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La terra ospitale

Qualche anno fa, nel 2015, avevo assistito a una messa in scena delle Supplici al Teatro Greco di Siracusa, con la regia di Moni Ovadia e le musiche di Mario Incudine. Una messa in scena scadente, che nulla aveva a che fare con Eschilo. La conferma di un giudizio così duro viene dalla lettura della tragedia con la guida filologica ed ermeneutica di Monica Centanni. Emergono infatti da tale lettura i controsensi di una interpretazione umanistica, attualizzante ed eticamente virata verso l’accoglienza. Nulla in Eschilo c’è che giustifichi una simile interpretazione. Nel mondo greco «l’esilio è considerato una condizione peggiore della morte, perché esclude l’uomo dal suo habitat privilegiato -la città– e lo priva dello statuto di cittadino, necessario al riconoscimento della sua identità»1.
Le cinquanta figlie di Danao che giungono ad Argo in compagnia del loro padre allo scopo di fuggire alle nozze coatte con i cinquanta cugini figli di Egitto scelgono Argo perché sono discendenti di Io, la principessa argiva amata da Zeus, perseguitata da Era, madre di Epafo, generato in Egitto e loro antenato. Queste ragazze sono quindi parenti dei cittadini ai quali ora chiedono protezione e rifugio. Le Danaidi non sono straniere nel significato odierno della parola. E non rivendicano neppure diritti in quanto donne ma in quanto supplici dell’altare di Zeus, loro avo. Non è affatto la stessa cosa, tanto è vero che esse ribadiscono il fatto che «γυνὴ μονωθεῖσ᾽ οὐδέν una donna da sola non è niente» (v. 749, p. 260) e a proposito dei figli di Egitto arrivati ad Argo per rapirle usano espressioni ‘razziste’ come «μελαγχίμῳ σὺν στρατῷ; un esercito di pelle nera» fatto di «ἐξῶλές  μάργον; maledetti e pazzi» (v. 741, p. 258).
A questi neri pazzi e maledetti Pelasgo, re di Argo che ha deciso di acconsentire alle suppliche delle ragazze, si rivolge con parole assai poco ‘accoglienti’, come queste: «οὐ γὰρ ξενοῦμαι τοὺς θεῶν συλήτορας; io non sono ospitale con chi depreda gli dèi» (v. 927, p. 274).
Per i Greci prima vengono gli dèi e poi gli umani, qualunque umano. Per tutti loro infatti i mali sono e rimangono molteplici e variegati «πόνου δ᾽ ἴδοις ἂν οὐδαμοῦ ταὐτὸν πτερόν; e non vedrai mai gli stessi colori sulle ali del dolore» (v. 329, p. 228). Anche per questo non c’è nulla di ‘umanistico’ negli Elleni.
E si potrebbe continuare nell’analisi testuale che conferma l’insipienza di ogni attribuzione ai Greci di sentimenti e sentimentalismi tipicamente moderni e postcristiani. E questo anche sul fondamento di una antropologia del limite per la quale «παν απονον δαιμόνιον; senza sforzo avviene ogni atto divino» e Zeus «ἰάπτει δ᾽ ἐλπίδων / ἀφ᾽ ὑψιπύργων πανώλεις; getta giù dall’alta torre / delle loro speranze i miseri mortali» (vv. 100 e 96-97, p. 212).
Ospitale verso le loro preghiere è a volte Zeus, inospitale altre volte. C’è invece un dio, fratello di Zeus, che tra le divinità è il più ospitale di tutti, «τὸν γάιον, τὸν πολυξενώτατον; Ade, dio della terra e signore della morte; Ζῆνα τῶν κεκμηκότων» (vv. 156-157, p. 214).
Altre divinità presenti, temute e onorate in questa tragedia -insieme a Zeus «δι᾽ αἰῶνος κρέων ἀπαύστου; signore del tempo infinito» (v. 574, p. 248)– sono Ares e Afrodite. Ares, da tutti temuto, dio senza danze e senza musica, padre del pianto –«ἄχορον ἀκίθαριν δακρυογόνον Ἄρη» (v. 681, p. 254). Afrodite il cui nome appare alla fine ad ammonire le ragazze dei rischi che corrono coloro che ne trascurano il culto, coloro che si chiudono alla potenza erotica della vita, al desiderio: «Kύπριδος δ᾽ οὐκ ἀμελεῖ θεσμὸς ὅδ᾽ εὔφρων / δύναται γὰρ Διὸς ἄγχιστα σὺν Ἥρᾳ; Ma neppure Cipride devi trascurare, in questo canto propiziatorio: / è potente, è la più vicina a Zeus, insieme a Era» (vv.1034-1035, p. 280). Tutti gli dèi, in ogni caso, vanno tenuti in conto, onorati dentro la persona umana che di loro è fatta, intrisa, mescolata.
È questo uno dei significati e degli scopi universali della tragedia greca, dell’intero mondo ellenico: che equilibrio, misura, distanza e rispetto siano dovuti in primo luogo agli dèi. Uno dei princìpi apollinei che risuonano a Delfi stabilisce: «τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν; Verso gli dèi, mai nessun eccesso» (v. 1061, p. 282).
Ἱκέτιδες non è una tragedia di argomento sociale o morale, è una teologia, come sempre per i Greci.

Nota
1. Monica Centanni in Eschilo, Supplici (Ἱκέτιδες, 463 a.e.v.), Le tragedie, p. 854.
Traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le citazioni da Supplici saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Meridiani.

[L’immagine del grande teatro di Argo fu scattata da me alcuni anni fa. Micene e Argo costituiscono due dei luoghi dove ho meglio sentito la presenza del sacro]

 

Forme

Il numero 25 di Vita pensata è dedicato alla forma, con una varietà di contributi che studiano l’estetica  del viaggio, della parola, dell’anamorfosi, della narrativa statunitense, del modernismo, della scultura, delle metamorfosi, dell’attualismo gentiliano, della tragedia antica, delle epidemie moderne, dell’epistemologia.

Un mio saggio presenta la figura di Apollo a partire dagli studi di Walter Otto sugli dèi della Grecia e dunque sulla centralità e fecondità dell’elemento religioso -o per meglio dire sacro– nella civiltà degli Elleni. Gli dèi greci non sono invenzioni della fantasia o deduzioni teologiche ma entità che possono soltanto essere vissute nel limite che caratterizza la materia, nel rifiuto di ogni pretesa di dettare le regole agli eventi, nell’assenza di ogni culto narcisistico e borghese verso l’io, la sua volontà, la sua pretesa interiorità abissale di soggetto. Sta qui una delle differenze principali tra la religione greca e quella cristiana. Nel mondo ellenico non domina la magia, come in altre culture, ma semplicemente la natura. Un mondo dove convivono le potenze ctonie -gli antichi Titani, signori dei morti- e le potenze celesti -i nuovi Dèi dell’Olimpo, signori dei vivi. Un mondo dunque estraneo ma nel quale affonda e dal quale continua ad assorbire senso l’identità dell’Europa, almeno sin quando essa «non soggiacerà totalmente allo spirito dell’Oriente o al razionalismo utilitaristico».
Gli dèi della Grecia, la loro molteplicità e differenza, sono il mondo, semplicemente. Sono l’immanente totalità dell’essere: inscalfibile, perfetto, temporale. Questo è la religione, la vera religione. Non una forma del narcisismo umano e del suo spasmodico bisogno di salvezza ma lo splendore affilato della luce.

 

In forma dunque di vermiglia rosa

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Guido Paduano
Con: Lucia Lavia (Dioniso), Ivan Graziano (Penteo), Antonello Fassari (Tiresia), Stefano Santospago (Cadmo), Linda Gennari (Agave)
Regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Sino al 20 agosto 2021

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εὐοῖ, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale –Gesamtkunstwerk– attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo.
E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo invece non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa / prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agàve mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio.
Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’ἀπὸ μηχανῆς θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio (al quale avevo partecipato a Milano in compagnia di Mario Gazzola), era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi.
Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore / Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio.
«In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3).
Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

 

Kaos / Kosmos

Anche se gli inventori della Grecia non sono mai stati in Grecia – tra di loro Winckelmann, Goethe, Hölderlin, Schinkel, Nietzsche – ciò che hanno pensato, immaginato e scoperto di quel mondo corrisponde in gran parte a quello che la Grecia è stata. Le motivazioni sono diverse e numerose. «La prima ragione è che il vero viaggio si svolgeva nello spazio del testo: i Greci si incontravano negli eventi narrati dagli storiografi e nelle convenzioni dei filosofi, nella tensione o nella liberazione del dramma teatrale, nella passioni dipinte dai lirici»1. Al di là di questa e di altre verità, un punto chiave è che per comprendere la Grecia antica bisogna essere antichi Greci e quei personaggi lo sono stati.
La passione dei Greci per il viaggio – pur con tutte le difficoltà e i rischi che viaggiare comportava – è motivata anche dal dinamismo e dalla curiosità in cui consiste ogni vera conoscenza, ogni passione per il sapere. Essa si rivolge – nei Greci e nei loro eredi – agli ambiti e ai temi più diversi ma tutti convergenti nella comprensione del mondo, vale a dire nella filosofia.
Si parte dall’intero, dal cielo, dagli astri, dall’ordine supremo e luminoso, dal κόσμος.
Si attraversano poi boschi, mari, pianure, montagne, tutti luoghi abitati dagli dèi.
Si vive nella città, la grande invenzione della specie umana, che per i Greci era una sola cosa con il corpomente di ciascuno, come confermano anche le parole di Socrate nel Critone, con le quali esprime il suo debito verso Atene anche quando la città lo uccide.
Per difendere e acquisire spazi e città, gli umani hanno inventato dal solco dell’aggressività animale la guerra, alla quale anche i Greci dedicarono sforzi di intelligenza, creatività, ingegno e tenacia davvero totali, e sempre allo scopo di sopravvivere e di distruggere; un solo esempio che è simbolico e dunque particolarmente significativo: il mantello dei soldati spartani era di un colore rosso acceso, che «doveva avere un valore magico ma in battaglia poteva anche avere la funzione di nascondere le macchie di sangue provocate dalle ferite» (A. Cristofori, 462).
Un’altra forma della violenza sono i sacrifici, inseparabili dalle moltissime feste che i Greci celebravano durante l’anno: ad Atene, ad esempio, in età classica i giorni di festa andavano da 120 a 144, un numero inaccettabile per il nostro stile di vita economicista e improntato alla schiavitù del lavoro. «I Greci celebravano la festa come evento comunitario […] e straordinario», un momento di vero e proprio «incontro col sacro» (E. Fontani, 649), nel quale i bambini non andavano a scuola, gli schiavi erano dispensati dal servizio, le altre attività politiche si fermavano poiché era appunto la festa l’attività politica per eccellenza. «Il decoro della festa identificava l’essere greco» (Id., 656), anche nel culto della fecondità e del piacere: tra gli oggetti sacri il fallo ha uno statuto centrale, tanto che in alcune feste le rispettabili matrone gettavano semi su statuette di peni. Il fallo infatti «fungeva da talismano per assicurare la buona crescita dei germogli. Questa pratica rituale, di esclusiva pertinenza femminile, aveva luogo a Eleusi e contemplava l’allestimento di un banchetto in un clima nel quale era ammessa ogni forma di turpiloquio (αἰσχρολογία)» (Id., 686). Delle feste erano protagonisti gli dèi e tra di loro specialmente Dioniso, per la sua vitalità, per la sua gioia. Una Hydria di Polignoto mostra due ragazze che si danno alla ‘danza delle Cariatidi’. La loro grazia appare davanti ai nostri occhi come se accadesse adesso, innocente e insieme sensuale.
In queste feste così gaie si celebrava anche la morte. La morte degli altri animali, in modo che il loro sangue potesse – secondo l’ipotesi del tutto corretta di Gianfranco Mormino – ingraziarsi  gli dèi e permettere che la semina nella terra irrorata dal sangue potesse ancora produrre grano, cibo, vita. Uno dei capitoli più crudi e splendidi dei Dialoghi con Leucò di PaveseL’ospite– testimonia il dato antropologico per il quale all’inizio le vittime di questa offerta alle potenze ctonie erano altri umani, poi sostituiti da creature assai più sottomesse e impotenti di fronte alla violenza umana: gli altri animali. Enrica Fontani conferma che «il momento culminante della festa era il sacrificio (θυσία). […] Sacrificare significava onorare gli dèi per mezzo di oblazioni, per placarli o sollecitarne il favore. […] L’eziologia del sacrificio spiega in chiave di trasgressione, rispetto alla consuetudine originaria di oblazioni incruente (frutti della terra, focacce), l’atto del primo uccisore di buoi (βουτύπος) che inaugurò il regime alimentare carnivoro (Porfirio, Dell’astinenza, 2.29-30). Il sacrificio vegetariano totale cedette il passo alla prassi cruenta dell’uccisione ritualizzata (ολόκαυστον), che diventò il perno dell’identità civica e del sistema basato sulla condivisione del cibo. La dimensione politica e quella religiosa appaiono qui più che mai solidali e complementari» (653).
Di questa natura violenta ma ritualizzata della Grecità, e in generale del mondo antico, sono testimonianza sia i sacrifici animali – mentre i massacri contemporanei che su di loro si praticano non hanno nulla di sacro e simbolico, sono soltanto pura totale sterminata violenza – sia gli agoni, i giochi, le gare. Una dimensione talmente importante, questa, una passione così profonda da far sì che l’agone nato nell’ambito della festa rese alla fine la festa una semplice cornice dell’agone. Burckhardt e Nietzsche hanno dunque ben individuato «nello ‘spirito agonale’ una delle forze trainanti della civiltà greca. Ogni campo dell’attività umana sembra, per i Greci, motivo di competizione: oltre lo sport, la musica, la danza, il teatro, il simposio, fino alle dispute filosofiche. Persino la bellezza» (C. Marconi, 761).
Culti, feste, sacrifici, agoni avevano sempre come centro e sfondo il santuario. Che non è soltanto il tempio ma è il paesaggio sacro dentro il quale anche il tempio vive. Il tempio, certo, è un luogo del tutto particolare, le cui colonne – scrisse Le Corbusier riferendosi al Partenone «obbediscono ad un’unica legge, sgorgano dalla terra» (cit. da C. Franzoni, 133)– e tuttavia il racconto eracliteo degli dèi che abitano anche in cucina testimonia che «per i Greci qualsiasi luogo può essere considerato adatto a ospitare un santuario. Perché ciò accada è sufficiente percepirvi la presenza del divino attraverso i suoi segni, e sentirsi con ciò più vicini a lui» (Id., 528).
La prima divinità è la luce. Sacerdoti e fedeli si rivolgevano a est, verso il sole che sorge, «dove si immagina la divinità, quando, all’alba, ha luogo il sacrificio» (Id., 531). Il cielo, la terra, gli animali, i divini si incrociano nello spazio del santuario, che diventa così Νόμος, luogo nel quale l’umano dà a se stesso senso. Le metope del lato sud del Partenone sono ispirate «al principio generale della lotta conto il disordine (χάος) per l’affermazione dell’ordine (κόσμος)» (Id., 620).
I Greci sono anche questa identità/differenza tra il Kaos e il Kosmos.

[L’immagine raffigura l’Oggetto di Hoag, una delle galassie più singolari del cosmo, dalla forma circolare con al centro un nucleo assai luminoso. Dista 600 milioni di anni luce dalla Terra]

Nota

1.C. Franzoni, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Volume IV/1 Atlante 1, a cura di C. Franzoni, Einaudi 2002, p. XII. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

Restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo

Gore Vidal
Giuliano
(Julian, 1959-1964)
Traduzione di Chiara Vatteroni
Postfazione di Domenico De Masi
Fazi Editore, 2017
Pagine 585

I libri sconfiggono anche la morte, pur non potendo sconfiggere il tempo: «Facciamo dunque rivivere Giuliano e per sempre» (p. 25). Ed è così che Libanio, maestro di Giuliano, e Prisco, che aveva conservato e preservato il diario dell’imperatore, leggono, commentano, discutono i testi del loro amico e allievo, sperando di poter pubblicare una sua biografia, che però l’imperatore Teodosio proibirà.
Libanio e Prisco non soltanto sono reali, essi appaiono anche del tutto verosimili, come ogni altro elemento, personaggio, evento, scena, luogo di questo romanzo. Nessuno dei due formula acritici elogi di Giuliano. Prisco è anzi spesso severo verso l’ingenuità dell’imperatore, la sua mania per le ecatombi in onore degli dèi, l’affidarsi a ciarlatani e indovini, e arriva ad affermare che «Giuliano voleva credere che la vita di un uomo ha un significato molto più profondo di quello che realmente ha. Il suo male era lo stesso della nostra epoca. A tal punto non accettiamo di estinguerci, che continueremmo a ingannarci l’un l’altro in eterno pur di negare l’amara, segreta consapevolezza  che il nostro destino è non essere» (103).
E tuttavia nessuno in questo libro può stare alla pari di un uomo che sembrava non voler fare altro che leggere – «Finché avevo la possibilità di leggere, non ero del tutto infelice» (61)–, imparare, studiare, pensare. E che però fu anche e sempre un soldato, uno dei massimi strateghi del mondo antico, mai sconfitto in nessuna battaglia, vincitore ovunque, dalle Gallie alla Persia. Un uomo che, come tutti gli antichi che non fossero ebrei, vedeva nella molteplicità, nella differenza e dunque nel politeismo la struttura stessa del mondo e che anche per questo nel 362 restaura la libertà di culto che i suoi predecessori cristiani avevano cancellato: «Il 4 febbraio 362 proclamai la libertà di culto in tutto il mondo. Ognuno poteva adorare la divinità che preferiva, nel modo che preferiva» (376). Un uomo, soprattutto, votato alla luce, all’armonia del tempo, alla sua infinita spirale. Arrivando ad Atene, Giuliano dice a se stesso «ero nel presente, appartenevo al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo mi spalancava le sue braccia e in quel sereno amplesso vedevo il tutto nel suo insieme: un cerchio senza inizio né fine» (159).
Dopo che «quell’avventuriero di Costantino ci ha venduto ai vescovi» (27), quest’uomo giunto, nonostante molti rischi e per i suoi meriti, alla carica imperiale cerca nel poco tempo che intuisce essergli dato di restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo. Per quanto probabilmente impossibile ormai da realizzare, tale progetto fu troncato durante uno scontro militare da un assassinio non da parte nemica ma perpetrato da alcuni dei suoi stessi soldati, devoti al nuovo dio. L’esecutore così descrive la propria azione: «Pregai Cristo  perché mi desse la forza. Poi gli immersi la lancia nel fianco» (566).

Davvero, come spesso si ripete in questo romanzo, gli umani sono affascinati dalla distruzione, dalla guerra, dalla violenza. Forse perché intuiscono di non meritare d’esserci, di costituire un trascurabile errore della materia. Tra gli appartenenti a congreghe religiose, i monoteisti sono particolarmente ossessionati dalla distruzione. Tra questi i cristiani, la cui ferocia emerge in modo continuo e inesorabile dalle pagine di Gore Vidal.
Il devoto cristiano Costanzo, zio di Giuliano, gli uccide il padre per assicurarsi il trono imperiale, e «quindi se poteva essere allo stesso tempo un buon cristiano e un assassino, allora nella sua religione c’era qualcosa di sbagliato» (44). I vescovi e le sette nazarene sono continuamente in conflitto gli uni contro gli altri sino a mostrare tutta la follia della propria arroganza. Rivolgendosi a essi Giuliano ha buon gioco a inchiodarli ai loro misfatti: 

Ecco i vostri crimini più recenti. Omicidi e confische…oh, come vi piacciono le ricchezze di questo mondo! Eppure la vostra religione afferma che non dovreste reagire alle offese, né ricorrere al tribunale, e neppure possedere ricchezze, e tanto meno rubarle! […] Vi è stato insegnato a disprezzare il denaro, e invece lo accumulate. Vi hanno detto che non dovreste vendicarvi, quando subite un torto, vero o immaginario che sia: che è sbagliato rispondere al male con il male. E invece vi accanite gli uni contro gli altri, in bande scatenate, e torturate e uccidete quelli che non la pensano come voi. […] Se non riuscite a vivere secondo quei precetti che siete disposti a difendere con le armi e con il veleno, che cosa siete, se non degli ipocriti? (388).

La loro intolleranza non ha pari, come Prisco argomenta: «Nessun’altra religione ha mai creduto necessario distruggere gli altri solo perché professano un’altra fede. […] Nessun flagello ha mai colpito il mondo con la stessa violenza e con le stesse proporzioni del cristianesimo» (173).
La forza dei cristiani è l’energia dei parassiti. Senza la logica rubata agli elleni, senza la grandezza dei templi greci, senza la profondità del pensiero antico  – tutti elementi da loro utilizzati – questa setta non avrebbe avuto possibilità di crescere, imporsi, diventare il senso comune. Massimo, sacerdote pagano molto e imprudentemente apprezzato da Giuliano, ha comunque ragione a osservare come «tutto quel che avevamo di sacro, ci è stato rubato dai galilei. Il compito principale dei loro innumerevoli concili è quello di dare un senso a tutto ciò che hanno preso in prestito da una parte e dall’altra» (112).

Non si tratta soltanto dei seguaci, è il loro maestro a essere indegno di qualunque argomentato apprezzamento. Gesù fu uno dei tanti rabbini riformatori finiti male; uno dei tanti esponenti di una religione – l’ebraismo –  locale e tribale per sua stessa definizione e pretesa; un condannato a morte assurdamente divinizzato; la più «pericolosa invenzione» della fantasia dei fanatici, come lo definisce Libanio (574), che nel Cristo Pantocratore della basilica di Costantinopoli intravede «il viso scuro e crudele di un boia» (573).
Come conferma uno dei massimi studiosi di storia del cristianesimo «quel che noi chiamiamo ‘cristianesimo’ fu una forma di giudaismo caratterizzata da una fortissima spinta proselitistica» (Giancarlo Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Carocci Editore 2020, p. 11). Rinaldi continua mostrando la «piena ‘ebraicità’ di Gesù e il carattere pienamente giudaico della predicazione sua e dei suoi seguaci» (25), cosa che era del tutto evidente ai polemisti sia pagani sia cristiani dei primi secoli dell’e.v. e invece ancora fatica ad affermarsi nel senso comune, dopo essere stata accolta assai lentamente dagli studiosi di storia del cristianesimo. Emblematico di questa consapevolezza è l’interrogativo di Giuliano il quale si chiedeva come si potesse «proclamare il Dio giudaico Signore dell’universo quando egli, al contrario, per secoli aveva trascurato l’umanità intera dedicandosi a un solo popolo relegato in un cantuccio della terra?» (Contra Galilaeos, fr. 20).

Da simili presupposti non potevano che sorgere tenebre culturali, politiche e antropologiche. Lo ierofante di Grecia, ad Atene, rivolge a Giuliano queste parole: «Arriveranno i barbari. I cristiani trionferanno. E sul mondo caleranno le tenebre» (Giuliano, p. 193). Così infatti è accaduto. «Ossessionati dalla morte» (440), i cristiani sono – semplicemente – il male, come Giuliano dice a un vescovo che lo sfida e disprezza: «Non pensare che tutte le generazioni che si sono succedute dalla morte del Nazareno contino più di un istante nell’eternità. Il passato non cessa di esistere solo perché voi vi ostinate a ignorarlo. Quello che tu adori è il male. Hai scelto la divisione, la crudeltà, la superstizione» (391).
Libero dalle superstizioni e dai terrori cristiani, mentre sta per morire Giuliano così medita: «Nell’ora più opportuna, abbandono questa vita, felice di restituirla alla Natura, che me lo chiede, come un uomo d’onore che paga i suoi debiti entro la scadenza» (555).
La fine di Giuliano non è stata soltanto la morte di un uomo, la sconfitta a tradimento di un imperatore. La fine di Giuliano è stata anche il tramonto di Roma, perché dopo di lui «i goti e i galilei erediteranno lo Stato, e come gli avvoltoi e i vermi spolperanno le ossa di ciò che è morto, finché sulla terra non resterà nemmeno l’ombra di un dio» (537). La fine di Giuliano sarà la fine della «speranza nella felicità umana» (574), sarà la fine della luce: «Ora possiamo solo lasciare che venga il buio, e sperare in un nuovo sole e in un altro giorno, nato dal mistero del tempo e dall’amore dell’uomo per la luce» (575).
Con queste parole di Libanio si chiude un romanzo cha aiuta a comprendere le ragioni per le quali ancora oggi l’Europa non può non dirsi pagana.
Da tale comprensione discendono delle coordinate esistenziali differenti, davvero nuove perché radicate in una identità ancora viva. Allo storicismo, alla temporalità lineare e irreversibile che postula un significato intrinseco della storia – intrinseco perché radicato nella volontà dell’unico Dio — va opposta la consapevolezza (anche cosmologica) che non si dà alcun inizio assoluto del tempo e ogni passato è ancora da venire. Il divino non abita nel totalmente Altro, al di là e al di fuori della natura, delle cose, del mondo. Dio si dispiega qui e ora. È quanto con grande chiarezza e dottrina scrisse Salustio, amico e sodale di Giuliano:  «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ αεί»  (Sugli dèi e il mondo, Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, 4, 8, 26), queste cose mai avvennero e sempre sono. Sempre.

[Di questo libro ho parlato anche in un saggio Sul politeismo ma qui ho voluto darne un quadro più ampio perché si tratta di uno splendido romanzo che merita di essere gustato nella sua dottrina e nella sua sapienza narrativa] 

Grecità e Induismo

Grecità e Induismo
in Chi cerca…cerca. Un profilo a tutto tondo di Augusto Cavadi
A cura di Crispino Di Girolamo e Sylwia Proniewicz
Il Pozzo di Giacobbe 2020, pp. 224
Pagine 99-107

Ho curato molto volentieri i contributi filosofici compresi nel volume che gli amici di Augusto Cavadi hanno voluto dedicargli per i suoi settanta anni. Il libro è una vivace testimonianza del prisma che la vita di Augusto è, della molteplicità e fecondità delle sue relazioni.
Uno degli ambiti di ricerca al quale mi sembra che Cavadi dedichi sempre più cura e interesse è quello che si racchiude nel termine spiritualità. Nel mio contributo ho dunque tentato un sintetico confronto tra due modi di intendere e vivere la complessità dell’esistenza – “spiritualità” vuol dire anche questo –, modi tra di loro più vicini di quanto si immagini: la sapienza greca e la sapienza induista.
Il saggio si articola in una breve introduzione e in tre paragrafi:
1 La filosofia come iniziazione
2 Filosofia e induismo
3 Gnosi greca e gnosi induista

Il testo presenta una grave lacuna: ho infatti indicato l’autore dell’inno con il quale ho chiuso il saggio come «uno degli ultimi sapienti pagani» ma ho trascurato di aggiungere il nome in nota (cosa davvero incomprensibile…). Cerco di rimediare qui: i versi sono del filosofo neoplatonico Proclo (412-485). È il suo quarto inno, dal titolo A tutti gli dèi (traduzione di Davide Susanetti):

«Ascoltatemi, dèi che governate la santa sapienza,
voi che avete acceso il fuoco dell’ascesa,
voi che elevate agli immortali le anime umane
purificate dai misteri ineffabili dei vostri inni,
lontano dai tenebrosi recessi della caduta.
Ascoltatemi, dèi della grande salvezza,
concedetemi, dai sacri libri, una pura scintilla
di luce, una scintilla che dissolva la nebbia:
un chiaro segno che un dio immortale
dall’uomo distingua. Che mai un demone
nefasto mi sommerga nei flutti dell’oblio,
spegnendo il ricordo dei beati. Che mai
un gelido castigo m’incateni quaggiù:
fredde sono le onde della nascita,
la mia anima non vuole più a lungo vagare.
Sovrani della fiammante sapienza, rivelate
i misteri, rivelate i riti delle sacre parole
a chi si affretta sul sublime cammino».

Tra i testi della filosofia induista che ho citato ne riporto qui uno -magnifico- dedicato al Tempo. È tratto dagli Atharveda (अथर्ववेद), una delle quattro parti che compongono i Veda. Il brano è il XIX, 53 (traduzione di Valentino Papesso):

«1 Il Tempo tira (il carro), cavallo dalle sette redini, milleoculo, esente da vecchiaia, ricco di molteplice seme. Questo (carro) montano i savi ispirati; le ruote di esso sono tutti gli esseri.
[…]
6 Il Tempo produce la terra, nel Tempo arde il sole; nel Tempo sono tutti gli esseri, nel Tempo l’occhio guarda da ogni parte.
7 Nel Tempo la mente, nel Tempo il respiro, nel Tempo è contenuto il nome: quando il Tempo è venuto, si rallegrano tutte queste creature».

L’immagine di apertura fu scattata da Henri Cartier-Bresson nel 1948 nel Kashmir. Non rappresenta né greci né indù ma è colma della pienezza del sacro.

Sul politeismo

Mai avvennero e sempre sono. Sul politeismo 
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 3 – 2020
Pagine 69-90

Indice
-Unità e molteplicità
-La religiosità greco romana
-Cristianesimo e filosofia
-Persecuzioni
-Giuliano: restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo
-Gnosi e iniziazione
-Il mito
-Il sacro

Abstract
The aim of this paper is to analyze the transition from mediterranean polytheisms to christian monotheism from an historical and, above all, theoretical prospective. The life and work of Emperor Julian (360–363) constitute a fundamental junction to understand the richness of what has been lost and the consequences of the prevalence of an exclusive and anthropocentric conception of the sacred, which has always been enemy of philosophy. The analysis pays particular attention to the issue of persecutions that paganism suffered by the winner christians. The title refers to a passage by Salustio, Julian’s counselor and friend.

Come forse si evince dall’indice, questo è il saggio sinora più importante da me dedicato in modo sistematico a uno degli ambiti di ricerca che sento più vicini a ciò che sono e a ciò che desidero capire e sapere: «la vitalità delle filosofie e delle religioni pagane». Per queste filosofie il fine e la sostanza di ogni mortale consistono nel rinascere continuamente dalle tante morti che ci avvolgono nel nostro dolore, rinascere da noi stessi e non soltanto dalla madre mortale che ci ha dato alla luce. E, come Dioniso, essere Lúsios, liberati.
Nei politeismi non ha senso contrapporre naturale e soprannaturale poiché la molteplicità degli dèi si coniuga alla unità monistica del cosmo, nella quale convergono identità e differenza, singolarità e pluralità, maschio e femmina, vita e morte, senso e significato, somatico e psichico.
La Gnosi cercata e vissuta nell’intero arco del vivere e del pensare dei Greci, da Anassimandro a Proclo, è un percorso che conduce al sapere tramite il vedere ciò che a un primo sguardo rimane precluso. Filosofia è anche l’oltrepassamento dell’oscurità in un percorso iniziatico della mente dentro l’essere, la verità, il tempo. La grandezza del paganesimo sta nel sapere e non nello sperare. Anche per questo una rappresentazione adeguata del divino pagano sono i κοῦροι, il loro enigmatico sorriso.
Salustio, amico e consigliere dell’imperatore Giuliano, così riassunse il significato e la potenza del politeismo: «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί», «queste cose mai avvennero e sempre sono» (Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, Sugli dèi e il mondo, 4, 8, 26).

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