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Matematica

Il teorema del delirio
di Darren Aronofsky
USA, 1997
Con: Sean Gullette (Maximilian Cohen), Mark Margolis (Sol Robeson), Ben Shenkman (Lenny Meyer), Samia Shoaib (Devi)
Trailer del film

Duecentosedici, 216. Questo il numero che a poco a poco emerge dalle nebbie dentro le quali è immerso Max Cohen, un giovane matematico geniale e affetto sin dall’infanzia – quando a 6 anni guardò direttamente il Sole –  da una serie di disturbi che gli procurano allucinazioni e angosce, per sedare le quali deve assumere farmaci in quantità. Va periodicamente a trovare il suo Maestro, che ha rinunciato (o almeno così sembra) alla matematica. Riceve periodicamente le insistite telefonate di una agente di Borsa, che intende utilizzarlo per trovare un modo di predire l’andamento dei titoli, e dunque moltiplicare a dismisura i profitti. In un bar incontra un altro ebreo ma ortodosso e praticante, che lo invita in sinagoga, per discutere della struttura interamente matematica della Tōrāh, nella quale ogni lettera corrisponde a un numero.
Max vaga tra una città che gli vibra intorno senza posa, i miserabili corridoi della metropolitana di New York, il proprio appartamento occupato da un enorme computer che lui chiama Euclide. Euclide a un certo punto sembra fondersi e mentre lo fa sputa dai propri circuiti un numero composto da 216 cifre. Il suo Maestro gli confessa che è accaduto anche a lui ma di non dare peso alla cosa poiché si tratta soltanto di un baco informatico. Gli emissari della Borsa lo rapiscono per estorcergli il numero. I rabbini della sinagoga gli spiegano che quelle 216 cifre nell’ordine da lui scoperto sono «il vero nome di Dio». Un numero e un nome che Max non ha registrato su nessun supporto ma soltanto nella propria memoria, nella propria delirante testa, alla quale sembra voler rinunciare…

Un film ibrido, che mescola precisione assoluta e follia scatenata; l’ordine supremo delle matematiche e la lurida sporcizia dei luoghi; i soldi e il santo. Film che comincia con un racconto sul Sole che periodicamente si ripete lungo tutta la vicenda; un’opera che condivide per intero l’ipotesi platonica e galileiana che la natura sia fatta di numeri; una trama che aspira al potere dell’eterno nell’esatto significato del Timeo: « ἀλλὰ χρόνου ταῦτα αἰῶν αμιμου μένου καὶ κατ᾽ἀριθμὸν κυκλουμένου γέγονεν εἴδη. Perché queste sono forme del tempo che imita l’eternità e che procede circolarmente secondo il numero» (38a, 213).
La formula cercata da Max Cohen gli sta continuamente davanti nella ripetizione di enti ed eventi, nella spirale delle conchiglie, delle galassie, delle ruote, della sezione aurea che struttura il Partenone e  molti altri monumenti antichi, nella serie di Fibonacci, per la quale il numero successivo è la somma dei due precedenti. 1+1=2, 1+2=3, 2+3=5, 3+5=8, 5+8=13, 8+13=21, 13+21=34, 21+34=55 e così via .
In ogni tentativo di comprendere con oggettività il mondo che non sia sobrio, rigoroso e razionale – freddezza quale soltanto la filosofia può dare – la ricerca della «formula che mondi possa aprirti» (Montale) non può che confluire nel delirio del cercante. La metafisica è invece, dentro le matematiche e oltre le matematiche, la più lucida delle scienze. La metafisica è l’unica, vera,  appassionata freddezza.

The Wrestler

di Darren Aronofsky
 Con: Mike Rourkey (Randy “The Ram” Robinson), Marisa Tomei (Cassidy), Evan Rachel Wood (Stephanie Robinson)
USA, 2008

wrestler

La vita di un professionista del Wrestling vista dal di dentro, quando ormai il lottatore è in declino e costretto a svolgere altri lavori, compreso il commesso al bancone di un supermercato. Dopo un infarto e per recuperare il rapporto con la figlia, che lo detesta, decide di abbandonare quel mondo fatto di vecchie glorie, di compagni in carrozzina che firmano autografi a pagamento, di combattimenti sempre più finti ma anche sempre più violenti, che arrivano a utilizzare filo spinato, cocci di vetro e persino graffettatrici pur di eccitare il pubblico pagante. Ma “Ram” si rende conto che fuori dal ring la sua vita non ha senso e non ha altre famiglie. Accetta quindi la “rivincita” di un epico confronto di vent’anni prima col lottatore Ayatollah, detto “la bestia del Medio Oriente” e che ora vende automobili in Arizona. E vuole un combattimento vero, nonostante i rischi per il suo cuore…

Il Leone d’Oro della Mostra del Cinema di Venezia dello scorso settembre è andato a un’opera interessante ma non indimenticabile. Il film si regge tutto su un disfatto e bravissimo Rourkey, che non interpreta ma che è il suo personaggio, al quale sa dare uno spessore malinconico e quotidiano, eroico e a suo modo puro. Nel confronto finale, la bandiera dell’Iraq viene disonorata sul ring (lo ricordo a quanti gridano di indignazione quando si bruciano le bandiere degli USA…) e -senza che però sia questo l’obiettivo principale del film- il wrestling diventa l’emblema di una società civile assolutamente rozza come in molte parti del Paese è quella degli Stati Uniti. È un merito di Aronofsky descrivere senza infingimenti uno dei lati oscuri di quella nazione, lo squallore dell’abitare, del vivere, delle relazioni umane. Che sia finzione o realtà, il pubblico vuole sangue e urla di soddisfazione quando lo vede scorrere. Ma non si racconta che noi “moderni”, diventati così umanitari, avremmo superato la “barbarie” dei gladiatori?

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