogo. La Madre antica venne in soccorso e Ragusa diventò Ibla.
La topografia a forma di pesce raccoglie intorno a sé il vuoto dei burroni dentro i quali nuota, mentre la coda si spinge verso il nuovo centro. Percorsi gli scalini che dall’anonimato di Ragusa -riscattato da alcune suggestive strade dritte e a perpendicolo tra loro– conducono a Ibla, si apre uno scrigno barocco, fatto di chiese che vorrebbero diventare templi, di conventi, di lastricati che splendono al Sole, di un giardino che percorre l’antica strada verso Giarratana, di circoli di conversazione, di angoli fiocamente illuminati, di resti di edifici medioevali, di squarci stupefatti nel tessuto urbano, di silenzio.
Dentro questo spazio abita anche un teatro che ha nome Donnafugata. Un teatro piccolo, privato, ma di nulla mancante, come si vede dall’immagine che ho avuto la fortuna di scattare. Mentre gli attori e le note scandiscono lo spazio ellittico della finzione, altre verità emergono nelle strade, sotto i balconi dei palazzi fieri. Si chiamano cagnoli e sono i mascheroni che reggono quei balconi dai quali ogni tanto si affaccia una bellezza femminile che sembra venuta da altri amori. Reggono quella bellezza secolare perché sono pietra duttile alla mano, fragile ai venti ma resistente al desiderio. I balconi fatti di cemento crollano invece dopo pochi decenni dalla loro triste nascita seriale.
Alcuni luoghi di questo pianeta vivo e doloroso rimarranno quando dentro i resti delle civiltà umane le foreste, i deserti, le lucertole, gli uccelli avranno riacquistato il loro legittimo diritto alla potenza.
Uno di questi luoghi sarà Ibla, il suo cielo, le sue pietre, la sua luce.

Dioniso e il suo mondo

Mentre accediamo a una piazza di Monaco di Baviera immaginiamo per un poco di non trovarci nella Germania del XXI secolo. Attraverseremo i Propilei e vedremo davanti a noi due grandi edifici, due templi. Neoclassici, certo, ma costruiti nella misura e con le proporzioni che hanno reso immortale l’architettura degli Elleni. L’edificio alla nostra destra ospita le Staatliche Antikensammlungen, le collezioni archeologiche pubbliche di München.

Gioielli, anelli, gemme, corone. L’oro, il bronzo e l’argento. Anfore e contenitori in vetro. Una ricca sezione  con centinaia di piccole statue di argomento sacro e quotidiano. E poi elmi, corazze, strumenti di guerra. Nella Goldkranz von Armento, (Corona d’oro di Armento, IV sec. aev) riluce in alto Nike, la vittoria. 

Dall’arte protogeometrica all’ellenismo si raccoglie qui lo splendore della ceramica greca.

Al suo centro abita la Coppa Exikias (immagine di apertura), un oggetto che racconta in breve spazio la vicenda di Dioniso rapito dai pirati e che allo loro richiesta di riscatto sorride, li trasforma in delfini, fa nascere dall’albero maestro della nave la vite. Una coppa perfetta nei colori, nelle forme, nei simboli, nel movimento, nel ritmo, nella stasi, nel sempre. Dioniso vive, in una calma profonda, nel silenzio del tempo che è suo.

 

Il dio è circondato da altri miti, altre storie: le sue baccanti, come la Mänaden Schale des Brygos-Malers, una ciotola del pittore di Brygos (490) nella quale il bianco puro dello sfondo e degli abiti della Menade rendono gioiosa la cattura, la violenza, l’altrove dal quale questa potenza proviene.

E poi Pentesilea –alleata dei Troiani-, l’improvviso amore che sboccia tra lei e Achille proprio mentre l’amazzone muore per mano del guerriero acheo; amore e morte coniugati senza sentimentalismi e insieme con qualcosa di struggente come soltanto una fine che è inizio può essere.
Le Lekythoi mit weißem Untergrund  (Lekytoi con sfondo bianco; qui sotto) esprimono l’eleganza morbida e discreta dello spazio e delle figure verticali.
La sezione del Museo dedicata agli Etruschi fa entrare nel loro mondo, fatto della consapevolezza di essere già oltre la vita e per questo ancor più dentro la sua sostanza, che è il passare, il finire, il tempo.

Determinismo

Ἡρακλῆς μαινόμενος -Eracle furioso, Eracle impazzito– è il titolo completo di una tragedia di Euripide. C’è sempre infatti un dio che non tollera il trionfo di un umano, qualunque ne sia la ragione. O intrinseca: Eracle è figlio di uno dei tanti amori umani di Zeus ed Era non lo sopporta; o data da eventi che scatenano l’invidia: Eracle riesce a tornare dall’Ade e a salvare i figli e la moglie da morte imminente e sicura. Quei figli e quella sposa ai quali, impazzito, sarà lui stesso a dare la morte dalla quale li aveva salvati.
Un’inemendabile violenza percorre la vicenda di Eracle dalla sua nascita e ancor prima. Una violenza che si esprime come giusta vendetta poiché, lo afferma più volte Anfitrione, «un gusto c’è nella morte d’un uomo nemico che paga il fio delle colpe commesse»1 ed è naturale «τοῖς φίλοις τ᾽ εἶναι φίλον  / τά τ᾽ ἐχθρὰ μισεῖν: ἀλλὰ μὴ ‘πείγου λίαν», «essere amico ai cari e odiare i tuoi nemici» (vv. 585-586, p. 827). In questa naturalità della vendetta, i Greci erano tuttavia assai più etici di noi, dei moderni. Teseo dà infatti per scontato che «i ragazzi non sono mai coinvolti da una guerra: è chiaro che si tratta di ben altro» (847). Nelle guerre del Novecento e del XXI secolo, invece, i bambini sono coinvolti totalmente. Chi è più crudele? Noi o loro?
Eracle è il più grande degli eroi, le sue imprese vanno al di là dell’umano e del possibile. E tuttavia viene annientato come uno qualsiasi dei figli dell’uomo, viene colpito negli affetti più fondi, nell’onore, nella saggezza. In quale altro modo mai i Greci potevano esprimere la loro sapienza? Che si tratti dell’intervento di un dio, di τύχη-Caso o di Ἀνάγκη-Necessità, l’esito è l’Inevitabile che sta scritto nei gangli stessi della materia, nelle cellule della vita, nell’intrico degli eventi in cui «ἐξίσταται γὰρ πάντ᾽ ἀπ᾽ ἀλλήλων δίχα», «tutto si muta con vicenda alterna» (v. 104, p. 813), nel divenire, nel tempo. Il determinismo è, semplicemente, la verità del mondo. Anche chi lo nega fa parte di tale necessità. È questa la convinzione dei due filosofi più greci che dopo i Greci ci siano stati: Spinoza e Nietzsche.
Eracle è il testo dove necessità e determinismo sconfiggono ogni umano e ogni divino andare. Nessuno vi si oppone poiché nessuno si può opporre: «ὃ χρὴ γὰρ οὐδεὶς μὴ χρεὼν θήσει ποτέ», «nessun uomo potrà mai fare in modo che ciò che deve non debba accadere» (v. 311, p. 818); «non c’è nessuno che sfugga alla sorte, non un mortale, non un dio, se è vero quanto si legge nei poeti» (852). La prima affermazione è di Megara -sposa di Eracle–, la seconda è di Teseo, il suo più che fraterno amico. Tradotto in siciliano: «A ccu è distinato di  moriri o scuru, ammatula cci menti l’ogghiu lantirnatu».
Pagina magnifica di questo capolavoro è il racconto dettagliato, accorato, terribile e inevitabile che il Nunzio formula della follia di Eracle e dei suoi effetti (vv. 922-1015, pp. 839-841). Una descrizione perfetta nella varietà dei toni,  nella sintesi, nella concitazione, nella distanza e nel moto. Una descrizione degli eventi che conducono Eracle a esclamare, ormai distrutto, «φεῦ: / αὐτοῦ γενοίμην πέτρος ἀμνήμων κακῶν», «Ah! Diventare un sasso…smemorare!» (v. 1397; p. 854). Come di tanto in tanto dico ai miei studenti, un sasso è entità più consona di qualunque vivente, un sasso è libero da ogni immaginabile soffrire. È dai Greci che ho imparato anche questa sapienza.

1. Euripide, Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 832. La tragedia fu messa in scena nel 2018 da Emma Dante al Teatro greco di Siracusa.

Una festa selvaggia

Una festa selvaggia è quella dei due fratelli, Elettra e Oreste, che per decreto di Apollo scannano la madre Clitennestra e il nuovo marito di lei, Egisto, a vendicare l’assassinio del padre Agamennone, vittima della madre e dell’uomo.
Festa di passione, perché l’amore di Clitennestra verso la figlia Ifigenia, l’odio verso il marito, l’attrazione per  un uomo bello come Egisto, costano alla donna la lucida e cupa affermazione di Oreste: «Creasti in noi chi t’ammazzò»1.
Festa di vendetta, perché, sostiene Elettra, «altrimenti dovremmo credere che gli dèi più non esistano, se sul giusto prevale l’ingiustizia» (628); e per dare sicurezza al compimento dell’omicidio aggiunge che «sarà un’inezia mutarla nell’Ade» (631), sarà facile trasformare la fosca luce della madre nella tenebra che tutti ci accoglie; sarà facile persino destinare allo scempio il cadavere di Egisto che Oreste invita ad abbandonare «alla rapina delle fiere, se vuoi, lascialo preda degli uccelli figli dell’aria, appendilo ad un palo conficcandolo in cima: adesso è tuo schiavo, lui ch’era prima il tuo padrone» (638).
Festa di Ἀνάγκη, che involve l’intero, che intride anche gli errori degli dèi – «μοῖρά τ᾽ἀνάγκης ἦγ᾽ ἐς τὸ χρεών, / Φοίβου τ᾽ἄσοφοι γλώσσης ἐνοπαί», ‘La tua sorte decise la Necessità / e il decreto di Febo, che saggio non fu’ (vv. 1300-1301; p. 652)–, festa della Μοίρα che può distruggere individui e intere stirpi -«Non c’è casa più misera, né ci fu mai, di questa dei Tantalidi» (648)– ma può dare loro anche gioia: «Una volta compiuto il tuo destino, che ti volle omicida, liberato da tutti questi guai, sarai felice» (652).
Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna; tra questa potenza selvaggia dell’inevitabile e la compassione universale verso gli umani; tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che sostiene il valore sacro di ogni umano.
Sacra hanno la presunzione di definire i moderni la macchina pneumatica che ingerisce ossigeno e cibo e li espelle sotto forma di escrementi e parole. Sacro chiamano ciascuno degli innumerevoli, miliardi e miliardi, di umani che nel corso degli evi sono stati e continuano a essere concepiti nell’umido dello sperma e dell’uovo, che dureranno un poco e torneranno poi alla materia comune dalla quale la casualità genetica li ha tratti. Sacro osano definire ogni feto e ogni neonato, «quest’ometto cieco, dell’età di qualche giorno, che volge la testa da tutte le parti cercando non si sa cosa, questo cranio nudo, questa calvizie originaria, questa scimmia infima che ha soggiornato per mesi in una latrina e che fra poco dimenticando le sue origini, sputerà sulle galassie»2. Sacro è per loro il mammifero di grossa taglia, feroce con i propri simili e distruttivo dell’ambiente che gli dà vita e risorse.
Questa festa antropocentrica è abbastanza trascurabile da lasciarla alla sua insignificanza, al suo inevitabile suicidio. Sacra è piuttosto la materia infinita, potente ed eterna, che non conosce il bene e non sa che cosa sia il male, che è fatta di luce e di buio, di densità e di vuoto. La materia è la festa del cosmo, la sua indistruttibile pace.

Note
1. Euripide, Elettra (Ἠλέκτρα), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 650.
2. Emil Cioran, Squartamento (Écartèlement, 1979), Adelphi 1981, p. 106.

Pausania / L’Attica

Vissuto nel II secolo e.v., viaggiatore attento e narratore insieme sobrio e fascinoso, ammiratore del filellenico imperatore Adriano, odiato dai cristiani in quanto «autore particolarmente interessato alla storia dei culti e dei luoghi di culto pagani» (Introduzione a Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, a cura di Domenico Musti e Luigi Beschi, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore  2013, p. LXVI; citerò il testo di Pausania indicando il numero dei libro, quello dei paragrafi e il numero di pagina della traduzione italiana), Pausania compose la sua descrizione di Atene e dell’Attica tra il 135 e il 150. I luoghi vengono percorsi quasi palmo a palmo, i monumenti descritti nel loro contesto e nella loro genesi, santuari e templi sono posti al centro della vita, ammirati gli eroi, compianta ma accettata la finitudine degli umani e di ogni cosa, individuati ovunque -davvero ovunque- gli dèi.
Per gli umani, infatti, «non c’è verso di evitare quanto il dio gli ha assegnato in sorte» (5, 35-36, p. 33) e anche «quelli che i Greci chiamano ‘valorosi’ non sono nulla senza la Fortuna», senza τύχη, che è anch’essa una divinità (29, 96-97, p. 163).
Dappertutto gli umani sono immersi nelle passioni della guerra e dell’amore. Tra tutte le vittorie degli Ateniesi, nessuna fu da loro rivendicata come quella di Maratona (14, 47, p. 79), con la quale la Grecità si oppose ai barbari. I quali però tornarono nelle vesti dei Macedoni, per quanto anch’essi Greci. Ostile a Filippo e a suo figlio Alessandro, Pausania sostiene che «il disastro di Cheronea fu all’origine delle sventure di tutti i Greci, soprattutto rese schiavi gli indifferenti e quanti si schierarono dalla parte dei Macedoni» (25, 21-22, p. 131). Ma la guerra in Grecia -e ovunque- è anche un fenomeno interno alle comunità politiche, alle città. Omicidi, complotti, aggressioni costellano la narrazione, come il caso di Efialte (495-461 a.e.v.), democratico radicale e per questo vittima designata dei poteri oligarchici (29, 140, p. 165).
L’altro nome della guerra è l’amore. Gli umani, infatti, «sono soliti incorrere in molte sventure a causa delle passioni d’amore» (10, 25-26, p. 55). Lo conferma la natura cosmica di Afrodite Urania, che in realtà «è la primogenita delle cosiddette Moire» (10, 17-18, p. 99), le divinità implacabili, le potenze prime e ultime che sovrastano il capo di Zeus insieme alle Ore, insieme al Tempo (40, 42-43, p. 215). La potenza di Afrodite si mostra in molte forme, situazioni, eventi, espressioni. C’è un’Afrodite che avvicina -Epistrofia- e c’è un’Afrodite che allontana -Apostrofia- (40, 61, p. 217). C’è Ἔρως e c’è ᾿Αντέρως, il dio vendicatore dell’amore non corrisposto (30, 1, p. 167).

Le Moire, Afrodite, Eros, Anteros, Nemesi, sono implacabili come irremovibile è il grande dio potenza della terra: Dioniso. Un dipinto che si trovava nel più antico santuario del dio ad Atene mostrava «Penteo e Licurgo, che pagano il fio delle offese arrecate a Dioniso; Arianna che dorme; Teseo che salpa e Dioniso che viene a rapire Arianna» (20, 30-33, p. 103).
La divinità pervasiva di questo primo libro della Periegesi è naturalmente la dea eponima, Atena, alla quale è consacrata l’intera città e tutto il suo territorio (26, 52-53, p. 139). Tra la miriade di luoghi, edifici, templi e monumenti illustrati da Pausania, fondamentale per l’identità dell’Europa è uno che si trova «non lontano dall’Academia […] la tomba di Platone, a cui la divinità preannunciò che sarebbe stato il più grande fra i filosofi» (30, 24-25, p. 169).

La peculiarità dello sguardo di Pausania consiste anche nel fatto che qualunque sia lo specifico spazio che descrive, è capace di inserirlo in un tessuto geografico, storico, mitologico di universale significato. Un’intenzione e una vastità della quale lo scrittore è del tutto consapevole: «Intendo toccare in ugual misura tutti gli aspetti del mondo greco» (26, 34, p. 139)
Al di là di Atene, Pausania presenta Capo Sunio, le isole a esso vicine, le altre più lontane -Egina e Salamina-, le montagne della Megaride, la città di Megara, Eleusi e i misteri ai quali egli stesso era iniziato e sui quali è dunque massima la discrezione, altri santuari, villaggi, luoghi dove esiste o è accaduto qualcosa di significativo, tanto più se poco conosciuto rispetto a quanto hanno già narrato Erodoto e Tucidide. Ma un luogo che è e rimane centrale è Maratona. Non soltanto, come accennato, questo fu per Atene e per i Greci l’evento chiave ma «a Maratona è dato di sentire ogni notte nitrire cavalli e uomini combattere» (32, 29-31, p. 175).
Si ricordò di queste parole Foscolo quando scrisse -in alcuni versi assai densi dei Sepolcri– che Atene «sacrò tombe a’ suoi prodi» a Maratona, pianura nella quale «il navigante / che veleggiò quel mar sotto l’Eubea, / vedea per l’ampia oscurità scintille / balenar d’elmi e di cozzanti brandi, / fumar le pire igneo vapor, corrusche / d’armi ferree vedea larve guerriere / cercar la pugna; e all’orror de’ notturni / silenzi si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto e un suon di tube / e un incalzar di cavalli accorrenti / scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, / e pianto, ed inni, e delle Parche il canto» (vv. 202-214) .
E delle Parche il canto. Infinito, silenzioso, inesorabile. Anche di questo trionfo della Necessità e dei suoi dèi è pervaso il viaggio di Pausania. Ecco perché «qui c’è anche una statua di Afrodite, una di Apollo e una di Pan» (44, 96-97, p. 243). Qui. Ovunque.

Per sempre

Teatro Greco – Siracusa
Troiane
(Τρώαδες)
di Euripide
Traduzione di Alessandro Grilli
Con: Maddalena Crippa (Ecuba), Marial Bajma Riva (Cassandra), Elena Arvigo (Andromaca), Viola Graziosi (Elena), Paolo Rossi (Taltibio), Graziano Piazza (Menelao), Francesca Ciocchetti (Atena), Massimo Cimaglia (Poseidone), Riccardo Scalia (Astianatte), Clara Galante (Corifea), Elena Polic Greco (capocoro), Fiammetta Poidomani (chitarrista)
Regia di Muriel Mayette-Holtz
Sino al 23 giugno 2019

Atena e Poseidone osservano i vinti e i vincitori. E stabiliscono di portare a compimento la fine di Troia ma di dare anche amaro ritorno agli Achei. Nessun amore per gli umani in questi dèi. E basta esistere e vedere il mondo per comprendere che nessun amore proviene dal divino. Ecuba lo sa, ora che la città, la casa, i figli, persino il nipote Astianatte vanno morendo e sono alla rovina. Ecuba sa e dice che «di quelli che sono fortunati non stimate felice nessuno mai, prima che muoia» (le traduzioni, tranne una, sono di Filippo Maria Pontani). La fortuna, il caso, gli dèi danzano infatti sulle vite individuali e sulla storia miserrima della specie che si crede grande e per la quale meglio sarebbe stato invece non venire al mondo. «Io dico», afferma Andromaca, «che non nascere equivale a morire. Ma d’una vita triste è meglio morte. Sofferenza non c’è per chi non sente il male».
Il male della storia e il male dell’individuo. Quello della storia perché «folle è il mortale che distrugge le città. Getta nello squallore templi e tombe, sacro asilo d’estinti; ma poi finisce per perire lui», afferma Poseidone; il male dell’individuo immerso in passioni antiche, nuove, pervadenti. Nell’uno e nell’altro caso i Greci appaiono in questa tragedia feroci e disumani, sino ad accettare il consiglio dell’implacabile Odisseo di togliere la vita ad Astianatte affinché il figlio di Ettore non abbia, crescendo, a vendicarsi. Il bambino viene gettato giù dalle mura della città in fiamme.
Prorompe dentro la distruzione Cassandra. Lucida e invasata, lucida perché invasata, sa che ad Agamennone che se l’è presa come concubina lei porterà ogni sciagura, vede «la lotta matricida che le mie nozze desteranno, e lo sterminio della famiglia d’Atreo», esulta sapendo che «vittoriosa giù fra i morti arriverò: / che la casa dei carnefici, degli Atridi, spianterò». Il momento nel quale irrompe Cassandra sulla scena, con la sua torcia con il suo canto, il momento nel quale appare questa potenza struggente, luminosa e dionisiaca, è il più alto della messa in scena, l’unico nel quale appaiano in essa i Greci. Per il resto, infatti, è uno spettacolo sobrio sino alla piattezza; con un Paolo Rossi del tutto fuori ruolo, che interpreta il personaggio chiave di Taltibio come se recitasse in un cabaret milanese; e soprattutto con i cori di Euripide cancellati e sostituiti da canzonette leggere e sentimentali, accompagnate da una chitarra. Si può e si deve interpretare un testo greco come si ritiene più consono ma non lo si può sostituire -o, peggio, ‘sintetizzare’–  con testi melensi. 

Nietzsche aveva ancora una volta ragione, anche se forse non per le ragioni che credeva: davanti al male della storia, davanti al male che è il respiro, Euripide enuncia il disincanto che alla tragedia greca pone fine. Il poeta fa pronunciare infatti a Ecuba una preghiera che trascolora i nomi degli dèi, persino quello di Zeus, nella forza senza fine e senza senso della materia agra: «ὦ γῆς ὄχημα κἀπὶ γῆς ἔχων ἕδραν, / ὅστις ποτ᾽ εἶ σύ, δυστόπαστος εἰδέναι, / Ζεύς, εἴτ᾽ ἀνάγκη φύσεος εἴτε νοῦς βροτῶν, / προσηυξάμην σε: πάντα γὰρ δι᾽ ἀψόφου / βαίνων κελεύθου κατὰ δίκην τὰ θνήτ᾽ ἄγεις», ‘Tu che sostieni il mondo e che nel mondo hai dimora, chiunque tu sia, Zeus, inconcepibile enigma, che tu sia necessità della natura o pensiero degli uomini, io ti prego: tutte le cose mortali le governi secondo giustizia, procedendo in silenzio lungo il tuo percorso’ (vv. 884-888; trad. di Alessandro Grilli).
In questa magnifica preghiera panteistica una donna e una regina al culmine della disperazione riconosce con dolorosa intelligenza che tutto è giusto ciò che agli umani accade, anche che «la gran città / non più città s’è spenta e non c’è più».
L’innocente causa di tutto questo, Elena, appare davanti a Menelao e si fa avvocata formidabile di se stessa, somigliando le sue parole a quelle argomentate e profonde con le quali Gorgia tesse l’elogio di questa  creatura bellissima e fatale. Persino le donne troiane che la odiano ammettono che l’argomentare di Elena è convincente. Come nella tragedia a lei specificatamente dedicata, Euripide coniuga l’indicibile bellezza a una intelligenza raffinata e superiore. Elena sostiene infatti che preferendo lei – e non i doni che offrivano Era e Atena – Alessandro Paride risparmiò ai Greci la sconfitta contro i Troiani. Scegliendo lei nell’impeto di un totale desiderio, Paride fu asservito da Afrodite mentre di Afrodite decretava la vittoria. E quindi, afferma Elena rivolgendosi a Menelao, «la dea devi punire, devi farti superiore a Zeus, che regna sì sugli altri dèi, ma di quella è uno schiavo».
Se schiavo è Zeus di Afrodite, quanto più gli umani lo saranno. Lo sa bene anche Ecuba, sa che il nome di questa invincibile dea è simbolo e sintesi della fragilità di tutti: «Ogni follia per l’uomo s’identifica con Afrodite». Fino a dire parole che sembrano nostre, di noi disincantati ma sempre persi umani del futuro: «οὐκ ἔστ᾽ ἐραστὴς ὅστις οὐκ ἀεὶ φιλεῖ», ‘colui che amò una volta ama per sempre’ (v. 1051)

Nella spuma potente del cosmo

Per i Greci c’è nell’umano una suprema innocenza. Essi sanno e accettano che la nostra natura sia intrisa di limite, tempo, balbettio, tramonto. Assai più grande è infatti la forza degli dèi rispetto alla fragilità di una condizione finita. Se «la sorte dell’uomo è patire»1, questo è dovuto alla volontà dei Numi, che sono anch’essi passione e materia che brama. Una passione che spinge Afrodite a vendicarsi del disprezzo che le arreca il troppo casto Ippolito. La dea colpisce ponendo nel cuore di Fedra «una brama violenta, per volere mio» (114) poiché stolto è stato Ippolito a pensare di potersi, lui solo, affrancare dall’universale autorità del desiderio. Di se stessa infatti Afrodite canta la forza: «Tutti quelli che vedono la luce entro i confini del Ponto Eusino e dei monti d’Atlante, io li tengo in onore se s’inchinano al mio potere, mentre abbatto quanti sono verso di me sprezzanti e alteri» (113).
Da una tale potenza discende il piano inclinato dell’innamoramento di Fedra per il figlio di suo marito; delle ingenue trame che la nutrice organizza per dare compimento al desiderio della donna; dell’orrore che agli occhi di Ippolito tutto questo rappresenta; della vergogna e della vendetta di Fedra che morendo lo accusa; della troppo rapida maledizione scagliata da Teseo contro il figlio; della morte straziata di lui.
Artemide nulla può per salvare il proprio devoto, poiché «vige fra gli dèi questa legge: nessuno vuole opporsi al volere di un altro dio, ciascuno si ritira» (156), senza che però questo escluda la vendetta di Artemide che colpirà Afrodite nel più profondo degli amori di lei, quello verso Adone.
Accomunati sono quindi umani e divini nella passione. E se «non c’è per l’uomo una vita che trista non sia, né tregua c’è dell’affanno» (121) -tanto che «la cosa migliore, però, è, senza coscienza, morire» (123)-, agli umani Euripide offre lo strumento supremo della parola che accusa gli immortali dell’impotenza degli dèi di fronte al male profondo. Se, dichiara Artemide, «è normale che l’uomo sbagli, se gli dèi lo vogliono» (160), Ippolito giunge a dire -morendo- «potesse l’uomo maledirli, i numi» (159). Un coraggio filosofico e cosmico che a nulla si piega, se non ad Ἀνάγκη, signora di tutti, umani o divini che siano
Ben conoscendo tale realtà, nella mia vita ho onorato Afrodite e Dioniso, senza seguire la misurata e miserabile saggezza della nutrice: «Dovrebbero amarsi fra loro non più di tanto i mortali, non giungere mai a un affetto che tocca le viscere, sì da allentare o serrare i legami che crea l’amore, senza difficoltà» (123). Lascio un simile equilibrio, lascio tale distanza, ai contabili e preferisco immergermi nella luce della dea venuta dal mare, nella spuma potente del cosmo. 

1. Euripide, Ippolito, in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 121.

Vai alla barra degli strumenti