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Sovranità limitate

Sorvegliare e punire nel XXI secolo
Aldous, 5 aprile 2024
Pagine 1-2

La dottrina brezneviana dei «Paesi a sovranità limitata» è ampiamente descrittiva dell’Europa contemporanea. E questo anche perché una delle dinamiche più caratteristiche del primo quarto del XXI secolo è il progressivo indebolimento degli Stati e dei loro apparati politici, i quali mettono le proprie strutture amministrative e le riserve economiche al servizio dei poteri globali e multinazionali.
A offrire totale sostegno politico alle dinamiche liberticide  è ‘la sinistra neoliberale’ che dà il titolo alla traduzione italiana di un libro di Sahra Wagenknecht, dirigente per alcuni anni del partito tedesco Die Linke (La Sinistra), libro che nell’originale porta la più efficace denominazione Die Selbstgerechten, che si può tradurre come ‘gli arroganti, gli ipocriti, i presuntuosi, gli autocompiaciuti’, plastica descrizione dell’idealtipo politico-antropologico che transita dall’internazionalismo ‘comunista’, ripudiato con orrore, all’internazionalismo ultraliberista di un capitalismo (da sempre) senza patria e senza identità, nel quale trionfa l’ontologia flussica e indeterminata di un essere umano che privandosi dell’identità nega anche la differenza, un umano esistente soltanto come luogo di passaggio puramente volontaristico e privo di radici territoriali, culturali, biologiche.

Sul limite

Le società umane abitano spesso nel paradosso. Paradossi a volte innocui ma altre, invece, assai pericolosi. Un caso che rientra nella seconda fattispecie è quello dell’odio. Si emanano leggi e si istituiscono persino commissioni contro l’odio ma esse stesse, leggi e commissioni, sono e diventano strumenti d’odio contro i presunti odiatori. Si scatenano così vere e proprie campagne di propaganda rivolte a calunniare e a criminalizzare chi non la pensa allo stesso modo degli autodefinitisi nemici dell’odio. Le vittime preferite di tale odio sono populisti, sovranisti, ‘ecologisti profondi’, e tutti coloro che richiamano il limite senza il rispetto del quale le società semplicemente si dissolvono.
Due esempi di ignoranza del limite riguardano entrambi la popolazione umana e il suo crescere a dismisura.

Il primo caso concerne la questione fondamentale del presente, che però emerge di rado e viene pochissimo discussa, la questione demografica:
«Aujourd’hui, avec plus de 250.000 naissances par jour, on a dépassé les 7,7 milliards. Pour la fin du siècle, les estimations moyennes tournent autour de douze milliards, les estimations hautes autour de seize milliards. […] Pas plus qu’il ne peut y avoir de croissance matérielle infinie dans un espace fini, la population ne peut s’accroître indéfiniment sur une étendue limitée. Malheureusement, nous sommes à une époque qui ne supporte pas les limites. […] le laisser-faire nataliste est aujourd’hui irresponsable, et le ” respect de la vie ” ne saurait s’étendre à ceux qui ne sont pas encore conçus»
‘Con oltre 250.000 nascite al giorno, si sono superati i 7,7 miliardi [di umani]. Per fine secolo le stime medie ruotano sui 12 miliardi, le più alte sui 16 ma come non può esserci una crescita materiale infinita in uno spazio finito, la popolazione non può crescere indefinitamente su un’estensione limitata. Purtroppo siamo in un’epoca che non sopporta limiti. […] Oltre l’80% dell’intera biomassa prodotta annualmente nel mondo è già sfruttata. […] Il lasciar fare natalista è oggi irresponsabile e il ‘rispetto della vita’ non può essere esteso a chi non è stato ancora concepito’
(Alain de Benoist, Boulevard Voltaire, 25.1.2020 ; cfr. anche il mio Nascere?).
Il climatologo Luca Mercalli, intervistato da Carlotta Pedrazzini su A Rivista anarchica, conferma che «è più facile cambiare il sistema pensionistico piuttosto che le leggi della termodinamica, eppure questa cosa non riusciamo a capirla. Le leggi fisiche, a differenza dei sistemi pensionistici, sono invarianti, sono così da miliardi di anni e non cambiano secondo i desideri umani. […]
I tre indicatori a cui guardare quando si affronta questo tema sono: risorse disponibili, numero di esseri umani e livello di vita di questi esseri umani. È giusto rendere il mondo più sostenibile con l’economia circolare, facendosi aiutare dalla tecnologia, ma dobbiamo tenere conto che se si vuole stare bene e assicurare a tutti un alto livello di benessere, dovremmo essere 2 miliardi. Invece siamo 8. Perché? Chi ci ordina di continuare a essere sempre di più? […]
Se non inizieremo a mettere in relazione l’aumento demografico e la crisi ambientale, le disposizioni autoritarie arriveranno sicuramente. Lo dimostra l’attuale emergenza sanitaria legata al coronavirus. Non si stanno forse prendendo misure autoritarie? Però le persone con la strizza stanno zitte e le accettano, accettano che si blindino paesi e che si metta la polizia alle porte, ma ci rendiamo conto che si tratta di un coprifuoco che non si vedeva dal 1945? Qualcuno, per caso, ha sollevato il problema della libertà? Quando i problemi ambientali diventeranno pari a quelli oggi percepiti per il coronavirus o peggio, verranno fatte scelte autoritarie. Al contrario, la riduzione della popolazione raggiunta attraverso l’educazione sessuale è una disposizione democratica» (Più siamo peggio è, A Rivista anarchica 442, aprile 2020, pp. 52-55).

Il secondo caso riguarda una delle più profonde cause di violenza e di conflitti, quello che nasce dall’ignorare e dal violare «una delle leggi fondamentali della politica, valida in ogni tempo e luogo e implicita nella parola, per la sua derivazione dal concetto di polis: la tendenza delle popolazioni insediate in un territorio a difenderne i confini fisici – e le consuetudini comunitarie stabilite all’interno di essi – da qualunque tipo di minaccia esterna o di invasione. E migliaia di anni di storia dimostrano che all’infrazione di questo limes (psicologico non meno che materiale) ha sempre corrisposto un insieme di vigorose reazioni» (Marco Tarchi, Diorama letterario, 352, novembre-dicembre 2019, p. 2).

Coloro i quali (dalla appartenenza ideologica e ideale più diversa) ignorano questi due limiti – il numero degli umani e l’identità dei gruppi –  sono destinati a scatenare le più feroci manifestazioni d’odio. Effetto tragico e, appunto, paradossale ma inevitabile poiché iscritto nelle strutture antropologiche collettive.

De Benoist: storia e natura

Alain de Benoist
Le sfide della postmodernità
Sguardi sul terzo millennio
Trad. di Giuseppe Giaccio e Marco Tarchi
Arianna Editrice,  2003
Pagine 311

Fra i molteplici temi affrontati in questo libro da Alain de Benoist, tre mi sembrano racchiudere il significato delle analisi e della proposta unitaria che vi si esprime: una critica articolata e severa al liberalismo, l’alternativa del comunitarismo, la delineazione della complessità e della fecondità di un approccio ecologico.

Prima di essere una teoria politica, il liberalismo rappresenta una ben precisa visione dell’uomo e del suo posto nel mondo. Una visione disincarnata che spoglia il soggetto «di tutte le determinazioni personali, culturali, sociali e storiche» (pag. 114) lasciando al posto della persona e della comunità un individuo la cui pretesa di libertà e di sovranità assoluta si è installata nel cuore della relazioni sociali contemporanee ma che nondimeno rimane del tutto irrealistica, visto che ogni esperienza umana è segnata dal limite e la persona rimane sempre inserita, impigliata, immersa in un insieme di rapporti e di legami fuori dai quali è semplicemente un’astrazione.
Espressione di tale disincarnazione della concreta esperienza dell’esserci nel mondo è –ad altri ma correlati livelli- il prevalere della dimensione finanziaria e speculativa su quella economica e produttiva, vero nucleo della cosiddetta globalizzazione, vale a dire «la conversione dell’intero pianeta alla religione del mercato, i cui teologi e grandi sacerdoti predicano come fine ultimo la redditività» (281), processo favorito dall’estendersi della Rete informatica mondiale, da un nomadismo elettronico che contiene in sé semi di libertà, creatività e socialità grandi e inediti ma che può certo costituire anche una forma di colonizzazione e di capillare diffusione dei modelli nordamericani. In ogni caso, il passaggio che sta avvenendo ormai da tempo dai luoghi ai flussi, dal territorio alla rete, segna la separazione della dimensione economica da quella politica, con il rendersi autonoma della prima in modalità che mai si erano presentate così chiare.
Le tre diverse fasi attraversate secondo Régis Debray dalla mediasfera –logosfera/scrittura, grafosfera/stampa, videosfera/audiovisivi- hanno il proprio culmine non tanto in Internet, dove anzi si assiste a un recupero intenso della scrittura, quanto nello strumento televisivo, vero idolo al quale miliardi di persone in ogni parte del pianeta sacrificano il proprio tempo quotidiano –e cioè tutto ciò che sono- delegandogli pensiero, informazione, senso della realtà (ciò che non passa in televisione semplicemente non esiste), pervenendo a una «espropriazione del soggetto» che fa della televisione «un potente strumento di integrazione nel sistema esistente» (296). La televisione, quindi, è il vero protagonista di ciò che Paul Virilio ha definito globalitarisme, una sovrapposizione e confusione tra realtà e virtualità che costruisce una potenza di convincimento che «va largamente al di là delle capacità di propaganda di cui hanno potuto disporre in passato i regimi totalitari» (291).

Ai pericoli e al dispotismo delle prospettive liberali il libro oppone la risorsa comunitarista, che vede nella società umana un tutto organico e nello stesso tempo distinto in una molteplicità di forme identitarie che garantiscono la persona sia nel suo bisogno di appartenenza sia nel suo desiderio di autonomia da poteri troppo vasti e forniti di una eccessiva capacità di controllo. La difesa della differenza aiuta a evitare sia l’errore internazionalista che vorrebbe erodere le diverse culture e omogeneizzare le comunità, sia l’errore nazionalista che respinge pregiudizialmente l’alterità.
«È dunque tempo di riconoscere l’Altro e di ricordare che il diritto alla differenza è un principio che, in quanto tale, non vale che per la sua generalità (si è autorizzati a difendere la propria differenza solo nella misura in cui si riconosce, rispetta e difende anche quella altrui), e che prende anch’esso posto nel più generale quadro del diritto dei popoli e delle etnie: diritto all’identità e all’esistenza collettiva, diritto alla lingua, alla cultura, al territorio e all’autodeterminazione, diritto di vivere e lavorare nel proprio Paese, diritto alle risorse naturali e alla protezione del mercato ecc.» (148).
Nonostante de Benoist tenti con molta passione di rivalutare il contributo comunitaristico di Jean-Jacques Rousseau difendendolo da ciò che a suo parere è frutto solo di polemica e di fraintendimento di un pensiero certo assai complesso e quindi contraddittorio -rilevando che per il filosofo ginevrino l’uomo non sarebbe per natura “buono” ma soltanto “innocente” e che l’eguaglianza da lui pretesa non sarebbe quella aritmetica delle masse ma quella geometrica della giustizia distributiva che non esclude il permanere e la legittimità delle disuguaglianze di natura- nonostante tutto questo, de Benoist ammette che anche Rousseau si limita a «cambiare monarca: sostituisce il re di diritto divino col popolo, senza mai abbandonare l’idea di una sovranità assoluta» (48) e disegnando una teoria politica sostanzialmente «chimerica» e che corre «seri rischi di sfociare in una forma di tirannide di nuovo tipo, una tirannide tanto più temibile in quanto il sistema, immerso in un’atmosfera eminentemente morale, non enuncia ciò che la politica è, ma ciò che dovrebbe essere» (57-58).

Se gli esseri umani non costituiscono soltanto degli astratti citoyens ma i rappresentanti di luoghi, tempi, culture e comunità, si può meglio comprendere perché le prospettive ecologiste siano un’alternativa netta allo sradicamento globalizzante e significhino la difesa non soltanto della natura in astratto ma dell’affondare in essa dell’elemento umano. La continuità nella specie umana fra natura e cultura, infatti, è profonda. L’evidente specificità di ciò che siamo sgorga dal nostro essere una modalità del vivente che ha bisogni in gran parte identici o analoghi a quella di altre forme dell’essere. È ormai necessario recuperare tale consapevolezza, smarritasi nel prevalere dei monoteismi religiosi sempre correlati a una donazione di centralità all’elemento umano che in realtà ha ridotto l’uomo stesso a manipolatore di ogni cosa (compreso se stesso), a una macchina desacralizzante, a un parassita del pianeta.
Nella sua versione shallow ma soprattutto in quella deep (secondo la distinzione proposta da Arne Naess), il movimento ecologista «è nel contempo conservatore, per il fatto che intende difendere la qualità della vita, la socialità organica, i contesti di vita tradizionali, le specificità culturali e la biodiversità, ed anche rivoluzionario, nel senso che intende rompere in modo radicale con l’ideologia produttivistica che è sottesa nel mondo attuale alla logica planetaria del capitalismo e del mercato» (208).
Al di là, quindi, di destra e sinistra, l’ecologia tenta uno sguardo nuovo sull’abitare la Terra, uno sguardo che rifiuta ogni progressismo ingenuo, liberale o socialista che sia, per affondare nella ricchezza delle tradizioni cosmiche proprie delle millenarie culture che precedono la modernità e sono ancora presenti in tante regioni del pianeta, al fine di comprendere –e comprendendo fare- che «in un mondo la cui meccanizzazione non fa che accentuare il vuoto esistenziale, in un mondo “disincantato” e perciò sempre più governato dall’assurdo, noi aggiungeremmo l’amichevole convivenza con le cose e quell’amore della bellezza che è sempre una forma ulteriore della bellezza dell’amore» (222).

Come si vede, per quanto diversi siano i temi toccati dal libro, tutti possono essere ricondotti alla proposta di una politica più comprensiva della complessità del mondo, più rispettosa della bellezza e del suo futuro.

ὕβϱις

Claudius Schulze / ὕβϱις
in
Gente di Fotografia
Anno XXIV, n. 71, luglio 2018
Pagine 62-69

Il peggiore dei mali è la dismisura, è la ὕβϱις che smarrisce senso, proporzione, mezzi e obiettivi, che tutto confonde nel coacervo di una grandezza pronta a spezzarsi, che si spezzerà. Il primo dei beni è dunque -come concludono gli interlocutori del platonico Filebo (66a)- ciò che è misurato nello spazio, τὸ μέτριον, e opportuno nel tempo, τὸ καίριον. L’epoca presente è invece dismisura. Ed è questo State of Nature che l’opera di Claudius Schulze descrive con l’esattezza di un architetto, di un entomologo, di un filosofo.
Nelle sue immagini l’enormità degli spazi e delle costruzioni umane diventa exemplum di una sproporzione che emerge dentro i fenomeni più diversi come il gigantismo nell’architettura, la bulimia didattica, l’ultraliberismo, la democrazia colonialista, la negazione del genere, lo spettacolo televisivo, i Social Network, il culto per la ‘vita’ a ogni costo, il multiculturalismo e il mondialismo, il dominio della crematistica, e soprattutto la dismisura demografica, l’esponenziale crescita in pochi decenni degli umani in ogni parte del globo.
L’umano non è fatto per vivere da solo e non è fatto per raggrumarsi in termitai. In entrambe le modalità non può che perire. Sta qui il vero cuore di tenebra della questione ambientale, quello dal quale deriva ogni altro rischio, ogni altra distruzione. Siamo già 6 miliardi e mezzo di persone e il nostro numero si accresce di un milione di individui ogni quattro giorni. Numeri e percentuali talmente enormi da non riuscire davvero a intenderle, sino a quando sarà troppo tardi. Le risorse del pianeta, come quelle di ogni altro ente, sono finite.
Di fronte a un’intelligenza così scadente e autodistruttiva, quando non ci sarà più vita sulla Terra -e sembra che non mancherà molto-, quando la morte nucleare avrà reso il pianeta una nebbia indistinta e avvelenata, in attesa di essere inglobata dal Sole e sparire, chi dovesse osservarla da lontano non potrebbe certo immaginare che questa distruzione è frutto delle capacità e della pervicacia di una specie che definiva se stessa Sapiens e si credeva più intelligente di ogni altro animale. Ma così sarà stato.

«Risorse umane»

La filosofia di Martin Heidegger è anche strumento di emancipazione e costituisce uno dei fondamenti teorici più importanti della Deep Ecology.
Lo testimoniano opere, saggi, l’intervista allo Spiegel, testi che hanno a fondamento la celebre espressione secondo la quale «der Mensch ist nicht der Herr des Seienden. Der Mensch ist der Hirt des Seins» (‘l’uomo non è il dominatore degli enti. L’uomo è il pastore dell’essere’, «Brief über den Humanismus» [1947], in Wegmarken, «Gesamtausgabe», Band 9, herausgegeben von Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Vittorio Klostermann 1976, p. 342).
In generale, Heidegger ha saputo cogliere la radice ontologica di fenomeni quali la trasformazione delle persone e dei lavoratori in risorse umane; l’obsolescenza pianificata degli oggetti di uso quotidiano; l’agricoltura intensiva; la distruzione dell’ambiente e quindi dell’umano in esso; la sostituibilità universale; la trasmutazione integrale del vivente a strumento di profitto, per cui «ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi».
Questa riduzione dell’intero a Gestell (impianto) e a semplice Bestand (fondo, magazzino, risorsa) è oggetto di una delle pagine più intense e attuali del seminario che Heidegger svolse a Le Thor nel 1969. Ne riporto alcuni brani.

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Cerchiamo ora di portare allo scoperto questa pre-apparizione dell’evento sotto il velo dell’impianto.
Bisogna cominciare ritornando alla storia dell’essere. Le diverse epoche della storia dell’essere -il differente e successivo sottrarsi dell’essere nel suo destino- sono le epoche dei diversi modi in cui la presenza si destina all’uomo occidentale. Si pensi a una di queste destinazioni, così come essa si destina all’uomo del XIX e XX secolo: in che cosa consiste?
Il modo di questa destinazione è l’oggettualità (come «essere oggetto» dell’oggetto). Ora, più la tecnica moderna si dispiega più l’oggettività si trasforma nell’essere risorsa (Beständlichkeit), in un tenersi-a-disposizione. Già oggi non c’è più nessun oggetto (nessun ente, nel senso di qualcosa che resiste di fronte a un soggetto che lo prende in considerazione), – ci sono ormai soltanto risorse (Bestände), enti che si tengono pronti per essere consumati; si potrebbe forse dire: non ci sono più sostanze, ma mezzi di sussistenza, nel senso di «riserve». Di qui la politica energetica e la politica dello sfruttamento delle risorse agricole, che effettivamente non hanno più niente a che fare con oggetti, ma, all’interno di una pianificazione generale, mettono sistematicamente ordine nello spazio in vista di uno sfruttamento futuro. Tutto (l’ente nella sua totalità) si allinea senz’altro all’orizzonte dell’utilizzabilità, del dominio o, meglio ancora, dell’ordinabilità, di ciò di cui bisogna impadronirsi. Il bosco smette di essere un oggetto (come era per l’uomo di scienza del XVIII-XIX secolo) e diviene, per l’uomo emerso finalmente nella sua vera forma di tecnico, cioè per l’uomo che vede a priori l’ente nell’orizzonte dell’utilizzazione, «spazio verde». Niente può più apparire nella neutralità oggettiva di un «di fronte». Ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi.
La determinazione ontologica della risorsa (dell’ente come riserva di materiali) non è la stabilità (la durata persistente nel tempo), ma l’ordinabilità, la costante possibilità di essere ordinato e adoperato, cioè il permanente star-a-disposizione. Nell’ordinabilità l’ente è posto come fondamentalmente ed esclusivamente disponibile, – disponibile per il consumo nella pianificazione globale.
Uno dei momenti essenziali del modo di essere dell’ente attuale (la disponibilità per un consumo pianificato) è la sostituibilità, il fatto che ogni ente diviene essenzialmente sostituibile in un gioco diventato generale, in cui tutto può prendere il posto di tutto. L’industria dei prodotti di «consumo» e il predominio del «surrogato» rendono tutto questo empiricamente manifesto.
Essere è oggi essere sostituibile. Già l’idea stessa di una «riparazione» è diventata un’idea «antieconomica». A ogni ente di consumo appartiene essenzialmente il fatto che esso è già consumato e chiede di essere sostituito. In ciò abbiamo davanti a noi una delle forme di svenimento (Schwund) del tradizionale, di ciò che viene tramandato di generazione in generazione. […] Riferito al tempo, questo carattere dà come risultato l’attualità. La durata non è più la stabilità del tramandato, ma il sempre-nuovo dell’incessante cambiamento.
[Seminari, (Vier Seminare. Zürcher Seminar), a cura di F. Volpi, trad. di M. Bonola, Adelphi 2003, pp. 140-142]

(Testo tedesco)
Versuchen wir nun, diese Vor-Erscheinung des Ereignisses unter dem Schleier des Ge-stells ins Freie zu bringen.
Der Anfang muß durch einen Rückgang auf die Geschichte des Seins gemacht werden. Die verschiedenen Epochen der Geschichte des Seins – das unterschiedliche und aufeinander folgende Sichentziehen des Seins in seinem Geschick – sind die Epochen der verschiedenen Weisen, in denen sich dem abendländischen Menschen die Anwesenheit zuschickt. Bedenkt man eine dieser Schickungen, wie sie sich im 19. und 20. Jahrhundert dem Menschen zuschickt, worin besteht sie ?
Die Art dieser Schickung ist die Gegenständlichkeit (als Gegenstandsein des Gegenstandes). Je weiter sich nun die moderne Technik entfaltet, umso mehr verwandelt sich die Gegenständlichkeit in Beständlichkeit (in ein sich-zur-Verfügung- halten) . Schon heute gibt es keine Gegenstände mehr (kein Seiendes, insofern es einem Subjekt gegenüber, das es in den Blick faßt, standhält), – es gibt nur noch Bestände (Seiendes, das sich zum Verbrauchtwerden bereit hält) ; im Französischen könnte man vielleicht sagen : es gibt keine Substanzen mehr, sondern Subsistenzmittel im Sinne von »Vorräten«. Daher die Energiepolitik und die Politik der Bodenbewirtschaftung, die es tatsächlich nicht mehr mit Gegenständen zu tun haben, sondern den Raum innerhalb einer allgemeinen Planung systematisch im Hinblick auf zukünftige Ausbeutung ordnen. Alles (das Seiende im Ganzen) reiht sich ohne weiteres in den Horizont der Nutzbarkeit, der Beherrschung oder besser noch der Bestellbarkeit dessen ein, dessen es sich zu bemächtigen gilt. Der Wald hört auf, ein Gegenstand zu sein (was er für den wissenschaftlichen Menschen des 18. und 19. Jahrhunderts war) und wird für den endlich in seiner wahren Gestalt als Techniker hervorgetretenen Menschen, das heißt für den Menschen, der das Seiende a priori im Horizont der Nutzbarmachung sieht, zum »Grünraum«. Es kann nichts mehr in der gegenständlichen Neutralität eines Gegenüber erscheinen. Es gibt nichts mehr als Bestände : Lager, Vorräte, Mittel.
Die ontologische Bestimmung des Bestands (des Seienden als Materialvorrat) ist nicht die Beständigkeit (die beständige Dauer), sondern die Bestellbarkeit, die beständige Möglichkeit, aufgeboten und bestellt zu werden, das heißt das dauernde zur-Verfügung-stehen. In der Bestellbarkeit ist das Seiende gesetzt als von Grund auf und ausschließlich verfügbar, – verfügbar für den Verbrauch in der Planung des Ganzen.
Eines der wesentlichen Momente der Seinsweise des derzeitigen Seienden (der Verfügbarkeit für einen planmäßig gelenkten Verbrauch) ist die Ersetzbarkeit, die Tatsache, daß jedes Seiende wesenhaft ersetzbar wird in einem allgemein gewordenen Spiel, wo alles an die Stelle von allem treten kann. Die Industrie der »Verbrauchs«produkte und die Vorherrschaft des Ersatzes machen das empirisch offenkundig.
Sein ist heute Ersetzbarsein. Schon die Vorstellung einer »Reparatur« ist zu einem »antiökonomischen« Gedanken geworden. Zu jedem Seienden des Verbrauchs gehört wesentlich, daß es schon verbraucht ist und somit nach seinem Ersetztwerden ruft. Darin haben wir eine der Formen des Schwundes im Uberlieferungsmäßigen vor uns, dessen was von Generation zu Generation weitergegeben wird.  […]  Auf die Zeit bezogen, ergibt dieser Charakter die Aktualität. Die Dauer ist nicht mehr die Beständigkeit des Überkommenen, sondern das Immerneue des unablässigen Wechsels.
(Seminare, «Gesamtausgabe», Band 15, herausgegeben von Curd Ochwadt, Vittorio Klostermann 1986, pp. 367-369).

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