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Giuliano, le Lettere

L’imperatore Giuliano amava scrivere quasi quanto amava leggere. Portava con sé ovunque dei libri, in particolare Omero e Platone, anche durante le campagne militari. E al prefetto d’Egitto Ecdicio conferma che se «alcuni sono appassionati di cavalli, altri di uccelli, altri di fiere; a me, invece, è entrato dentro, fin da piccolo, un desiderio struggente di possedere dei libri» (lettera 107; Antiochia, fine luglio-agosto 362, 377d-378a, p. 141) 1.
Lettura e scrittura fanno il primato dello studio su ogni altra attività umana, tanto che – ricorda a Eumenio e a Fariano – «se qualcuno vi ha fatto credere che per gli uomini esiste qualcosa di più gradevole e utile del filosofare in tranquillità e al riparo da pubbliche incombenze, costui, ingannato, vi inganna a sua volta» (lettera 8: Gallia, fine 358-fine 359,  441b, p. 5) e raccomandando loro di dedicarsi con particolare cura allo studio di Platone e di Aristotele.

Tra i suoi scritti, le molte lettere inviate sia come privato sia prima come Cesare e poi come Augusto rappresentano una parte significativa del suo pensiero. Che infatti Giuliano si occupi di questioni personali o pubbliche, ha sempre davanti a sé la κοινοῦ τών Ἕλλήνων, la comunità degli Elleni, alla quale rivolgersi per confrontarsi, per guidarla, per delineare e vivere insieme la παιδείαν ορθην, la retta educazione tramite la quale restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo.
L’unicità dell’imperatore Giuliano consiste esattamente e anzitutto in questo, nel modo con il quale pensò e – sino a che visse – realizzò il progetto di ricostituzione e rinascita dell’Ellenismo. Un modo unico perché esplicitamente volto a utilizzare il λόγος, la parola, la persuasione, e non l’autorità, la violenza, la costrizione. Metodi questi utilizzati da alcuni imperatori prima di lui e soprattutto dai cristiani prima e dopo il suo breve regno (dal 361 al 363). Giuliano ha piena consapevolezza sia dell’obiettivo e sia del metodo filosofico e non violento con il quale raggiungerlo: «Io non voglio né che i Galilei vengano messi a morte, né che siano ingiustamente colpiti, né che subiscano qualche altro male» (lettera 83 ad Artabio; Antiochia, luglio-dicembre 362, 376e, p. 85), anche perché ritiene che l’ateismo dei cristiani negatori degli dèi e il fanatismo che caratterizza le loro azioni siano espressioni patologiche di menti inquiete e senza misura, costituiscano più una malattia che altro. Essa andrebbe dunque curata e non punita.
Tra questi comportamenti c’è la loro tendenza (documentata da innumerevoli fonti antiche e dagli studi moderni) a «impadronirsi delle eredità degli altri e accaparrarsi di ogni cosa» (lettera 114 ai cittadini di Bostra; Antochia, calende di agosto 362,  437a, p. 153). E c’è soprattuto il bisogno – anch’esso ampiamente documentato – di morire, di farsi uccidere dalle autorità imperiali in modo da ottenere subito la palma del martirio e il conseguente paradiso: «Molti degli atei sono ossessionati e persuasi a morire, perché – essi pensano – voleranno in cielo, una volta staccati violentemente dalla vita» (lettera 89b a Teodoro, sommo sacerdote; Antiochia, marzo 363,  288 a-b, p. 99).
Nonostante tali e altri inquietanti comportamenti, Giuliano non esercita nessuna violenza contro i cristiani, i quali appunto 

per ignoranza più che per convinzione si sono sviati. È con la ragione che bisogna convincere e istruire gli uomini, non con le percosse, gli insulti e i supplizi corporali. Perciò, ancora e ripetutamente invito coloro che aspirano a una devozione autentica a non commettere ingiustizia contro le moltitudini dei Galilei, a non attaccarle, a non recare loro offesa. Bisogna avere compassione piuttosto che odio per coloro che sono così sfortunati proprio in quello che c’è di più importante (ancora ai cittadini di Bostra, 438b-c, p. 155). 

Sintetizzando con chiarezza le linee della sua politica verso i cristiani, l’imperatore scrive che «mi sono comportato verso tutti i Galilei con tanta mitezza e umanità che nessuno di loro in nessun luogo ha mai subito violenza, è stato trascinato al tempio o minacciato perché facesse, contro la sua volontà, cose del genere», mentre i Galilei esercitano continuamente violenza anche reciproca, contro i loro correligionari definiti ‘eretici’: «Invece i membri della Chiesa ariana, resi arroganti dalla loro ricchezza, hanno aggredito i seguaci di Valentino, e hanno osato commettere a Edessa infamie quali mai dovrebbero verificarsi in una città ben ordinata» (lettera 115 agli Edesseni [l’attuale Odessa, in Crimea]; Antiochia, fine ottobre-metà novembre 362; 428c-d, pp. 155-156). Valentino e i suoi seguaci furono una delle più importanti e influenti comunità gnostiche, perseguitate appunto dai cattolici e dagli altri cristiani.

Il veleno dell’intolleranza cristiana contaminò comunque persino Giuliano inducendolo a proibire non i testi dei cristiani o degli ebrei ma quello di altri Elleni, di alcune filosofie da lui ritenute inaccettabili: «Non sia ammessa la dottrina di Epicuro, né quella di Pirrone; già infatti – e hanno fatto bene! – gli dèi hanno anche distrutto le loro opere, cosicché la maggior parte di esse è scomparsa» (ancora a Teodoro, 301c, p. 119).
Al di là di questa debolezza, di tale cedimento allo spirito violento contro le filosofie introdotto dalle lotte cristiane per l’ortodossia, Giuliano mostra la serenità di chi sente vicino a sé il divino, mostra il disincanto di chi ha ben compreso la natura inemendabile della vita, il suo limite. A coloro tra gli Elleni che provano angoscia per la distruzione dei templi greci operata dai Galilei, l’imperatore ricorda che quanto 

è stato realizzato da un uomo saggio e buono può essere distrutto da uno malvagio e ignorante; invece, le immagini viventi, stabilite dagli dèi, della loro sostanza invisibile, cioè gli dèi che si muovono in circolo per il cielo, rimangono eterne per sempre. Nessuno, dunque, perda la fede negli dèi, vedendo e ascoltando che alcuni hanno fatto violenza alle loro statue e ai loro templi (ancora a Teodoro, 295a, pp. 109-110).

Il disincanto sulla condizione umana è ben mostrato da due brani di una lettera ritenuta spuria ma che in ogni caso esprime efficacemente lo spirito dell’imperatore. Il quale ricorda a Imerio, prefetto d’Egitto, che al dolore insistito e inconsolabile di Dario per la morte della sua amata compagna, Democrito promise «che se avesse fatto scrivere sulla tomba della moglie i nomi di tre persone mai sfiorate dal dolore, subito ella sarebbe ritornata in vita. […] Dario rimase a lungo in imbarazzo, non potendo trovare alcuno cui non fosse capitato anche di soffrire qualche dolore; allora Democrito, sorridendo, secondo la sua abitudine, disse…» (lettera 201, 413b-c, p. 185).
La lettera si conclude affermando che «sarebbe una vergogna per la ragione se non avesse la stessa forza del tempo» (ibidem), sarebbe una vergogna che quanto il tempo in ogni caso consegue, l’attenuazione del dolore, non si cercasse di raggiungerlo già nel presente con la forza del pensare.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Le Lettere (pagine 1-189). Le indicazioni bibliografiche delle lettere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

Giuliano

Sine ira et studio Maria Carmen De Vita cerca di presentare una figura poliedrica, sfuggente, molteplice e complessa come l’imperatore Giuliano, che governò Roma dal dicembre del 361 al giugno del 363. Diciotto mesi soltanto, che però sono rimasti nella storia politica e in quella della filosofia assai più di quelli di tanti altri nomi della vicenda imperiale latina. Posto esattamente a metà tra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, Giuliano costituisce infatti per molti versi un enigma della storia tardoantica.
Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura e il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano.

L’ampio saggio introduttivo alle sue opere – una vera e propria monografia di 300 pagine – delinea in modo articolato un’azione prima di tutto politica e poi teoretica. Nonostante «la sconcertante varietà e contraddittorietà di stimoli forniti dalla sua persona politica, dalle sue scelte, dalla sua filosofia»1, «i diversi aspetti dell’azione giulianea si rivelano strettamente connessi» (p. LII). Essi vanno sempre collocati sullo sfondo e dentro le complesse dinamiche comunicativo/retoriche e interreligiose che caratterizzano il mondo tardoantico. Giuliano fu infatti anche un formidabile retore, educato sin da ragazzo alle più raffinate tecniche comunicative che la cultura greca sviluppava da secoli. E fin da ragazzo fu anche educato alle arti militari tanto che, prima come Cesare delle Gallie e poi come sovrano di tutto l’impero, Giuliano non venne mai sconfitto in battaglia. La lancia che nel 363 gli tolse la vita sembra che fosse stata scagliata da mano romana, forse da un soldato cristiano che – come tanti altri suoi correligionari – vedeva nell’imperatore il fantasma di un ritorno del politeismo.
La stessa mano cristiana, stavolta di un altro imperatore (Valentiniano III) e dei suoi collaboratori,  decretò nel 448 il rogo del libro che Giuliano aveva scritto Contra Galilaeos, vale a dire conto i cristiani. Libro che – come molti altri testi pagani distrutti dai cristiani – ci rimane in forma di frammenti citati in questo caso dal vescovo di Alessandria Cirillo allo scopo di confutare i contenuti di quel testo. Ed è anche a questo rogo del Contra Galilaeos – e di migliaia di altri documenti culturali, di opere, di capolavori del pensiero e della letteratura antica – che bisogna pensare quando si rimprovera Giuliano di aver voluto impedire ai professori cristiani di insegnare i miti e la filosofia pagani nelle scuole, senza in nulla toccare non soltanto le loro vite ma neppure la loro professione, invitandoli semplicemente a insegnare le Scritture cristiane. 

La realtà dei fatti è che il regno di Giuliano e la sua persona furono caratterizzati da un atteggiamento di profonda tolleranza religiosa e persino di non-violenza, per ragioni anche culturali che affondano nelle posizioni filosofiche dell’imperatore. Nonostante le continue calunnie di Gregorio Nazianzeno (personaggio davvero ossessionato da Giuliano) e di altri cristiani, è infatti «certo che Giuliano non rovesciò l’editto di Costantino, non proclamò il cristianesimo religio illecita, né ricorse a mezzi drastici per vietare ai credenti la celebrazione dei loro riti» (LXXXIV). In generale, e questo è uno dei risultati più importanti delle indagini di De Vita, «l’impegno a favore dell’Ellenismo non sfociò mai, comunque, in una vera e propria persecuzione anticristiana; appena divenuto imperatore, Giuliano promulgò un’amnistia, concedendo il ritorno nelle loro sedi ai vescovi che erano stati precedentemente esiliati; nei mesi successivi mirò sostanzialmente all’abolizione dei privilegi concessi al clero e alla Chiesa da Costantino e Costanzo» (XXX). E questo perché quella incarnata da Giuliano fu «una filosofia-religione che aveva nel risanamento etico, nella fiducia nel logos e nella non-violenza (perfino contro gli avversari Galilei) i suoi cardini teorici» (CCLXIV).
Nonostante l’ambiente cristiano nel quale venne educato, Giuliano si immerse nella παιδεία ellenica, da lui vissuta come una integrale esperienza di saggezza/φρόνησις e di libertà/ελευθερία sia individuale sia collettiva. Il suo amore per i libri, per la conoscenza, per la lettura fu profondo e contribuì a farne un autentico filosofo, oltre che un politico e un militare. La filosofia di Giuliano è una complessa articolazione delle varie correnti del neoplatonismo, volta soprattutto a mantenere la natura e la struttura razionali del pensiero classico, evitando di dare troppo spazio alle correnti e alle pratiche teurgiche di Giamblico e di altri neoplatonici, nonostante la grande ammirazione da Giuliano nutrita verso il filosofo di Calcide. Agli amici Eumenio e Fariano, ad esempio, raccomanda che «tutti gli sforzi siano per la conoscenza delle dottrine di Aristotele e di Platone» (sezione Lettere scritte in Gallia, lettera 8, 441c, p. 5)
La ricca teologia solare di Giuliano è anche un tentativo di mantenere le differenze interne al divino, tipiche della religione greca, e insieme di coniugarle con le tendenze verso un forte principio unitario che caratterizzano non soltanto il monoteismo cristiano ma anche il pensiero plotinano dell’Uno. Giuliano trasforma «di fatto il pantheon greco-romano in una catena di divinità eliache, un sistema gerarchico di divinità subordinate all’entità suprema, che anticipa gli sviluppi della speculazione metafisico-teologica dei neoplatonici del V secolo» (CCXXI). Questa filosofia aveva anche lo scopo di rispondere alle esigenze religiose profondamente sentite dalla società del IV secolo, preservando comunque i cittadini romani dall’irrazionalismo e quindi anche «dalle tenebre dell’ignoranza galilea» (CCXXVI).

Il lavoro culturale contro la teologia cristiana deve molto agli scritti di Celso e di Porfirio ma possiede elementi di originalità che affondano appunto nel primato del culto solare e nel complesso significato che per Giuliano caratterizza il ‘paganesimo’. Questo concetto è utilizzato dall’imperatore 

per esprimere una pluralità di nozioni diverse, fra loro collegate: una realtà storico-geografica (la Grecia e soprattutto l’Atene dei tempi di Temistocle e Pericle, di Socrate e di Platone); un’etnia e una cultura considerate superiori a quelle degli altri popoli; infine, alcune qualità intellettuali e morali d’eccezione, che consentono persino a un Celta come Salustio o a un Tracio come Giuliano di definirsi Elleni nei costumi e nell’indole, e rendono i Romani, a distanza di tanti secoli, gli eredi più degni del patrimonio ellenico (L).

Giuliano coniuga dunque le tendenze mistiche dell’ultimo neoplatonismo con un solido realismo politico. Il suo obiettivo primario, che è insieme filosofico e sociale, consiste nella salvaguardia dell’identità greca del Mediterraneo e dell’Impero e nel mantenimento dell’unità degli Elleni, ai quali cercò di restituire lo «spazio culturale e linguistico usurpato dai nuovi teologi cristiani» (CCCVIII).
L’azione dell’imperatore Giuliano fu permeata di profonde convinzioni cosmologiche e teologiche, sempre vissute però in una «scelta di realismo» (CCXCII) che cerca di salvaguardare l’unità del mondo greco-romano e di ampliarne i confini. «Lungi dall’essere in fuga dalla sua realtà, l’Apostata appare profondamente immerso in essa» (CCXCVII). L’unità di teoresi e di prassi è in lui ancora un’eredità della Grecia.

Nota
1. Maria Carmen De Vita, Flavio Giuliano Claudio: l’autore, l’opera, saggio introduttivo a: Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, Bompiani 2022, p. CCLXV. I numeri di pagina delle successive citazioni compaiono tra parentesi nel testo.

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Invidia

Quella strana invidia del sempre per l’effimero
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
14 marzo 2023
pagine 1-2

L’invidia non riguarda l’altro – che ne costituisce una semplice occasione – ma concerne il sé, più esattamente riguarda l’autorappresentazione che la persona si fa della propria identità, natura, capacità e limiti.
Il φθόνος, l’invidia che le divinità nutrono verso gli effimeri rispetto al sempre che invece esse sono, è determinata non dalla forza o dalla felicità, che i divini naturalmente possiedono in modo incomparabile rispetto a noi, ma dalla δύναμις, dalla potentia, dalla possibilità di migliorarsi, evolvere dallo stato attuale, diventare altro.

Gli dèi a Milano

Recycling Beauty
Fondazione Prada  – Milano
A cura di  Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica
Sino al 27 febbraio 2023

Il dinamismo di Milano è sempre stupefacente. Luoghi che scompaiono, altri che nascono, più spesso spazi che si trasformano. Una città ovidiana, la cui metamorfosi è costante e, certo, non sempre apportatrice di bellezza e di senso. Le trasmutazioni realizzate nei luoghi dell’archeologia industriale sono tra le più riuscite. Così, a nord di Milano l’antica cittadella della Pirelli è diventata il quartiere Bicocca con Auditorium, Università, lo Hangar che ormai è un luogo classico dell’arte contemporanea. A sud alcune delle fabbriche intorno allo scalo ferroviario di Porta Romana sono diventate dal 2015 la Fondazione Prada. E qui l’antico e il contemporaneo si sono incontrati in una scintilla d’energia che è la mostra Recycling Beauty. 

Nello spazio aperto e vastissimo del Podium e in quello verticale e labirintico della Cisterna il passato  classico e rinascimentale diventa un presente mobile e cangiante, che – nei frammenti che lo compongono – disegna la potenza dell’antico; esprime la sua calma e la forza; innesta in molte sculture materiali di età moderna nelle parti antiche; crea delle esplicite imitazioni rinascimentali di opere venerate e verso le quali il rispetto, la nostalgia, l’ammirazione si volgono quasi nell’invidia di non poter raggiungere la medesima luce che i Greci e i Romani riuscirono a essere.
È pervasivo e molteplice infatti il riutilizzo materiale e formale dei marmi, dei bronzi, dell’εἶδος di cui è fatta l’arte dei pagani. Numerose tra le opere esposte sono diventate cristiane e qui il riutilizzo diventa vitale, essenziale, funzionale all’esistenza, al significato, alla sopravvivenza stessa di quella religione. Appare infatti assai evidente che senza i Greci e i Romani il cristianesimo sarebbe stato soltanto una setta di fondamentalisti esaltati e violenti.
Il prezzo, assai oneroso, pagato dal cristianesimo per sopravvivere è ben espresso nella ricostruzione – qui realizzata per la prima volta – della colossale statua di Costantino, l’imperatore che fece uccidere il suo primogenito, Crispo e fece morire la moglie Fausta bollendola in una vasca. I sacerdoti pagani si rifiutarono di purificare l’imperatore per questi delitti mentre quelli cristiani lo assolsero. Da allora Costantino difese il cristianesimo ma la statua enorme che si fece costruire, sostituendo il volto di Giove con il proprio, conferma come l’infausto imperatore che impose il cristianesimo a Roma era e rimase un pagano, immerso però ormai nella ὕβρις, nell’eccesso che in questa statua  – alta 11 metri occupando due piani di un edificio  – diventa plasticamente evidente. Eccesso che fu uno degli elementi della nuova religione giunta al potere a Roma.

I due grandi spazi nei quali la mostra è distribuita testimoniano il fascino del mondo antico ma soprattutto la sua presenza, la sua ininterrotta fecondità per chi vuole comprendere il mondo e ama, semplicemente, la bellezza.
Sentimenti e concetti che emergono in particolare di fronte alla Minerva Orsay che dal I-II secolo dell’era volgare venne negli anni Trenta del Seicento restaurata dandole mani, piedi e testa di bronzo, a loro volta sostituiti con marmo nel 1776 mentre il corpo della dea riluce sempre di onice dorato. Atena diventa così l’intelligenza fatta di pietra, di alabastro e di magia.

E poi un trono dedicato a Dioniso, proveniente da un teatro greco e che divenne un sedile dei Papi romani.

Un’altra opera affascinante ed emblematica del significato e delle intenzioni della mostra è il Leone che azzanna un cavallo, probabilmente parte di una vasta opera scultorea dedicata ad Alessandro il Grande, che dal IV sec. a.e.v. fu portata a Roma e poi durante il Medioevo posta nel Campidoglio a simboleggiare ancora la potenza della città eterna.

 

Un terzo spazio della Fondazione, la Torre, ospita invece in modo permanente opere e installazioni dell’arte contemporanea. Gli esiti sono, come sempre in questi casi, assai diversi tra di loro. Non mancano le ripetizioni, le imitazioni passive, il semplice mestiere travestito da talento ma si può anche entrare in contatto con alcuni dei modi d’arte emblematici del presente, tra tutti il gigantismo di Jeff Koons, i cui enormi tulipani che adornano il Museo Guggenheim di Bilbao si ritrovano anche in una delle sale di Atlas, la denominazione che è stata data alla raccolta ospitata nella Torre.

Questa Torre è un edificio dal quale lo sguardo si estende e si amplia verso l’orizzonte della città che mai si stanca di mutare, di essere viva. Come vivi sono gli dèi che sorridono anche del loro riciclo.

La terra è degli dèi

Godland
Nella terra di Dio
(Vanskabte Land)
di Hlynur Palmason
Danimarca, Islanda, Francia, Svezia, 2022
Con: Elliott Crosset Hove (Lucas), Ingvar Eggert Sigurðsson (Ragnar), Victoria Carmen Sonne (Anna), Jacob Lohmann (Carl), Ída Mekkín Hlynsdóttir (Ida)
Trailer del fim

La Terra è degli dèi, non degli umani. Anche se gli umani pretendono che sia tutta loro.
L’umano infatti:
τοῦτο καὶ πολιοῦ πέραν πόντου χειμερίῳ νότῳ
χωρεῖ, περιβρυχίοισιν
περῶν ὑπ᾽ οἴδμασιν.
θεῶν τε τὰν ὑπερτάταν, Γᾶν
ἄφθιτον, ἀκαμάταν, ἀποτρύεται
ἰλλομένων ἀρότρων ἔτος εἰς ἔτος
ἱππείῳ γένει πολεύων.
κουφονόων τε φῦλον ὀρνίθων ἀμφιβαλὼν ἄγει
καὶ θηρῶν ἀγρίων ἔθνη πόντου τ᾽ εἰναλίαν φύσιν
σπείραισι δικτυοκλώστοις,
περιφραδὴς ἀνήρ:
κρατεῖ δὲ μηχαναῖς ἀγραύλου
θηρὸς ὀρεσσιβάτα, λασιαύχενά θ᾽
ἵππον ὀχμάζεται ἀμφὶ λόφον ζυγῶν
οὔρειόν τ᾽ ἀκμῆτα ταῦρον.
[…]
πάγων ὑπαίθρεια καὶ δύσομβρα φεύγειν βέλη
παντοπόρος
«va sul mare canuto / nell’umido aspro vento […] E la suprema fra gli dèi, la Terra / d’anno in anno affatica egli d’aratri / sovvertitori e di cavalli preme / tutta sommovendola // E la famiglia lieve / degli uccelli sereni insidia, insegue / come le stirpi / ferine, come il popolo / subacqueo del mare, / scaltro, spiegando le sue reti, l’uomo/ e vince con frodi /vaghe per monti le fiere del bosco: / stringe nel giogo, folta di criniera, / la nuca del cavallo e il toro piega / montano, infaticabile. […] E i modi / d’evitare gli assalti / dei cieli aperti e l’umide tempeste / nell’inospite gelo»
(Sofocle, Antigone, 332-358, trad. di Giuseppina Lombardo Radice, Einaudi 1976, p. 204).

Iceland, la terra dei ghiacci, l’Islanda, è un esempio paradigmatico di tutto questo: gelo, vulcani, acquitrini, sentieri che diventano fiumi impetuosi, sabbie inospitali. Ma niente ha potuto fermare la presenza umana anche in questa terra.
E tuttavia la terra è degli dèi. Non di Lucas, il pastore luterano inviato dalla Danimarca a costruire una chiesa in un luogo remoto. Lucas decide di attraversare buona parte dell’isola per conoscere il Paese e incontrare i suoi abitanti. Accompagnato e guidato da esperti marinai e camminatori, in realtà incontra soltanto acque, deserti, gelo e cavalli. Arriva più morto che vivo a destinazione, diventa ospite di un danese che lì vive con le due figlie, attende che venga completata la costruzione della chiesa ma non partecipa alla vita della piccola comunità. Sembra molto più interessato a scattare delle foto con un’apparecchiatura enorme che si porta sempre appresso; uno degli incarichi che ha ricevuto consiste infatti nel documentare la vita del luogo. Sette di queste lastre fotografiche sono state ritrovate e hanno costituito l’elemento ispiratore del film.
Cupo, insoddisfatto, ingrato e ipocrita, il pastore Lucas si rivela sempre più violento, sino a quando la situazione precipita proprio il giorno dell’inaugurazione della chiesa, quando è costretto da qualcosa a interrompere l’omelia e a tornare verso gli elementi.
Una terra «terribile e bella» come si dicono Lucas e Anna, una terra dove l’umano sembra il meno adatto anche rispetto ai cavalli, agli uccelli, alle anguille e non soltanto al fuoco e ai venti. Una terra cangiante dal verde intenso dei prati ai ghiacci che tutto ricoprono, al mare che sbuffa infinito, all’acqua che cade dal cielo.
In questa terra degli dèi, Godland narra una storia tragica, desolata, immersa in una gelida luce. La racconta in un modo che ricorda i viaggi di Herzog e i silenzi, gli spazi, gli sguardi di Bergman, compreso il luteranesimo che intride ogni istante.

Ha ragione Sofocle a concludere il coro con queste parole:
μήτ᾽ ἐμοὶ παρέστιος
γένοιτο μήτ᾽ ἴσον φρονῶν ὃς τάδ᾽ ἔρδει.
«E non mi sieda mai vicino, / al focolare, e in nulla abbia comuni / suoi pensieri coi miei / chi così vive ed opera» (Antigone, 371-372, p. 205). Parole singolarmente simili a quelle che Carl – l’uomo che dà ospitalità a Lucas – rivolge alla figlia. Qualcosa di inquietante e di antico si manifesta nelle immagini straniere e cristalline di questo film.

Il corpo, la guerra

Mito e guerra in James Hillman
in Dialoghi Mediterranei
n. 59, gennaio-febbraio 2023
pagine 46-52

Indice
-Il mito
-La salute
-L’angoscia
-La guerra
-Pan

Il significato, la funzione, le strutture del mito affondano nella vita quotidiana degli umani, nelle loro speranze più intime, nelle angosce più fonde, nei pensieri del corpo. E dato che il corpo esiste sino a che siamo vivi, il mito è consustanziale all’esserci, diventa un archetipo la cui fecondità è perenne. Il mito greco è il luogo in cui l’immaginale costruisce la propria tela di significati, dove la caverna è sempre aperta, dove dell’orrore si dà conto.
Opposta alla salute ma sua costante compagna è l’angoscia, la quale non costituisce una semplice tonalità emotiva o uno stato temporaneo di alterazione. L’angoscia è ciò che intesse la vita degli umani poiché essa è l’espressione psicologica della Necessità e del Tempo. Mito, angoscia, salute si coniugano in due figure ambivalenti e ambigue, opposte ma penetranti l’una nell’altra: il Senex e il Puer.
Queste dinamiche contribuiscono a meglio comprendere e a spiegare un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde: la guerra. Il tentativo di Hillman è consistito anche nel coniugare guerra, mito e psiche; di penetrare dentro la guerra, la sua disumanità così umana, il suo fascino costante e sinistro, il suo dominio nella storia. Pensare la guerra per capirla e quindi in qualche modo fronteggiarla. Una vera scienza della guerra non può limitarsi alla storia, alla sociologia, alla psicologia, alla tattica e alla strategia, non può limitarsi all’apparente razionalità delle sue cause, delle forme e degli scopi ma deve cogliere la natura inumana del massacro, le forze profonde che spingono l’essere vivente e razionale a intraprendere la distruzione di ogni cosa e di se stesso.
Una via d’uscita dalla catastrofe è per Hillman il mito politeistico, con le sue figure. In particolare Pan, il quale tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde e senza (apparenti) contraddizioni. Ma il riemergere inevitabile della differenza produce schizofrenie, isterismi, paranoie ben più gravi di quelle che pure il corpo panico di per sé possiede, delle quali è fatto.
La natura più fonda di Pan è costituita dall’al di là dell’Eros, poiché il panico – il terrore della fuga e del polemos – precede l’Eros in ogni sua forma: greca, cristiana, romantica. Con estrema chiarezza, Hillman mormora che «la lotta tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore migliore della paura, il capro più brutto della lepre» (Saggio su Pan).
E poiché il corpo è l’intrascendibile – nonostante ogni sforzo di negazione attuato dalle religioni ascetiche e dai progetti di un’Intelligenza Artificiale disincarnata –, alla fine esso vince. Sempre.

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