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Il carcere, i sogni, la forma

Luisa Lambri
Autoritratto

A cura di Diego Sileo e Douglas Fogle

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Zehra Doğan
Il tempo delle farfalle

A cura di Elettra Stamboulis

PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
Sino al 17 settembre 2021

Situazioni, contesti, luoghi, diversi. Tragici quelli di Zehra Doğan, artista curda rinchiusa nelle prigioni turche. Più liberi quelli di Luisa Lambri.

L’Autoritratto di quest’ultima è un dialogo fitto e costante con altri artisti, architetti, fotografi. Un dialogo anche e soprattutto con l’intero che non dipende dall’umano -la natura- e l’intero dall’umano costruito: i luoghi urbani, gli edifici, le opere. Si susseguono così alberi luminescenti dentro l’aria a formare una serialità vegetale che sprofonda dentro i rami e nella luce, ai quali si accompagnano fotografie che con strumenti molto semplici scavano volumi nello spazio, profondità nella materia. Case e finestre diventano trapezi e quadrati, si trasformano in righe dentro le quali oscillano colori fatti d’aria. E alla fine natura e artificio vengono ibridati in prismi che riflettono, rifrangono e moltiplicano la forza sottile e potente della visione, la sua forma.

Zehra Doğan nel febbraio del 20217 a causa della pubblicazione di un disegno su Twitter durante l’attacco dell’esercito turco a Nusaybin venne arrestata e condannata a 2 anni e 9 mesi di prigione. Qui crea Il tempo delle farfalle utilizzando asciugamani, imballi di cartone, carta stagnola, avanzi alimentari, sangue mestruale, fondi di te e di caffè. E con questi strumenti cerca di dare voce ai sogni, a ciò che rimane -come lei stessa afferma- quando ogni immagine, libro, rivista è preclusa dentro un muro, dentro l’esclusione, la discriminazione, la violenza imposte per il bene di una qualche comunità, per il bene degli altri. Almeno questa è la costante tiritera dell’autorità, questa la sua «fake news», questa la sua menzogna. Da sempre e ora e ancora e ovunque. 

Il carcere, i sogni, la forma.

Welcome

di Philippe Lioret
Francia, 2009
Con: Vincent Lindon (Simon), Firat Ayverdi (Bilal), Audrey Dana (Marion), Derya Ayverdi (Mina)
Trailer del film

Bilal è riuscito ad arrivare a Calais dall’Iraq curdo. A piedi, con ogni mezzo disponibile, subendo per una settimana le sevizie dell’esercito turco. Ora ha solo da attraversare la Manica per giungere a Londra dalla sua Mina, che però il padre ha destinato a un matrimonio combinato. Fallito un tentativo coi camion dei trafficanti, Bilal vuole imparare a nuotare perfettamente, in modo da raggiungere da solo l’Inghilterra. Chiede l’aiuto di Simon, un ex campione e ora istruttore in una piscina. Simon è solo, sta per divorziare senza neppure essere stato capace «di attraversare la strada per fermarla, mentre Bilal vuole attraversare il mare». Tra il ragazzo e Simon nasce un legame forte e insieme tenero, sobrio e profondo, che induce l’uomo a rischiare il carcere per l’amico venuto da lontano. A ottocento metri dal sogno, il sogno si infrange.

Con molto sentimento ma nessuna retorica, in modo sobrio e coinvolgente, con degli attori straordinari -a partire da Vincent Lindon-, il film descrive una realtà di dolore che attraversa il nostro continente in ogni sua parte. La polizia francese distrugge persino i contenitori dei volontari che vogliono offrire un pasto ai clandestini. La legislazione italiana ordina di lasciare i clandestini alle loro malattie e alla morte. Con i nostri eserciti portiamo guerra, fuoco e distruzione tra popoli lontani migliaia di chilometri, che nulla ci hanno fatto e che vorrebbero solo essere lasciati in pace, alle loro culture. E al frutto di queste guerre, ai profughi che cercano salvezza e fortuna, rispondiamo coi mastini. Che cosa è mai diventata l’Europa cristiana, l’Europa dei Lumi, l’Europa cosmopolita? Un fortino che pensa di salvarsi mostrandosi spietato coi deboli e servile con i padroni del mondo.

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