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Illuminismo e disincanto

Dario Generali. Per la conoscenza, per la πόλις
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
26 gennaio 2025
pagine 1-9

Un esercizio attento e critico della razionalità per comprendere il mondo e per agire in esso tramite tale comprensione. Anche questo è il fondamento dell’opera e dell’esistenza di Dario Generali, uno dei maggiori storici della scienza contemporanei.
Allievo di Mario Dal Pra; cresciuto nel fervore della Statale di Milano negli anni nei quali era ancora ben presente e viva la plurale scuola di pensiero scaturita dal lavoro di Antonio Banfi, Enzo Paci, Ludovico Geymonat; massimo esperto al mondo dell’opera di Antonio Vallisneri e in generale della scienza settecentesca come essa emerge dagli immensi epistolari dei suoi protagonisti, Generali non si è limitato a essere uno studioso, un erudito, uno storico e filosofo ma ha posto il suo lavoro al servizio di un costante impegno civile, là dove ha svolto la propria opera di cittadino e di docente.
Chi ha la fortuna di conoscere Generali non si stupisce certo di quanto ho cercato di raccontare e analizzare nel testo che qui segnalo. A vederla, questa persona potrebbe benissimo stare nel pieno degli eventi francesi dell’Ottantanove. Non però tra i gruppi più illusi sulla virtù degli umani ma tra quelli che univano e uniscono al disincanto sui tanti limiti della nostra specie una determinazione totale nel perseguire sempre il vantaggio dell’intero corpo sociale e mai soltanto quello di alcuni privilegiati.

Pneuma

Al di là della speranza, per il respiro
Laboratorio dell’ISPF [Istituto per la Storia del pensiero filosofico e scientifico moderno] Rivista elettronica di testi, saggi e strumenti
XXI [14], dicembre 2024
Pagine 1-8

ABSTRACT
Beyond hope, for breath. One of the effects of political and economic liberalism – in Italy and generally in the Anglo-Saxon dominated West – is a classist educational system, in which obtaining diplomas and degrees becomes increasingly easy, triggering an inflationary dynamic that in turn results in social inequality and cultural ignorance. A recent book by Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, shows in a clear, dramatic, and vivid way the roots of this catastrophe of knowledge and the conditions and ways still possible to stop it. 

SOMMARIO
Uno degli effetti del liberalismo politico e del liberismo economico – in Italia e in generale nell’Occidente a dominio anglosassone – è un sistema formativo classista, nel quale l’ottenimento di diplomi e lauree diventa sempre più facile innescando una dinamica inflattiva che a sua volta ha come effetto l’iniquità sociale e l’ignoranza culturale. Un recente volume di Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, mostra in modo limpido, drammatico e vivace le radici di questa catastrofe della conoscenza e le condizioni e i modi ancora possibili per fermarla. 

Sine ira et studio. Per Dario Generali

Giovedì 12 dicembre 2024 a Milano (ore 18.00 – Istituto ‘Severi-Correnti’) presenteremo il volume Sine ira et studio. Metodo e impegno civile per una razionalità illuministica. Scritti offerti a Dario Generali, a cura di Francesco Luzzini (Mimesis, 2024).


Nella sua introduzione al libro Francesco Luzzini scrive:
«Quello che ha fatto lo ha fatto per tutti, che non significa per accontentare tutti. Lo ha fatto per lo stato di diritto, per una scuola davvero capace di valorizzare il merito e di migliorare le prospettive di vita dei suoi studenti, per l’autonomia e la qualità dell’insegnamento ad ogni livello, per una cultura non asservita agli interessi politici e alle logiche di consorteria, per l’eccellenza della ricerca, per il superamento delle ottusità di confine tra i diversi campi del sapere, per un’università finalmente libera dalla cancrena delle mafie clientelari e dalle ingerenze del mercato: in una parola, per la res publica».
Dario Generali ha sempre lavorato a una storia «critica» della scienza, la quale non deve essere né apologetica né dissolutrice e  deve fondarsi sugli strumenti rigorosi della filologia e dell’erudizione, «spesso tanto ingiustamente disconosciuti quanto assolutamente indispensabili a penetrare opere, documenti, avvenimenti e ramificazioni di idee e teorie», come ha scritto in uno dei suoi libri (Storia e storiografia della scienza. Il caso della sistematica, Franco Angeli Editore 2002, p. 43).
Filologia ed erudizione debbono porsi al servizio di una capacità ermeneutica ed epistemologica in grado di cogliere l’intero di un’epoca o di un problema; da sole sono quindi insufficienti ma rimangono indispensabili.
Un altro elemento dell’epistemologia di Generali è il superamento del pregiudizio, tanto radicato quanto sterile, delle due culture – scientifica e umanistica – fra di loro separate. Una dicotomia che tuttora permane in entrambi i campi, e che ha delle ricadute didattiche assai negative, ma si tratta di un pregiudizio il quale secondo Generali non potrà durare ancora molto di fronte ai tanti e preziosi risultati della ricerca storiografica.
La scienza è dunque, deve essere, una  comprensione del sapere umano nella sua totalità.

Nell’introduzione al volume che gli abbiamo dedicato, Luzzini nota inoltre e con grande esattezza che una caratteristica peculiare della personalità di Generali è «quella capacità di far fronte con distacco critico alle questioni intellettuali così come ai casi della vita, di agire sempre in maniera razionale e mai sulla spinta dell’emotività – sine ira ac studio, appunto – che è uno dei tratti più distintivi di Dario, assieme alla sua immensa sensibilità umana».
Come amico da tanti anni di questo filosofo e di questa persona, non posso che pienamente concordare.

Sul metodo

Sul metodo. Epistemologia e cosmologie
in Sine ira et studio. Metodo e impegno civile per una razionalità illuministica
Scritti offerti a Dario Generali

a cura di Francesco Luzzini
Mimesis, Milano-Udine 2024
Pagine 351-371

Indice
-Epistemologia
-Feyerabend, contro il metodo
-Il caso dell’etere
-Cosmologie
-Per un’epistemologia realistica

Dario Generali è uno dei più importanti storici della scienza contemporanei. In occasione dei suoi settanta anni, allievi e amici gli hanno offerto un imponente volume di 1128 pagine, al quale sono stato felice di collaborare con un contributo dedicato al concetto di metodo. Se infatti le scienze hanno certamente a che fare con la verità e con la realtà, bisogna aggiungere  che verità e realtà non costituiscono i loro ambiti specifici poiché il cuore delle scienze è il metodo, sono le procedure, è il come, prima del che.
La ricca, complessa, intricata vicenda delle scienze occidentali, delle loro filosofie, della loro storia, va dunque letta sotto la luce di un criterio di demarcazione non ‘tra ciò che è vero e ciò che è falso’ ma ‘tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è’, intendendo per scientifico un linguaggio, una modalità, una procedura. Un metodo, appunto. Alla luce di questa semplice ma fondamentale consapevolezza si spiegano anche la varietà di teorie e metodi che caratterizza la vicenda scientifica.
Quello scientifico è soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere.
La verità, in ogni sua forma ed espressione, è un punto di vista nomade e non un edificio costruito per sempre. Non esiste dunque la scienza, esistono una ricchezza di ricerche sulla materia, sul cosmo, sulla realtà. Ricerche la cui fecondità si basa sulla varietà di approcci, sul rifiuto del dogma (principio di auctoritas), sul confronto quanto più libero possibile tra i ricercatori, sul rigore del metodo, sulla curiosità che spinge a porre domande sempre nuove a se stessi e al reale.
Metto qui a disposizione il mio saggio, il frontespizio, l’ampio indice delle sezioni e dei capitoli che compongono il volume e l’introduzione del curatore Francesco Luzzini, dal titolo Perché un maestro è raro. È un testo assai bello, che racconta e descrive in modo esplicito, appassionato e rigoroso la storia e la condizione degli studi e della formazione in Italia (e non solo), sul cui sfondo si stagliano la figura e l’opera di Dario Generali, che di questa decadenza rappresentano esattamente l’opposto.

Patriarcato

La lettera che qualche giorno fa ho ricevuto da Dario Generali, uno dei massimi studiosi europei di Storia della scienza, è un esempio di come vadano letti i fatti collettivi, sottraendosi al massiccio condizionamento dell’informazione dominante, alla retorica più penosa, ai valori diventati strumento di una società ossessionata e fragile. La limpidezza, coerenza e plausibilità di quanto scrive Generali è una lucida alternativa al desolato paesaggio mediatico e sociologico nel quale siamo da tempo immersi. Riproduco con la sua autorizzazione il testo.

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Sono rimasto colpito dall’insistenza delle proposte di corsi di educazione all’affettività a scuola, che sarebbero, secondo me, le solite inutili perdite di tempo a scapito dell’insegnamento. A mio parere, detta in breve, servirebbe piuttosto una formazione seria che metta gli studenti nelle condizioni di affrontare ogni loro problema con razionalità, senza farsi travolgere da fragilità psicologiche ed emotività surriscaldate. Anche l’insistenza sul paternalismo e sul maschilismo mi sembra fuori luogo. In primo luogo è difficile definire il nostro paese, almeno sul piano istituzionale, paternalista. Il presidente del Consiglio è donna, donna è il ministro dell’Università e della ricerca, donna è la presidente del CNR. Anche l’ultimo vestigio del maschilismo è stato superato con l’attribuzione ai figli anche del cognome della madre. Un maschilista, poi, non insisterebbe mai per tenersi una ragazza o una donna che se ne vuole andare, perché la sostituirebbe subito con altre. Quando mai un maschilista pietirebbe con una donna per non essere lasciato? Che vada pure dove vuole, ne troverebbe subito altre. Quando un uomo passa alla violenza sulle donne in realtà ha una psicologia malata e lo è tanto più quanto quella violenza, per non parlare di quando giunge a ucciderle, si ritorcerà poi pesantemente su di lui, rovinandogli la vita o anche inducendolo poi a suicidarsi per sfuggire alle conseguenze del suo gesto folle.
Capirei di più se queste azioni avvenissero a seguito di azioni persecutorie da parte di donne. Come far togliere ingiustamente l’affido dei figli, cacciare il marito di casa, farsi pagare gli alimenti e ospitarci invece un amante, con i figli piccoli che finissero per identificarlo come il loro padre, ecc. Ma prendersela con una fidanzata che se ne vuole andare è chiaro segno di follia e di patologica debolezza. Paternalismo e maschilismo c’entrano secondo me ben poco.
Come sempre, in queste discussioni, quella che latita è la razionalità.
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A conferma delle riflessioni di Generali segnalo un mio breve intervento pubblicato più di dieci anni fa, il 20.10.2012, riferito anch’esso all’assassinio di una ragazza da parte del suo ex fidanzato.
Ne riporto qui il contenuto.

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Un uomo di 23 anni, Samuele Caruso, ha ferito a Palermo con un centinaio di coltellate la ragazza di diciotto anni che lo aveva lasciato e ha ucciso la sorella di lei, diciassettenne, che cercava di difenderla.
Eventi di questo tipo si ripetono con regolarità. Quali le ragioni? Possono essere numerose e diverse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di maschi insicuri e di gelosia patologica. Vero. Maschi resi tali – soprattutto nel Sud mediterraneo – anche dal mancato affrancamento dalla figura della madre. Molti sociologi e donne parlano di femminicidio. Vero anche questo.
Ma credo ci sia anche una motivazione di tipo educativo. Uno straordinario racconto di Friedrich DürrenmattIl figlio – narra di un padre che aveva allevato il figlio in solitudine «esaudendogli ogni desiderio». Quando il ragazzo quindicenne esce dalla villa dove aveva sino ad allora vissuto, torna «ventiquattro ore dopo a rifugiarsi dal padre, avendo brutalmente ucciso una persona che si era rifiutata di dargli da mangiare senza pagare» (Racconti, Feltrinelli 1996, pp. 13-14). La responsabilità è anche e soprattutto dei genitori, dei nonni, dei maestri, dei professori. Di tutti quegli adulti che, rispetto alla fatica che ogni negazione argomentata comporta, preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti. Quando un bambino e ragazzo riceve sempre da coloro che dovrebbero educarlo dei “sì” (non sia mai che il pargolo subisca dei “traumi”), è chiaro che poi non comprende come sia possibile che qualcuno, una coetanea ad esempio, gli possa dire di no. E scatta la reazione del bambino che pesta i piedi per ottenere il suo giocattolo.
Aveva e ha perfettamente ragione Giuliana Ukmar nel coniare la formula «Se mi vuoi bene, dimmi di no». Aveva ragione a stigmatizzare il «permissivismo esasperato» che induce a ritenere che « “volere” una cosa significa, automaticamente, averla. […] Se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d’onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura». Un delirio che fa dei propri desideri il criterio assoluto del mondo e che quindi non tollera che una donna possa lasciarti.
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Avevo dunque accennato ai professori che «preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti», atteggiamento che in ambito universitario diventa anche il distribuire esami e lauree in modo del tutto arbitrario e fuori legge, come nel caso che ho documentato qui: Lauree. Sempre nel testo del 2012 rinviavo a una riflessione ancora precedente, del 2007, intitolata Contro la madre, che chiudevo ricordando le parole di Baudrillard: 

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«Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, pag. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal suo grembo di tenebra.
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Parole di sedici e di tredici anni fa, dunque, che oggi confermo pienamente anche alla luce di ciò che da allora va accadendo; parole con le quali tento una lettura un poco meno omologata e per la quale – senza che ci sia da sorprendersi – è in realtà una mancata emancipazione dalla madre, è un eccesso di matriarcato a rendere alcuni maschi affettivamente dipendenti dalle donne che desiderano e patologici sino all’orrore.

Scuola dell’ignoranza

La scuola del liberismo e la crisi delle scienze europee
in La scuola dell’ignoranza
A cura di Sergio Colella, Dario Generali e Fabio Minazzi
Mimesis 2019
Pagine 118-140

Grande è la difficoltà dell’educare. Nonostante  la centralità che attribuisce all’educazione, Platone esclude un’uguaglianza meccanica dei suoi risultati; sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del peso dell’apprendere; è convinto, infine, che la vera educazione consista nel far emergere qualcosa di totalmente autonomo dall’educante e che è presente invece nell’educato. Persino per i Sofisti e per Isocrate lo studio e l’esercizio non bastano se non sono sostenuti da un adeguato talento naturale. Se uno di questi tre elementi viene a mancare, l’educazione non può che fallire.
La struttura del fatto educativo è socratica. Nessun docente può garantire alcun risultato se in chi lo ascolta non c’è predisposizione all’apprendere e volontà di riuscirci. L’educatore non è onnipotente; l’educando non è una macchina plasmabile in qualsivoglia forma; l’educazione è rapporto fra persone, incontro di libertà.
Scuole e università realmente democratiche dovrebbero basare le proprie valutazioni su criteri non di fortuna familiare, di padrinaggio politico, di appartenenza ideologica o di promozione indiscriminata, ma sul merito personale, sulla competenza e sulla volontà. Regalando a tutti dei diplomi e delle lauree frutto di un insegnamento dequalificato e superficiale –e quindi inutile–, i “riformatori”  all’opera in Occidente negli ultimi decenni stanno confermando in realtà la sostanza vecchia e classista dei loro progetti, che si esprime anche nella Società dello spettacolo diventata la Società dell’ignoranza.
Un’ignoranza che non sa di esserlo o che persino si vanta di esserlo. Molte persone ritengono infatti del tutto normale rinunciare ai fondamenti del pensiero argomentativo, con il quale si cerca di dimostrare le proprie tesi, a favore di una esposizione fondata sul sentito dire delle piattaforme digitali, sul principio di autorità, su impressionismi psicologici, su una comunicazione aggressiva.

Indice del saggio
-Uno sguardo al recente passato delle riforme scolastiche
-Effetti delle riforme scolastiche sulla formazione universitaria
-Sul finanziamento della ricerca
-Università, società, cultura
-Conoscenze e competenze
-Grecità e Globalizzazione
 

[Photo by Brandi Redd on Unsplash]

Sulla ricerca

Il Volume 109, Number S1 | December 2018 della prestigiosa rivista Isis. A Journal of the History of Science Society ha pubblicato un breve saggio di Francesco Luzzini, introduttivo alla «Current Bibliography of the History of Science and its cultural influences 2018».
Luzzini analizza e descrive senza infingimenti il danno che le normative e le procedure dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) hanno inferto in Italia alla ricerca e alla sua diffusione, soffermandosi in particolare, ma non solo, sulla separazione tra riviste scientifiche ‘normali’ e riviste di fascia A, distinzione per la quale il valore di un testo non dipende dal suo contenuto ma dalla sede che lo pubblica; sul peso dato al fattore quantitativo rispetto alla qualità delle indagini, delle ricerche e dei risultati conseguiti; sull’eccessiva importanza attribuita agli articoli di rivista rispetto alle monografie, che sono invece ed evidentemente fondamentali nell’ambito delle scienze umane; sul disconoscimento dell’impegno e del tempo necessari per un’autentica qualità della ricerca -edizioni critiche e monografie richiedono anni di lavoro-, a favore di pratiche frenetiche di scrittura i cui risultati rimangono spesso conformisti nell’approccio e superficiali negli esiti.
Le contraddizioni, le assurdità, le scorrettezze dell’Anvur e di molti accademici emergono da questo testo con inesorabile lucidità. Luzzini scrive tra l’altro:

«A surprisingly large amount of brilliant, rigorous, and innovative research comes from publications that are deemed marginal—or are not considered at all— by the milieu of Italian academia» (p. 4)

«Quantitative assessments and the use of absurdly rigid disciplinary boundaries are detrimental to interdisciplinary research and to those fields, such as the humanities, that should be evaluated on a qualitative basis. Actually, the metrics frenzy is not just an Italian problem, but a global one» (p. 10).

«In any case, this system has had a deleterious effect on scholarly careers and scholarship alike. In the humanities, including the history of science, the combination of quantitative assessment criteria and academic cronyism has continued to distort the way publications are perceived and valued in Italy. In fact, journal articles (especially those published in “Class-A” journals) are far more important in the eyes of ANVUR than other research products such as, say, book chapters or conference proceedings; and this is true regardless of their quality.
The bibliographical implications of this phenomenon are as clear as they are unsettling. There are, of course, many philosophical and historical journals in Italy that contain excellent research work. However, publishing an essay in a high-ranked journal does not necessarily make it good—especially in a context like Italian academia, where clientelism and nepotism are rampant» (p. 11).

«The preparation of a critical edition is a time-consuming and energy-draining endeavor that requires years of interdisciplinary training and philological, linguistic, historical, and scientific research, and—last but not least—a relatively stable academic position. And yet, since the distorting effects of the assessment parameters introduced by ANVUR make works such as monographs or critical editions no more important than articles published in “Class-A” journals, few young scholars invest their time and energies in wearying, difficult, and (academically) unrewarding long-term projects, despite the high scholarly merit that these projects produce» (p. 12)

Luzzini offre inoltre un resoconto delle migliori opere di storia della scienza pubblicate di recente in Italia. Tra queste emerge l’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Vallisneri coordinata da Dario Generali, e altre opere di questo studioso che è ormai tra i più prestigiosi storici della scienza in Europa, i cui lavori -suoi personali e quelli del gruppo di ricerca che intorno a lui si raccoglie– costituiscono un prezioso patrimonio per chiunque voglia comprendere la genesi, le dinamiche e i risultati delle scienze della vita in età moderna. E questo conferma che «light and shadow have intertwined to form a contradictory and entangled pattern of quality and mediocrity, and this often makes it difficult to keep good and bad scholarship apart» (p. 13).
Consiglio quindi la lettura integrale del saggio, che può essere liberamente scaricato dal sito della Rivista pubblicata dall’Università di Chicago: Bibliographical Distortions, Distortive Habits: Contextualizing Italian Publications in the History of Science.

[Photo by Patrick Robert Doyle on Unsplash]

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