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Annales

Fernand Braudel (a cura di)
PROBLEMI DI METODO STORICO
Antologia delle «Annales»
Traduzione di Alfredo Salsano
Laterza, Roma-Bari 1982 (1973)
Pagine 362

Les Annales rappresentano «una complessa rivoluzione storiografica» -secondo la definizione dello stesso Fernand Braudel (p. V)- cominciata nel 1929. La rivista ha infatti permesso di cogliere, o almeno questo ha tentato di fare, una storia globale in grado di aggiungere ai nomi, alle date, agli eventi, la difficile completezza della vita quotidiana, i movimenti dei gruppi e delle cose, il permanere delle mentalità, la vita materiale. Quest’ultima, ad esempio, comprende «cinque settori abbastanza vicini: l’alimentazione; l’alloggio e il vestiario; i livelli di vita; le tecniche; i dati biologici» (209).
Questa antologia contribuisce a penetrare in tale rivoluzione scientifica, e non soltanto storiografica, della quale poter comprendere contenuti, ricchezza, limiti. Les Annales hanno collegato la storiografia alle scienze umane, a volte persino identificandola con esse ma più spesso salvandone il peculiare carattere. I suoi fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre, hanno fin dall’inizio sottolineato la necessità di «un lavoro onesto, coscienzioso e solidamente documentato» (2). La rivista ha aperto molteplici e nuovi orizzonti fra i quali, oltre quelli già ricordati, emergono l’attenzione alla demografia o alla permanenza di problemi antichi fin nella contemporaneità, come quello dell’inquinamento già presente nella Bologna del XIII secolo e nella Francia del XVIII, la cui alta mortalità è prodotta anche dal fatto che «tutte le acque dei fiumi e dei pozzi sono inquinate; quella che viene bevuta è piena di germi, e se ne fa tanto più uso in quanto il vino è raro alla tavola del povero» (507).
A volte però, durante gli anni Settanta, il rigore storiografico della rivista si stempera nel tributo alle ideologie vincenti. Così, Pierre Vilar sembra identificare la storia marxista con l’unica storia possibile perché «scientifica» (602) e Charles Morazé forza il metodo braudeliano fino a farlo coincidere con una forma di determinismo storico che rappresenta soltanto una delle sue componenti, come si vede nello splendido Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: «Così l’impotenza dei bolscevichi della prima ora di fronte all’ascesa dello stalinismo, il loro mutismo, il loro smarrimento e addirittura le loro sorprendenti “confessioni”, rientrano, a partire da una situazione data, in una logica o, se ci è lecito il neologismo, in una psicologica che consente una formalizzazione rigorosa quanto può desiderare uno spirito matematico» (520-521). Molto meglio, perché molto più dubbiosa, la conclusione del bel saggio su cinema e storiografia di Marc Ferro: «Ciò non vuol dire che la visione razionale della storia non sia valida, ma solo ricordare che, se non ci si vuole lasciar sfuggire nulla, bisogna che l’analisi non sia totalitaria, che non privilegi un unico metodo d’indagine» (628).
L’apertura metodologica e la varietà dei contenuti costituiscono alcune delle caratteristiche più preziose delle Annales, tuttora fondamentali per ogni ricerca storiografica che voglia conoscere la complessità e la ricchezza di ciò che Marc Bloch ha definito «una scienza degli uomini nel  tempo», la quale «ha incessantemente bisogno di unire lo studio dei morti a quello dei viventi», di coniugare l’analisi del passato con quella del presente (Apologia della storia o mestiere di storico [1941], Einaudi 1969, p. 56).

Mozione del Senato Accademico dell’Università di Catania sui tagli alla ricerca

Il Senato Accadcon_la_culturaemico è il più importante organo collegiale eletto da docenti, personale amministrativo e studenti in ogni Università italiana. Nella seduta del 21.12.2015 il SA del mio Ateneo ha approvato un importante documento (che pubblico qui sotto), i cui contenuti sono confermati dai dati esposti in un articolo di Roars: Università, l’Italia taglia, la Germania investe.
Per capire alcuni contenuti di questo testo aggiungo due informazioni: uno dei governi Berlusconi/Tremonti ha nel 2008 stabilito -e i governi del Partito Democratico hanno successivamnte confermato- che per assumere un nuovo docente è necessario che cinque vadano in pensione; nel mio Dipartimento (Scienze Umanistiche) tre anni fa eravamo in 180, adesso siamo ridotti a 131 docenti, i quali debbono sostenere in ogni caso ben 13 Corsi di laurea. È del tutto evidente che in questo modo l’Università muore per inedia, per fame. Ed è altrettanto evidente che il futuro appare problematico per i numerosi studenti ricchi di talento e di passione, nel caso in cui volessero intraprendere la carriera accademica. Non ci sono soldi? Non è vero, i soldi ci sono per tante altre destinazioni: ad esempio per l’insensata occupazione dell’Afghanistan e di altre terre, la quale costa alle finanze pubbliche 2,7 milioni di euro al giorno («Tutti soldi “civili” usati per spese militari: generosi finanziamenti integrativi strutturali al bilancio della Difesa, come i miliardi di contributi del ministero dello Sviluppo economico per l’acquisto di armamenti»). Che cosa si potrebbe ottenere con una tale cifra a favore di sanità, scuola e università? Anche per questo quello di Renzi è un governo criminale, perché uccide la ricerca e il futuro.

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L’Italia, contrariamente ad altri Paesi europei e alla maggioranza di quelli OCSE, ha scelto, in questi anni, di ridurre il finanziamento pubblico dell’istruzione universitaria e della ricerca, in una contingenza storica particolarmente difficile, caratterizzata da una crisi economica che sta consigliando agli altri Paesi di investire in innovazione per realizzare una radicale ristrutturazione dei propri sistemi produttivi. Questa scelta non è priva di conseguenze strutturali: pesante riduzione degli organici del personale docente e di quello tecnico-amministrativo, con riduzione altrettanto significativa del potenziale formativo e conseguente necessità di introdurre il numero programmato in sempre più corsi di studio. Il disinvestimento nell’Università ha anche comportato una riduzione degli interventi finanziari a sostegno del diritto allo studio.

Le conseguenze negative di questo stato di cose si misurano, soprattutto, in termini di opportunità di futuro per le giovani generazioni: si riduce, in particolare al Sud, il numero dei giovani che, completato il ciclo di istruzione superiore, decidono di immatricolarsi all’Università, in un Paese che presenta un gravissimo deficit di laureati, non soltanto rispetto ai Paesi europei più sviluppati, ma anche a quelli che sono in condizioni di sviluppo economico meno pronunciato.

In questo contesto, il sistema universitario italiano ha, tuttavia, mostrato un grande senso di responsabilità nei confronti del Paese: ha contribuito attivamente alla buona riuscita dei processi di valutazione della ricerca e di accreditamento dei corsi di studio; ha realizzato una produzione scientifica di qualità, nonostante la (quasi) scomparsa del finanziamento pubblico nazionale dei progetti di ricerca; ha contribuito, più di ogni altra categoria del pubblico impiego, al risanamento della finanza pubblica, subendo un blocco delle progressioni stipendiali temporalmente più lungo.

Il Senato Accademico dell’Università di Catania, pur convinto dell’importanza della valutazione per garantire una compiuta responsabilizzazione delle Università, ritiene che, permanendo la scelta di riduzione del finanziamento pubblico degli Atenei, i processi di valutazione non potranno garantire efficacemente il riconoscimento del merito e, pertanto, comprende il clima di sfiducia nei confronti della VQR, rilevabile dalle mozioni deliberate da numerosi Consigli di Dipartimento dell’Ateneo, così come di molti altri Atenei e dello stesso CUN, condividendo la posizione assunta dalla Conferenza dei Rettori nei confronti dell’esercizio di valutazione.

Il Senato Accademico, altresì, chiede al Governo:

  • Un piano straordinario di reclutamento di ricercatori a tempo determinato, in particolare di tipo b).
  • Una seconda tranche di finanziamento del piano straordinario associati e l’attivazione di un piano straordinario per il reclutamento di professori ordinari.
  • Finanziamenti adeguati a garantire a tutti gli studenti bisognosi e meritevoli il loro diritto allo studio, attraverso le borse di studio e anche con un investimento sulle strutture.
  • La rimozione del blocco degli scatti stipendiali dal 2015 e il riconoscimento, ai soli fini previdenziali, del quadriennio 2011-2014.
  • Il rinnovo dei contratti del personale tecnico-amministrativo, nonché un finanziamento per un piano straordinario di assunzioni.
  • Un finanziamento adeguato dei piani di ricerca nazionali.

Il Senato Accademico ritiene, inoltre, che vadano ripensati i criteri di ripartizione della quota premiale del FFO, evitando che essi siano ancora una volta ricollegati alla VQR, privilegiando, invece, una valutazione dei progressi nella qualità della didattica e della ricerca che tenga conto dei punti di partenza dei singoli Atenei.

Il Senato Accademico chiede al Rettore di farsi portatore, nelle sedi opportune, dei contenuti di questa mozione e di promuovere, presso la CRUI, un’azione coordinata a livello nazionale anche per affermare il ruolo primario del sistema pubblico dell’istruzione universitaria e della ricerca nella crescita di un Paese moderno.

Ignoranza e sottomissione

Il CUdA è la struttura di coordinamento dei docenti dell’Ateneo di Catania. Tra i suoi strumenti vi è una lista di discussione piuttosto vivace. Lo scorso 3 aprile il collega Attilio Scuderi vi ha pubblicato la seguente lettera:

«Care e cari,
cito da Repubblica.it

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Ed è sull’università che il ministro [Giannini] annuncia la novità: «Toglieremo l’università dal regime contrattuale della funzione pubblica e costruiremo un contratto proprio. L’università e la ricerca hanno regole specifiche e obiettivi specifici che non sono esattamente quelli del pubblico impiego. Riuscire ad arrivare a un obiettivo del genere sarebbe veramente un grande traguardo”. E si deve avviare una riflessione sul ringiovanimento degli atenei e il reclutamento accademico. “Questo sarà un anno costituente per l’università, come è stato per la scuola. Ricordo che abbiamo liberato garantito 1200 nuovi posti da ricercatore nel biennio, ma ci vuole uno sforzo in più. Sui precari dell’università si deve fare una riflessione più economica, perché sono numeri diversi rispetto alla scuola, ma anche più lungimirante per quanto riguarda la comparazione necessaria con il contesto internazionale. Chi fa ricerca non la fa in Italia, la fa in uno spazio europeo destinato a essere sempre più omogeneo e interscambiabile».
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Lascio valutare a voi cosa questo significhi o possa significare; e quanto possa essere significativa, di contro, la cifra di 1200 rtd [Ricercatori a tempo determinato] a fronte di 10.000 pensionamenti. Certo è singolare questo superamento del  ‘vecchio’ pubblico impiego verso ‘nuove forme contrattuali’…»

Questa è stata la mia risposta:
«Caro Attilio,
è evidente che si tratta di un altro passo -forse definitivo- verso la realizzazione di un progetto da anni tenacemente perseguito: la trasformazione dell’Università da struttura scientifico-didattica a struttura aziendale. Basta aver seguito con un po’ di costanza le attività della Confindustria negli ultimi quindici anni in questo ambito -in particolare i suoi rapporti con il Miur- per rendersene facilmente conto.
È una tendenza in atto dal cosiddetto Processo di Bologna iniziato nel 1999 e voluto con entusiasmo da Luigi Berlinguer. In tutto questo la Confindustria ha goduto del sostegno convinto degli eredi del Partito Comunista Italiano. Le ragioni di tale comportamento possono essere numerose e diverse:

  • un tipico senso di colpa che ha fatto transitare costoro dallo statalismo di marca sovietica al più sfrenato liberismo;
  • i vantaggi in termini personali (carriere, finanziamenti e altro) impliciti in una simile alleanza;
  • il seguire lo ‘spirito del tempo’;
  • l’abituale conformismo.

SpesaIstruzioneTerziariaItalyIl risultato è quello indicato dal grafico che allego (tratto da un breve articolo odierno di Roars). E soprattutto il risultato è quanto tutti noi -docenti e studenti- viviamo ogni giorno, ormai da anni. Per quanto riguarda, infine, gli ‘eredi del PCI’, essi non esistono più. Si sono distrutti da soli, affidando quello che rimaneva del loro partito a un democristiano e ai suoi legami (palesi e nascosti). È il caso, pressoché unico, di un partito che si spiaggia e muore per restituire vita alla ‘Balena Bianca’, al peggio della vecchia Democrazia Cristiana. Riposino in pace. Il dramma è che questi zombie cercano di afferrarci nel loro morire».

La conferma che il Partito Democratico è un assemblaggio di bande criminali, dedite a difendere i privilegi delle peggiori strutture sociali, sta in un fatto assai grave: dal prossimo anno infatti i corsi universitari potranno essere tenuti in piedi da docenti precari e non selezionati, i quali non potranno offrire alcuna garanzia scientifica e didattica ma che avranno il pregio di non essere assunti e di venire pagati poche migliaia di euro all’anno (sì, all’anno). Roars li chiama, giustamente, «non docenti di riferimento». E perché si è arrivati a questo? Soprattutto per garantire la sopravvivenza delle cosiddette ‘università telematiche’, dei diplomifici di infimo livello, presso i quali è possibile, in pratica, comprarsi le lauree. Mantenendo i criteri stabiliti dalla legge -numero minimo di docenti strutturati [di ruolo], numero minimo di docenti ordinari- molte di queste ‘università’ avrebbero dovuto chiudere. Ma la loro capacità di lobbying deve essere assai convincente -e con argomenti concreti- tanto da aver sconfitto persino l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione della ricerca che è ultrasevera nei confronti delle Università pubbliche e che però ha dovuto cedere di fronte all’influenza che le finte università esercitano sui parlamentari della maggioranza di governo, sul governo stesso e sui partiti che lo sostengono.

Giuseppe De Nicolao giustamente si chiede: «Che legittimità resta all’ANVUR, se non riesce ad imporre un livello minimo neppure alla “zona franca” delle telematiche? Se Fantoni [presidente dell’Anvur] fosse coerente con la sua intervista a Repubblica (titolo: “Lauree facili non fidatevi degli atenei web”), dovrebbe dare le dimissioni in segno di protesta nei confronti del Ministro che lo ha clamorosamente sconfessato. Altrimenti, sembra che tutta la retorica del rigore e della meritocrazia sia solo un pretesto per dismettere l’università pubblica» (Telematiche contro ANVUR: 1-0 e palla al centro, Roars, 8.4.2015).
Questa è la non-università voluta dal governo del Partito Democratico-Nuovo Centrodestra. Per un’Italia senza ricerca. Per un’Italia senza futuro. Per un’Italia sempre più ignorante. E quindi più facilmente sottomessa.

Dialettica di Polifemo

Teatro Franco Parenti – Milano
Io, Nessuno e Polifemo
di Emma Dante
con Emma Dante, Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola, Federica Aloisio, Giusi Vicari, Viola Carinci
musiche eseguite dal vivo da Serena Ganci
regia di Emma Dante
produzione del Teatro Biondo Stabile di Palermo
Sino al 30 settembre 2014

Odisseo è la hybris che tenta coi suoi enigmi la Montagna. Di sé Polifemo dice infatti d’essere «tutt’uno con la roccia, monotono e gigantesco, un’enorme montagna senza cuore». Una forza che viveva nella sua armonia monòcola e materica, in pace con gli dèi e con gli animali, prima che arrivasse l’umano predatore, fatto di arroganza e di conquista. Odisseo è l’intera specie che finge di essere ciò che non è: signora e padrone dell’essente. E la Montagna li ha puniti, li ha mangiati, li ha ricondotti al vento effimero che siamo. Uno solo è riuscito a volgere la forza della terra in violenza contro se stessa. E quest’uno adesso racconta spavaldo la sua impresa, l’energia della sua mente e delle braccia. Balla persino, al ritmo della memoria che lo ha reso immortale e che insieme a lui ha indurato Polifemo.
Emma Dante parla dunque dell’antichissimo mito illuminista che Horkheimer e Adorno hanno saputo così bene illustrare nell’Excursus I della loro opera maggiore: «Il lungo errare da Troia ad Itaca è l’itinerario del soggetto -infinitamente debole, dal punto di vista fisico, rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza-, l’itinerario del Sé attraverso i miti». Ma «il soggetto ricade nello stesso circolo vizioso della necessità naturale a cui cerca di sfuggire assimilandosi. Chi, per salvarsi, si chiama Nessuno e adopera l’assimilazione allo stato di natura come mezzo del dominio della natura, cade in preda alla hybris. L’astuto Odisseo non può fare diversamente: in fuga, ancora a portata di tiro delle mani del gigante, non si limita a schernirlo, ma gli rivela il suo vero nome e la sua origine, come se la preistoria avesse ancora tanto potere su di lui, scampato ogni volta per un pelo, da fargli temere, dopo essersi chiamato Nessuno, di poter ritornare nuovamente nessuno, se non provvede a restaurare la propria identità per mezzo della parola magica di cui l’identità razionale ha preso il posto» (Dialettica dell’illuminismo, trad. di R. Solmi, Einaudi 1982, pp. 54 e 75).
Questo testo e la sua messinscena costituiscono dunque una riflessione attenta e acuta sull’umano e la sua natura ma sono anche danza e musica, sono umorismo e spiazzamento rispetto all’ovvio -il parlar partenopeo dei due nemici coniuga, appunto, musica e divertimento-, sono una diversione leggera e danzante rispetto alla consueta drammaturgia affilata e dura della Dante. Ma Io, Nessuno e Polifemo è soprattutto un’esplicita dichiarazione di poetica teatrale. Vi vengono citati gli autori che hanno fatto delle parlate dialettali il mezzo e la sostanza di un teatro che non è spettacolo ma è un itinerario dentro il linguaggio che non obbedisce: Viviani, Eduardo, Dario Fo. E poi un altro nome. Viene enunciato all’inizio, rispondendo alla domanda del ciclope sul perché la «signò» si occupi ancora di questo racconto truce e sanguinario, innumerevoli volte raccontato. «Perché», risponde Emma, «un teatro che non sia violenza e crudeltà è spettacolo e non teatro, come sapeva Carmelo Bene». All’ulteriore domanda di Polifemo sul perché, dunque, non si occupi di quest’altro invece che di lui, Emma risponde che «Bene è un morto fresco, non si è abituato all’eterno».
La fisicità estrema -tratto della drammaturgia dantesca- qui sembra molto stemperarsi in un testo persino didascalico ma ricompare intensa nei movimenti delle tre danzatrici -marionette della Necessità, ballerine di dance, astute penelopi- e nella voce/percussione di Serena Ganci.
Le parole con cui si chiude l’incontro con la Montagna sacra e antropofaga alludono alla polvere alla quale tutto sarà ridotto, polvere che nessuno può scansare.

Ludens

Homo ludens
di Johan Huizinga
(1938-1940)
Traduzione di Corinna von Schendel
Il Saggiatore, 1983
Pagine 304

huizingaPiù antico di ogni sapere, il gioco è l’elemento generatore di gran parte della vita individuale e collettiva. Questo significa, più o meno, il sottotitolo originale dell’opera: «Saggio sull’origine delle civiltà dal gioco». Huizinga mostra attraverso quali vie l’elemento ludico abbia generato e continui a nutrire la conoscenza, l’arte, la poesia, il diritto, la guerra, il mito, le scienze, la filosofia. Il gioco «è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di ‘essere diversi’ dalla ‘vita ordinaria’» (p. 55). Senza tale elemento ludico non possono esistere la cultura e la società. Huizinga lo mostra con splendida erudizione. Tra i tanti esempi, due mi sembrano particolarmente chiari.
Nella lingua giapponese ogni attività delle classi superiori è legata al gioco, tanto che «il samurai stimava che ciò che è cosa seria per gli uomini comuni deve essere un gioco per l’uomo di valore» (153; cfr. anche 63). Ciò significa che il gioco è una delle azioni che meglio distinguono l’Homo sapiens dall’umano come esclusivo oggetto di bisogni primari; il giocare è pertanto un’attività estremamente importante con la quale «la vita sociale si riveste di forme sopra-biologiche che le conferiscono maggior valore» (78).
Riferendosi a Platone, Huizinga osserva che per lui «la filosofia, comunque approfondita, rimase un nobile gioco» (219) e l’umano stesso è un giocattolo in mano agli dèi -cioè alla necessità-, degno di ben poca considerazione.
L’esistenza si mantiene così in una dimensione leggera e insieme tragica. Una dimensione che dopo il Settecento la civiltà europea sembra aver progressivamente smarrito, sostituita da un ‘puerilismo’ che è stolto e sterile capriccio. Huizinga osserva che lo stesso sport professionistico conferma questo venir meno dell’unità fra gioco e cultura.
Homo ludens fa ben comprendere quanto l’esistenza umana abbia di apparenza, maschera, parata, rito. Prendere la vita come un gioco è il contrario di ogni volgare superficialità; significa piuttosto capire che le nostre azioni non possiedono alcun destino eterno e che racchiudono in se stesse il loro senso. Proprio per questo sono serissime e devono rispettare le regole del gioco. Altrimenti il dominio sarà dei (pre)potenti che non sanno giocare e sono soltanto dei guastafeste.

Corpo/Cultura

La corporeità umana è un insieme inseparabile di natura, cultura e tecnica.
La dimensione naturale fa del corpo un organismo che si pone in continuità con la struttura atomica, molecolare, biologica della Terra, delle piante, degli altri animali. Come essi, il corpo è sottomesso alle leggi fisiche di gravitazione, impenetrabilità, unicità spaziale; è sottoposto alle leggi chimiche dello scambio energetico e termico, alla regola universale dell’entropia; è soggetto alle leggi biologiche del metabolismo, della crescita, maturazione e decadenza, è ostaggio sin dall’inizio della morte.
Come cultura, il corpo è segnato dai simboli cosmici e politici, dai tatuaggi che riproducono le forze degli altri animali e degli dèi, dagli abiti che lo coprono, difendono, modellano e immergono nei gusti estetici e nei modi di fare quotidiani di un’epoca, un popolo, una società. Come cultura, il corpo è desiderato in sembianze anche estetiche e non solo sessuali e riproduttive; diventa modello per le forme nello spazio, per i colori sulle tele, per le narrazioni letterarie. Come cultura, il corpo è esibito nelle piccole e grandi occasioni sociali e nelle forme rituali collettive (la hola degli stadi, il ballo nelle discoteche, il corpo dell’attore nei teatri). Come cultura, il corpo è agglutinato nelle masse che manifestano, scioperano, scandiscono slogan a una voce che sembra sola ma che in realtà è il frutto del convergere di esclamazioni innumerevoli. Come cultura, il corpo è sacralizzato nei totem, nei crocifissi, nei corpi paramentati a festa dei sacerdoti. Come cultura, il corpo inventa le forme che percepisce nello spazio e le loro regolarità; elabora i colori -veri e propri significati virtuali del nostro cervello- e in generale le immagini che danno spessore e profondità alla nostra percezione. Come cultura, il corpo è guardato –e non solo percepito-, è ammirato, compianto, commentato, imitato, segnato dai giudizi degli altri corpi. Come cultura, il corpo parla e il suo dire, il suono fisico capace di esprimere il processo immateriale del pensare, incide a fondo, produce eventi, sconvolge luoghi, trasforma le esistenze, plasma la storia. Come cultura, persino i prodotti organici del corpo –saliva, lacrime, sudore- sono irriducibili alla dimensione soltanto biologica e indicano, invece, un intero mondo di emozioni e di significati.
La corporeità è la nostra dimensione di enti finiti, la cui intelligenza consiste in gran parte nella comprensione del bastione temporale oltre il quale al corpo –e quindi a noi- è impossibile andare.

 

Catania sì bella e perduta

Catania 1870-1939. Cultura Memoria Tutela
ex Quartiere militare borbonico già Manifattura tabacchi – Catania
A cura di Irene Donatella Aprile
Sino al 25 marzo 2012

Per quasi un secolo molte operaie hanno buttato sangue e polmoni in questo luogo, trasformato nella manifattura dei tabacchi. Prima era stato il Quartiere militare edificato allo scopo di controllare la città dopo i moti del 1820-21. Adesso è diventata la sede del futuro (quanto?) Museo Archeologico regionale. Intanto, dietro l’imponente facciata neoclassica ospita una mostra documentaria di ineguale livello nelle sue sei sezioni ma certamente di grande interesse.
Paesaggio urbano mostra i progetti e le modifiche che tra fine Ottocento e primi Novecento privarono (e tuttora privano) Catania del suo mare. Da un lato, infatti, venne ampliato il porto ma dall’altro fu costruito proprio sulla costa il lungo viadotto ferroviario (i cosiddetti “Archi della marina”) che fa da ostacolo a un contatto diretto della città con il mare, tanto più dopo il successivo interramento degli archi stessi, sotto i quali all’inizio passava ancora l’acqua.
La sezione Archeologia espone una selezione, in verità piuttosto ridotta, di vasi, rilievi, statue conservate nel museo civico.
Quello dedicato all’Arte è lo spazio più ampio ed eclettico: pupi siciliani, dipinti di pittori non soltanto locali operanti nel periodo, gli eleganti arredi e quadri della Camera di commercio, collezioni private.
Una sezione specifica è dedicata alle Case della memoria, le case museo di Giovanni Verga, di Mario Rapisardi, di Alessandro Abate, l’interessantissima Casa del mutilato, con il suo intreccio di déco e di razionalismo modernista.
Editoria mostra la vivacità culturale che mai (per fortuna) è venuta meno in Sicilia. Un semplice e lungo elenco dei nomi degli scrittori più noti conferma come quest’Isola sia ancora un luogo di bellezza e di pensiero. L’editoria scolastica e i periodici documentano soprattutto la progressiva e totale subordinazione della scuola al fascismo. I libri di testo e i giornali per bambini e ragazzi sono tutti volti alla lode del Duce, alla ripetizione ossessiva delle sue formule, alla monumentalizzazione imperiale della storia italiana. È comunque molto intrigante osservare le copertine di questi libri e riviste: Il Balilla, Il Corriere dei piccoli, Emporium, La cucina italiana, La lettura, Le vie d’Italia (del Touring Club).
La sezione fondamentale per capire il senso della mostra è Architettura. Pur composto soltanto da progetti e da fotografie, è uno spazio che fa comprendere quanto sia bella ed elegante questa città. Catania pullula di ville neoclassiche, liberty, déco. Concentrate in particolare in viale Regina Margherita, sopravvivono anche in via Etnea, Tomaselli, Leucatia, Umberto, in viale Rapisardi, in corso Italia e in altri quartieri. Lo scempio urbanistico e il disordine architettonico degli anni Sessanta e Settanta hanno rubato alla città la sua armonia ma non sono stati capaci di fare tabula rasa di alcuni degli edifici più belli eretti in Sicilia nei decenni 1870-1940. Alcune di queste costruzioni sono in stato di profondo degrado -clamoroso il caso di Villa Manganelli-, altre sono invece state restaurate o non hanno mai perduto la loro forza: il cinema Odeon, il Palazzo della Borsa, Villa Pancari, caratterizzata da un armonioso liberty privo degli eccessi decorativi; è opera dell’architetto Paolo Lanzerotti, che fu molto attivo nella sua città e la cui vita (1875-1944) coincise con l’arco temporale documentato dalla mostra. 
Mostra che consiglio di visitare in quest’ultima settimana di apertura, nonostante i suoi proibitivi orari “catanesi” (9-13 tutti i giorni, con due sole aperture pomeridiane martedì e giovedì dalle 9 alle 18).
È bella Catania, nonostante lo stupro subìto da parte dei palazzinari, degli ignoranti, degli amministratori corrottissimi e incapaci che da decenni la governano senza pause con l’attiva complicità dei professionisti, dell’Università, del popolo. Tutti soggetti che sembrano contenti che lo spazio urbano nel quale si svolge la loro vita continui a essere violentato. Ma sotto il suo cielo azzurro e splendido la città mostra ancora, a chi sappia guardare, tutta la sua eleganza.

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