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Dada

DALÍ, MAGRITTE, MAN RAY E IL SURREALISMO
Capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen
MUDEC – Museo delle Culture, Milano
A cura di Els Hoek e Alessandro Nigro
Sino al 30 luglio 2023

Paul Delvaux, La ville rouge ,1944

A Magritte è dedicata un’intera sala, giustamente, quella che chiude la mostra e dove sembra che le opere rispettino le regole della prospettiva, della figura e della luminosità ma che le sconvolgono dall’interno. E però non c’è soltanto Magritte e neppure soltanto Dalí o Man Ray. Né solo Duchamp, Breton, Max Ernst. No, è proprio un ludico sabba di pensieri, manufatti, deliri e invenzioni quello che si vede e che si visita al Mudec di Milano. Spazio/Museo che è dedicato in particolare all’etnologia e all’antropologia.

Magritte, La recherche del’absolu, 1967

Profondo fu infatti l’interesse dei surrealisti per le culture e le opere di gruppi umani lontani nel tempo e nello spazio: dai nativi del Nord America ai popoli dell’Oceania. Ad accomunare surrealismo e culture tribali sono molti elementi, in particolare la magia, l’animalità, il sogno, la metamorfosi.
Ad accomunare il surrealismo con l’umano è il desiderio, che Breton definì «l’unico padrone» che possa essere accettato, è l’eros, è la potenza dei corpi. La geneaologia del movimento affonda in Hieronymus Bosch, nel marchese De Sade, in Lautréamont. Il metodo è in gran parte l’automatismo, il collage di elementi disparati e casuali, a partire dal celebre «le cadavre exquis boira le vin nouveau».
Con i surrealisti ci si diverte sempre. L’esito è infatti un puro gioco, l’anarchismo metodologico, l’occhio allo stato selvaggio, il dadaismo.

Miró, Monsieur et madame, 1969

 

Infine, è da vedere qualche brano dal film di Renè Clair  Entr’act (1924).

Europae / Segno

Europae
Associazione Lyceum – Scuola delle Cose  – Oliveri (Messina)
A cura di Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo
Sino al 19 dicembre 2021

La disponibilità della Fondazione Mudima di Milano e la tenacia di Nino Sottile Zumbo hanno prodotto un piccolo miracolo, hanno fatto sì che in un paesino della riviera tirrenica della Sicilia convergessero ventotto tra i più importanti artisti del Novecento e del XXI secolo, tra i quali Francis Bacon, Christo, Marcel Duchamp, Lucio Fontana, Mimmo Rotella, Daniel Spoerri.
La poetica Dada e il gruppo Fluxus dominano la mostra di di Oliveri che è «la prima di una serie di mostre sull’Arte moltiplicata: serigrafie, grafiche, multipli, libri  d’artista dei maggiori artisti europei» (D. Di Maggio, La Scuola delle Cose, p. 1). Il titolo della mostra nasce dal fatto che «secondo alcuni linguisti il termine Europa risale all’etimo eurus (ampio) e ops (occhio): l’Europa è continente dall’ampia visione» e uno dei suoi obiettivi è contribuire a «un’Europa non di cartapesta, ma comunità di destino», scrive Sottile Zumbo con accenti heideggeriani (La Scuola delle Cose, p. 2)
Quella di Oliveri è un’antologia del Contemporaneo permeata dai simboli in bronzo di Spoerri, posti quasi a difesa e a significato dell’intero evento, che accoglie invenzioni cinematiche, corpi contratti e insieme dilatati, simboli arcaici, poesie grafiche, il sangue, l’oro, la luce, le linee, i segni, le geometrie, l’astratto e il materico. Che accoglie insomma alcune delle espressioni e dei capisaldi di un’arte la cui tensione verso la purezza della forma svicola, converge e si compie nella centralità ed essenzialità di ogni segno, anche del più piccolo, periferico, apparente; converge nel gioco tra Gegenstand e Bedeutung, tra il dato e il significato, poiché ogni segno è un oggetto/evento composto di significante, significato e riferimento. E questo accade perché l’umano «is a sign; so, that every thought is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total of myself; for the man is the thought» (Peirce, Collected Papers, 5. 314). Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi, un mondo che è sempre temporale.
«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne, v. 1), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno. Anche per questo le forme contemporanee significano sempre tutto e non hanno bisogno di significare nulla di specifico, limitato e particolare. Anche per questo l’arte contemporanea, qualunque cosa si indichi con tale espressione, è un’ermeneutica della materia. Poiché  «qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete» (C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, Paravia 1955, p. 31). La natura più profonda del segno consiste in questo suo legame con la verità molteplice del mondo, nel suo saperla dire, indicare, custodire.
Ed è esattamente questo che le invenzioni molteplici, diverse, enigmatiche e avvolgenti di Europae operano nello spazio: dicono, indicano, custodiscono.

Catania dadaista

È una di quelle notizie che possono arrivare solamente da questa terra luminosa e perduta, da quest’Isola che probabilmente non esiste se non come sogno di qualche dio impazzito o ubriaco oppure agonizzante nel ricordo di trascorse glorie. A «Catania la guida turistica è un muto» recita un titolo del quotidiano locale.

Magnifico, fantasioso, malinconico e impensabile evento. Musei, città, istituzioni di tutto il mondo “ce la ponno sucare”, come si dice in questo luogo dadaista, sempre uguale e ogni volta assolutamente imprevedibile. Soltanto dal cuore lavico di Catania, un cuore mobile e però pietrificato e spento, possono sorgere dei sordi impiegati nei centralini telefonici, dei ciechi pagati per osservar le stelle, degli analfabeti alla guida di tutte le possibili accademie, dei servi al potere.

DADA e SURREALISMO riscoperti

Roma –  Complesso del Vittoriano
Sino al 7 febbraio 2010

duchamp

Dada è gioco, gratuità, slancio oltre i significati, nichilismo che sa come senso non si dia se non quello che alle forme e al tempo noi per avventura, fortuna, talento riusciamo a offrire. È il divertimento che dando a ognuno il compito di scegliere una parola all’insaputa dell’altro crea la prima frase -celebre, inquietante, enigmatica e insensata- che da allora divenne il nome stesso del gioco: «Il cadavere squisito berrà il vino nuovo».
Surrealismo è la profondità concettuale che sa come la realtà sia una costruzione della mente e la veglia un risultato del sogno. I surrealisti trasformano dunque in colore e forma la materia dei sogni. Il risultato non può che essere l’orrore, per quanto lieve e divertito. C’è e non poteva non esserci nel Surrealismo un sentore profondo di cadavere (appunto) perché quando la mente sogna non fa altro che perlustrare i confini della propria morte, l’impensabile del non più esserci una volta che si è stati.
Ma in Dada e nel Surrealismo non è possibile trovare alcun legame tra i vari artisti. Ognuno, per definizione, va per conto proprio; da sé sperimenta, crea linguaggi anche irriducibili e inconfrontabili coi linguaggi degli altri. E quindi se al Vittoriano si possono toccare i celebri readymade di Duchamp (la ruota di bicicletta sul piedistallo di legno, la fontana-orinatoio, la vanga appesa al tetto…) o le sue gioconde baffute, l’occhio può spaziare molto oltre, in una difforme varietà di espressioni: i 63 attaccapanni di Man Ray, il paradossale invito al viaggio in una stanza chiusa di Pierre Roy, il pianoforte afono e capovolto di John Cage, il potente castello/roccia sospeso tra mare e cielo di Magritte, il fallo costruito con legno e clessidre (Coming and Going) di Marcel Mariën, gli scheletri di Delveaux in tranquilla attesa della liberazione, le sculture arcaiche e insieme avveniristiche di Alberto Giacometti…e molto, molto altro a dire la potenza e la disperazione dei sogni.

marien-coming and going

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